§ Rivisitando Adam Smith

Il sacro egoismo che arricchisce le nazioni




M.C. Milo, A. Foresi, F. Albini
Collab. E. Marasco, G. Castronovo



Il rapimento di un fanciullo da parte di zingari nomadi oggi fa notizia. I mezzi di comunicazione ne amplificano la portata e favoriscono lo sdegno e l'esecrazione della comunità.
Quando, nel lontano 1726, un bimbo di tre anni, scozzese, di nome Adam, venne rapito nel suo paese per alcune ore, lo seppero i familiari e qualche altro abitante del luogo. E nessuno, allora, poteva pensare che quello sarebbe stato l'Adam Smith considerato il genio dell'economia liberale; né che più di due secoli e mezzo dopo, all'inizio degli anni Novanta, sarebbe stato al centro della riflessione del mondo dell'economia per decretarne ancora la grandezza e la validità; né, infine, che gli studiosi riuniti a Edimburgo per riconsiderare globalmente la posizione dello scrittore scozzese avrebbero messo a confronto, in un'alchimia tipica delle grandi occasioni, "Una indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni", libro iniziato a scrivere nel 1764 "per passare il tempo" (così scriveva Smith, da Tolosa, a Hume), "Il capitale" di Karl Marx e la "Teoria generale dell'occupazione" di John Maynard Keynes: un confronto appassionato, ricco di scontri e di incontri fra undici premi Nobel e i migliori studiosi di economia. Smith si è trovato al centro di un palcoscenico nel quale non erano soltanto le idee a muovere la scena, ma avvenimenti storici di grande importanza.
La caduta del muro di Berlino, diventato il simbolo del reale processo di decadenza dell'impero sovietico, è stata anche il riferimento per decifrare le ragioni più profonde della crisi di un pensiero economico, quello marxiano, che di quell'impero aveva costituito il sostegno teorico più naturale. E, nella schermaglia tra rappresentanti della destra economica e quelli della sinistra, la destra ha cercato di operare gli a fondo più decisi, utilizzando la scienza del Newton dell'economia politica e cercando di dimostrare la validità del teorico liberale del "mercato" contro il sostenitore della socializzazione della proprietà.
Per una circostanza storica ben definita, a duecento anni dalla morte, è stata celebrata la grandezza del massimo tra gli economisti liberali, che il suo tempo apprezzò più per le idee filosofiche che per il notevole sforzo compiuto a favore della scienza economica. Non che quel poderoso lavoro sia rimasto inascoltato e abbia dovuto attendere tanti anni per ricevere la consacrazione storica. Con esso si sono confrontate tutte le generazioni di studiosi dell'economia, sia per trarre conforto alle loro ipotesi di lettura della realtà economica in evoluzione, sia per mostrarne le debolezze rispetto al progredire della società industriale in forte espansione.
Punto centrale, questo, di uno sviluppo di pensiero dinamicamente proiettato all'individuazione delle regole della crescita economica e civile delle nazioni e alla scoperta delle forze interne al dinamismo economico.
Per colmare in qualche modo la noia del soggiorno a Tolosa, città nella quale si era recato accettando l'offerta di tutore del figliastro di Charles Townshend, l'uomo politico che come Cancelliere dello Scacchiere favori con la tassa sul tè e con altre imposte lo scoppio della rivoluzione americana, Smith iniziò a scrivere il libro su cui molti avrebbero esercitato le loro capacità di teorici dell'economia politica. Senza forzare la mano nel costruire una storia del pensiero economico a senso unico, è certo che da quel libro sono partite le analisi più concrete nella dinamica dello sviluppo economico di una società moderna in forte espansione, con tutte le sue contraddizioni e con tutte le sue promesse. Da esso hanno preso spunto i più forti sostenitori dell'economia socialista per correggerne l'impostazione a favore di un'economia che rendesse conto non solo dell'interesse individuale come sostegno del mercato, bensì anche, e principalmente, della più alta esigenza della giustizia sociale. Ma quel libro fu il breviario quotidiano sullo scrittoio di quattro grandi economisti: Thomas R. Malthus, David Ricardo, Jeremy Bentham e Jean-Baptiste Say; i quali, leggendo e rileggendo "La ricchezza delle nazioni" in sintonia con ciò che si produceva sotto i loro occhi di attenti osservatori della realtà sociale, davano alla teoria economica d'ispirazione smithiana la struttura coerente di una "scienza" sociale.
