§ Euromanagers / Prospettive del Salento

Per una scuola d'impresa




Pietro Montinari



In un convegno svoltosi a Lecce qualche tempo fa, alcuni politici ed imprenditori hanno riflettuto sull'idea di fondare una scuola d'impresa nel Salento, per agevolare la diffusione della cultura industriale nella nostra terra. Ritengo che l'idea meriti il commento dell'intero Salento, indipendentemente dal credo politico e dal ruolo di ognuno. Infatti, la scuola d'impresa è, come ogni altra scuola, una istituzione della cultura che, quando è autentica, non conosce steccati.
Orbene, quale terapia, meglio di quella culturale, può risvegliare la coscienza civile salentina? Penso nessuna, se è vero che solo una rivoluzione intellettuale e culturale può comportare il rinnovamento. Come giù in passato, anche oggi l'iniziativa della rivoluzione andrebbe consegnato ad una minoranza di borghesi intellettuali e di imprenditori illuminati. infatti a me pare che la maggioranza dei comuni cittadini meno degli uomini politici colga il senso della superiorità dell'interesse pubblico rispetto alla inferiorità degli interessi particolari. Ribadisco: il problema del cambiamento è culturale per l'intera società, ed è di cultura industriale per la società imprenditoriale.
Oggi in Italia il regno dei più è la nicchia, non lo Stato. La logica ricorrente si spiega nel corridoio, non nel gruppo. L'Italia politica piange non perché gli uomini politici la inducono in lacrime, ma perché troppi comuni cittadini hanno la mentalità degli uomoni politici comuni. Mi ripeto: la strada del "nuovo Risorgimento" parte non dallo Stato, non dal paese legale, ma dal coraggio della minoranza civile di promuovere il cambiamento del costume del nostro popolo. I cittadini che vogliono partecipare alla promozione del cambiamento devono sostenere gli uomini nuovi nella politica. Il trionfo della cultura nella politica rappresenta la chiave di volta del cambiamento politico e sociale.
Nella civiltà dell'immagine, che ha avvilito la civiltà della parola seminando quell'incomunicabilità profetizzata da Ungaretti agli albori di questo secolo, il cittadino deve rivitalizzare la propria coscienza civile dibattendo, il giovane deve trovare riferimenti ideali, l'imprenditore autonomo deve individuare nella politica e nella società interlocutori autonomi con cui collaborare non solo per il progresso civile ed economico della propria impresa ma anche per il progresso del Paese.
In Aristotele, l'uomo è animale politico. L'imprenditore è cittadino ed è uomo: è dunque anch'egli animale politico. E' tale in quanto intesse relazioni coi suoi simili. L'imprenditore è però un animale atipico. Il suo è lo stile del battitore libero e lo si può capire e giustificare, posto che la mira economica dell'imprenditore consista nella massimizzazione dei profitto della impresa.
Ma l'impresa non è solo centro tecnicoproduttivo. Con Ansoff, De Woot, Holl, Pastore, Piantoni, l'impresa è nucleo sociale in cui si può attuare Il proposito filosofico dell'imprenditore "scientifico": conciliare la propria personalità economica con la personalità sociale investendosi di un ruolo sociale che trascenda il recinto della propria impresa senza mortificarne il profitto.
A questa conciliazione si può pervenire facendo tesoro della lezione kantiano, fondamentale nella storia della filosofia, perché risolutrice, sul piano gnoseologico e metodologico, dei contrasto tra il razionalismo cartesiano e leibnitziano e l'empirismo baconiano e lookiano.
Infatti il giudizio sintetico a priori proposto da Kant del razionalismo e dell'empirismo raccoglie solo i vantaggi: l'universalità e la concretezza, offrendo così all'uomo pratico, dunque anche all'imprenditore, una lezione di metodo utilissima.
La vita riserva sorprese. Chi mai penserebbe di attingere alla filosofia per dare lumi all'imprenditore? La più astratta di tutte le scienze al servizio del più concreto di tutti gli esseri: l'uomo d'impresa.