Per capire che cosa potesse significare il lavoro "scientifico" di Smith nell'economia, la sua riflessione va riportata a quel secolo dinamico dell'Inghilterra, il XVIII, durante il quale la società inglese si apriva alle più forti sollecitazioni culturali e alle più vive innovazioni: nelle arti, nei mestieri e nella tecnologia. La ceramica, l'arte del mobile, la pittura, la musica con Häendel, il romanzo (con Defoe, con Richardson, con Fielding), la storia popolare, il saggio giornalistico (i primi quotidiani vedevano la luce proprio a Londra), tutt'insieme davano il quadro di uno sviluppo culturale e sociale che reclamava una teoria dell'economia e una scienza della società capaci di legittimare il loro presente e di predisporne la crescita futura.
Era, quella britannica, una società in cui l'individualismo, l'iniziativa privata dominavano la complessità del movimento generale dello sviluppo e si appoggiavano orgogliosamente alla crescita di un Paese che vedeva ingrandito il proprio impero con l'acquisizione dell'arcipelago di Malta, del Canada, di Gibilterra, di Ceylon, e con il consolidamento del predominio inglese in India.
Se tutto questo non bastava, c'erano le esplorazioni avventurose del Pacifico (James Cook), della costa Nord-occidentale dell'America (George Vancouver), le penetrazioni nell'Africa, e, non ultima, la supremazia commerciale di Londra su Amsterdam. Si aggiunga, inoltre, l'avvio di un'innovazione tecnologica che trasformava l'economia agricola, sulla quale si era fermata l'attenzione dei fisiocrati, in economia industriale: punto di raccordo delle dispute della nuova economia politica.
L'orgoglio di un Paese in così forte evoluzione richiedeva una chiave di lettura organica, teorica della sua vitalità, e una sanzione "morale" delle azioni e della legislazione regolatrice dello sviluppo. Ad accingersi a tale scopo fu proprio Adam Smith: il quale riassunse la propria dottrina in alcuni principii generali, frutto di una macinazione intellettuale rigorosa, della congerie di dati che la società del tempo e le dispute teoriche sulla società politica gli fornivano a vista. Utilizzando sapientemente le frequentazioni con fisiocrati eminenti, quali il Quesnay e il Turgot, e i confronti intellettuali con i filosofi più noti del suo tempo, Smith pervenne al riconoscimento di alcuni temi nodali della comprensione della dinamica economica. La struttura della "Ricchezza delle nazioni" li riassume e sviluppa organicamente, passando in rassegna il rapporto tra divisione del lavoro e produttività, distribuzione del reddito, accumulazione, finanza pubblica. Riflessioni che vengono inserite nel contesto di una ricostruzione critica delle due teorie economiche cronologicamente più vicine a quella smithiana: mercantilisti e fisiocrati.
Ne venne fuori un liberismo economico definito dall'affermazione che ogni operatore si muove nel mercato portato dal suo esclusivo interesse, ma la mano invisibile che agisce come regolatore su produzione e domanda è l'influenza di domanda e offerta sui prezzi. I produttori devono essere liberi di spostarsi da un settore all'altro della produzione e l'attività economica deve essere aperta all'ingresso di nuovi operatori. L'intervento pubblico nell'economia deve essere limitato (alla giustizia e alla difesa) e deve evitare di inserire vincoli frenanti allo sviluppo del mercato.
Questa semplice elencazione di motivi smithiani ci fa cogliere l'attualità di un pensatore alle cui argomentazioni possono ricorrere gli odierni sostenitori dello "Stato minimo", spinti a combattere lo "Stato imprenditore", del quale Adam Smith fu critico severo. Una rilettura della "Ricchezza delle nazioni" illuminerebbe il terreno buio della vita di uno Stato come quello italiano, che non riesce a liberarsi della crescente palla al piede della propria economia: il debito pubblico. Un meccanismo perverso (Smith lo aveva compreso pienamente) che inquina la produttività e che genera la crisi permanente del nostro, come di qualunque altro Stato. Ma tanti sono i motivi di interesse che emergono dall'opera del pensatore scozzese, che si ritrova oggi, a duecento anni dalla morte, a riproporre la validità di alcune proprie idee in un clima di attualità per molti versi sorprendente. La storia, in fondo, fa giustizia delle cattive letture delle opere prodotte dalla scienza, e restituisce alle idee dell'uomo lo smalto che sembrava essersi appannato con l'irrompere di altre idee e di altre teorie. Che cosa diranno oggi gli economisti marxisti di quelle critiche a Smith che hanno fatto la loro fortuna per tanto tempo?
La ricchezza delle nazioni può essere considerato il risvolto della miseria (materiale) dei popoli, ove questi sappiano affrontare il sacrificio dell'accumulazione, cioè del risparmio, con intelligenza. La povertà: tema eterno, che percorre tutta la storia del genere umano. Il povero è, nei Vangeli, la creatura prediletta da Dio, e alla concezione cristiana si ispira la morale medioevale; ma diventa, agli albori dell'età moderna, colui che con la mendicità e il vagabondaggio, disturba l'ordine sociale. Il modo in cui il povero viene considerato riflette dunque la considerazione che la società ha di se stessa.
E' soprattutto a partire dal XVI secolo che prendono forma e. si moltiplicano gli interrogativi sull'atteggiamento da assumere nei confronti dei poveri. Non a caso il tema è particolarmente presente in Francia, perché questo è il più antico ed organico Stato nazionale d'Europa, e quindi si presta ad una considerazione globale dell'argomento su vasta scala. Con la fine del Medioevo, la povertà perde il carattere di sacralità che le aveva attribuito la morale evangelica e comincia ad essere considerata in maniera critica. Interviene allora un topos che costituirà uno dei criteri di valutazione tra i più duraturi e tenaci: la distinzione tra poveri "buoni" e "cattivi", tra "veri poveri" e "falsi poveri". I primi sono quelli che mancano effettivamente dei mezzi anche fisici per lavorare; gli altri sono quelli che non hanno voglia di lavorare e preferiscono vivere di mendicità. Attorno al 1610 uno scrittore così riassume la visione comune relativa ai poveri: " Ci sono tre sorti di poveri: gli uni che lo sono effettivamente, e tali si dicono; gli altri che dicono di esserlo e non lo sono; infine quelli che non lo dicono, benché lo siano".
Ne deriva che il compito che s'impone a chi ha la responsabilità di dirigere e governare la società consiste nel costringere i poveri a lavorare. Mentre la Riforma protestante denuncia quella sorta di "fiera della salute eterna" che è costituita dalle indulgenze, va di pari passo, e s'intreccia con essa, la denuncia della mendicità, vista anch'essa come una soperchieria. Mendicanti e vagabondi andranno quindi rinchiusi in istituti in cui siano costretti a lavorare, raggiungendosi in questo modo due obiettivi: salvare le loro anime e renderli utili alla società. Poiché Lione è il teatro di una grande rivolta di miserabili nel 1529, è questa città che prende per prima le misure atte a realizzare questo scopo. In seguito, un po' dovunque, sorgono ospedali nei quali i ricoverati sono sottoposti ai lavori artigianali, e cantieri, e manifatture. Nel 1611 gli statuti per gli ospedali dei poveri stabiliscono che essi si levino alle sei del mattino dal primo ottobre al primo marzo e alle cinque negli altri mesi e lavorino fino alle sette di sera. C'è un evidente legame tra questa regolamentazione della povertà attraverso il lavoro e il primo sviluppo delle manifatture: il primo embrionale apparire del capitalismo. Ma, come del resto si è accennato, le preoccupazioni economiche e sociali vanno di pari passo con quelle morali. il protestantesimo fa del lavoro un motivo di salvezza: il lavoro contribuisce a salvare le anime.