E se tale nuova utilità della filosofia servisse ad individuare un nuovo ruolo per questa disciplina oggi pervasa dalla crisi d'identità?
Io mi aspetto che l'imprenditore del Duemila, l'imprenditore che io amo definire scientifico, sia "il filosofo". Sarà la rivincita della filosofia su tutti coloro i quali hanno eletto la pratica, dea dell'Azione e su coloro che hanno affidato alle sole scienze esatte il monopolio della Ragione, seminando il languore morale del nostro tempo.
Io mi aspetto che l'imprenditore guida dei futuro prossimo sarà un filosofo. Platone, Aristotele, San Tommaso, Bacone, Cartesio, Kant, Hegel, Marx, e quant'altri abbiano dato indirizzo agli annali della storia della filosofia, si sono rivelati grandi perché sistematici del pensiero più che speculatori, sia pure fertili, di idee... Essi hanno creato sistemi.
Ebbene, l'impresa è un sistema. E' quindi un prodotto filosofico. Diventare imprenditore vuol dire creare il sistema dell'impresa; vuol dire, nella concezione avanzata, integrare conoscenze scientifiche diverse con la pratica operativa al fine di conseguire quel vantaggio competitivo celebrato da Michel Poorter. L'integrazione implica la sintesi, e siccome in Kant la sintesi è felicemente proposta come l'esito della dialettica tra gli opposti, tesi ed antitesi, l'arma che l'imprenditore può adoperare per risolvere l'opposizione dei conflitti d'interessi in seno al sistema d'impresa e tra l'impresa e l'ambiente gli deriva dal suo potere di sintesi dell'organizzazione d'impresa.
Siccome il sistema è l'oggetto della sintesi, posto che non si possa ragionevolmente sintetizzare ciò che non si conosce, posto che la conoscenza sia potere, cioè capacità consapevole di deliberare, l'imprenditore è il sistematico dell'impresa, la conosce e ne riassume la sostanza, acquisendo così il potere necessario per decidere consapevolmente e saggiamente. E siccome, come sopra scritto, nella storia il sistematico è il filosofo per eccellenza, l'imprenditore è un filosofo.
Può essere questa una condizione comune a qualsivoglia professionista? Non credo. Infatti il libero professionista tradizionale, non associato ad altri, non è filosofo perché pone la propria prestazione d'opera al servizio altrui. L'imprenditore, invece, pone le prestazioni a lui subordinate, e le prestazioni d'opera per lui eseguite, al servizio del suo sistema aziendale.
Dunque la filosofia ha ancora un peso, se è vero come è vero che gli scienziati dell'informatica della quinto generazione hanno compreso forse meglio degli stessi filosofi di professione che la filosofia ha un ruolo strategico da rivalutare. Dovendo dotare i futuri computers di una intelligenza paragonabile a quella umano, gli informatici hanno coinvolto filosofi, psicologi e pedagogisti nello studio dei reconditi meccanismi di funzionamento della macchina umana.
Si potrebbe insinuare che i primi responsabili del declino della filosofia siano gli stessi filosofi, che non si preoccupano di porre al servizio del mondo dei fenomeni i contenuti della loro materia.
Ripuntiamo i riflettori sull'imprenditore. L'imprenditore, capace di scelte sociali, infonde allo sviluppo dell'impresa l'indirizzo dei progresso. Perché? Il progresso è pensiero ed è scelta innovativo (cioè applicazione delle invenzioni e delle scoperte). L'imprenditore che svolga un ruolo sociale è uomo che pensa e sceglie l'innovazione, dunque è artefice di progresso. Può svolgere un ruolo sociale solo l'imprenditore provvisto di socialità sociologicamente concepita come il possesso di se stessi e la capacita di dare agli altri. Siccome la socialità è il lievito della solidarietà, l'imprenditore con un ruolo sociale è l'imprenditore della solidarietà.
Con Adriano Olivetti abbiamo conosciuto in Italia il capostipite, di matrice laica, di quella sparuta famiglia di imprenditori nostrani del Novecento che perora l'idea della strategia sociale dell'impresa. Occorre lavorare per animare questa famiglia e per render corrusca la flebile luce della sua tradizione. Solo così lo schumpeteriano protagonista dello sviluppo prevarrà nella società sul cowboy del capitalismo selvaggio. Confesso di sentirmi solo.
E' vero. Il problema del divorzio tra Nord e Sud è in noi. Il nostro alibi storico, tradotto nel teatro con il vittimismo e la filosofia della rassegnazione di De Filippo, consiste nell'aver sempre pretesa di mutare dalle istituzioni, lo Stato, la Regione, il Comune, quella forza innovatrice che noi dobbiamo invece rinvenire in noi e solo in noi. Noi meridionali ci ostiniamo ad invocare la comprensione degli italiani del Nord.
I settentrionali sono più bravi di noi non tanto perché godono di una storia propizia, di una tradizione civile ed economica fertile, ma perché sanno mantenere quella tradizione. Infatti, nel caso dell'industria, l'imprenditore non è colui che lancia felicemente l'impresa nel mercato, ma colui che la consolida nel tempo.
Noi meridionali dobbiamo abbandonare gli asciugamani bagnati di lacrime defilippiane, per munirci di umiltà e di grinta. Con l'umiltà dobbiamo scrutare pazientemente i meccanismi della civiltà settentrionale. Con la grinta e con l'intelletto, che certo non difetta in noi, dobbiamo adattare al Sud le leggi del Nord. I giapponesi hanno carpito il successo al mondo perché sono i fotografi del mondo. E questo indipendentemente dalla particolarissima civiltà del Sol Levante, che è servita loro a consolidare lo sviluppo più che ad avviarlo. I punti d'avvio del progresso giapponese sono "l'attitudine alla fotografia", ovvero la disposizione ad osservare i fenomeni e la grinta. Orbene, ritorniamo all'idea della scuola d'impresa?
Felice intuizione, purché s'impieghino in esso organizzatori e docenti capaci di sprovincializzare il nostro Salento e di abituare i nostri imprenditori a credere che oggi il vantaggio competitivo si guadagno trasformando l'impresa in una palestra di cultura. La cultura è conoscenza. Il sistema d'impresa regge sulla massa di decisioni che i protagonisti dell'impresa sono chiamati a prendere ininterrottamente. Meglio decide, e migliori risultati economici consegue, l'imprenditore che più e meglio conosce la propria impresa, i costi, il mercato e l'ambiente in cui esso opera. Dunque la cultura, che è conoscenza, dono il vantaggio competitivo ed accresce il risultato economico perché illumina la via che conduce alla saggia decisione.
Tutto nasce dall'assunto di Einaudi: "Conoscere per deliberare". Non èuna predica inutile. E' il convincimento che chi rigetta l'idea della cultura nell'impresa, in nome di un presunto praticismo e di una preconcetta inconciliabilità della teoria con la pratica, identifica la cultura con l'erudizione. L'erudizione è il patrimonio delle conoscenze fine a se stesso. La cultura, invece, è il patrimonio delle conoscenze al servizio del mondo.
Nell'Ottocento l'imprenditore vincente era il capitano d'industria. Oggi tutto è immensamente più complesso, per cui l'imprenditore con la sola forza dell'intuito e del carattere arranca oppure si trasforma in un avvoltoio sociale, in un potente del denaro. Il capitalismo selvaggio è il prodotto dell'incoscienza degli avvoltoi sociali e la criminalità è la degenerazione dei capitalismo selvaggio. Nella nostra Puglia e nel Salento, la cultura deve tornare a trionfare nell'industria come nella politica, anche perché parecchia gente nutre un bisogno sovente inespresso di qualità nel ceto dirigente pubblico e privato. Nel tempo dell'impresa internazionalizzata, dell'Europa che corre verso la comunione della Finanza, della politica e delle lingue, la guida dei sistema industriale è sempre più diffusamente affidata a nuove ed eclettiche figure professionali: gli euromanagers. Il Salento deve proporre in tempo i propri euromanagers, se intende condividere con le regioni' avanzate d'Europa la sfida del Duemila, ma deve per questo creare i presupposti istituzionali. La scuola d'impresa è una di questi.

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