Nel XVII secolo la povertà, è una piaga non più tanto cittadina, quanto contadina: sono in primo luogo le campagne ad essere devastate dalle guerre e colpite dalle carestie e, di conseguenza, dalla miseria. Ad esempio: provocata dalla guerra dei Trent'anni e dalla Fronda, la miseria è accentuata e diffusa dai capricci della meteorologia, con i cattivi raccolti dovuti al maltempo. Per buona parte del secolo i rapporti che gli Intendenti inviano al Controllore generale delle Finanze descrivono un quadro spaventoso delle condizioni in cui vivono i contadini, "costretti a mangiare erba bollita", come si legge nel rapporto dell'Intendente di Poitiers del 1686, o "a vivere esclusivamente di ghiande e d'erba", come scrive l'Intendente della Linguadoca. Le famines si ripetono per l'intero corso del XVIII secolo, fino alla carestia del 1788-'89: proprio alla vigilia della Rivoluzione. I poveri non sono più frange marginali, ma intere popolazioni. Si calcola che un uomo su cinque debba essere assistito.
Non è nuovo che nelle campagne francesi, o inglesi o italiane, si muoia di fame. Ciò che è nuovo è da una parte che a fare la fame, o a morire di fame, non siano ormai soltanto pochi emarginati, mendicanti o vagabondi, ma contadini che lavorano, e lavorano sodo; e dall'altra che le autorità ne abbiano ora piena consapevolezza.
Ecco allora che avviene una grande svolta. La laicizzazione della vita civile e sociale indotta dall'Illuminismo introduce l'ideale della felicità non più rinviata al mondo dell'aldilà, ma da perseguire e raggiungere sulla terra, dagli esseri viventi. E perciò il lavoro non è più un dovere imposto: diventa un diritto. E non si tratta più di sovvenire ai poveri, ma di abolire la povertà. Privata del senso divino, la miseria diventa intollerabile.
Con l'avanzare del secolo XVIII, la società francese, da società divisa in ordini (clero, nobiltà, terzo stato), si trasforma, anche nella coscienza dei contemporanei, in società divisa in classi: ricchi e poveri; che, dopo la Rivoluzione francese, nell'Ottocento, saranno identificati in borghesi e proletari, imprenditori e operai. E allora il capovolgimento dei valori sarà completo: non più poveri indicati come la causa del disordine della società, ma i ricchi; non più i ricchi a poter disporre a piacer loro dei poveri, ma questi a rivendicare i propri diritti, che derivano loro dalla propria utilità sociale di produttori, mentre i ricchi appaiono come gli sfruttatori. Sviluppando un tema che risale a Rousseau, sarà la ricchezza, e non la povertà (identificata col lavoro proletario) ad apparire contro natura. Contromisure: Smith intende elevare le nazioni alla dignità del benessere diffuso; Marx predica la rivoluzione proletaria che delegherà allo Stato il possesso dei beni di produzione. La storia ha dato ragione allo scozzese.
In questi nostri tempi, il tema della povertà si presenta in termini nuovi. Dapprima un certo socialismo umanitario, poi il nazionalismo avevano introdotto il concetto di "nazioni ricche" e "nazioni proletarie". Crollate queste ultime, la contrapposizione sembra riflettersi su due piani: all'interno di ogni singola nazione (il Mezzogiorno d'Italia, il Midi francese, il Borinage belga, il Nord britannico, e via dicendo); e, caduto l'asse Ovest-Est, all'esterno dei continenti (asse Nord-Sud): il Terzo Mondo, il Quarto Mondo, contrapposti all'Europa o all'America e alle loro società del benessere.
In cinque secoli, i poveri, da individui marginali, sono diventati parti di popoli, o interi popoli, o popoli continentali. Il cammino è stato lungo e accidentato, i termini dei problema sono completamente mutati. Ma la guerra alla povertà cammina: non più in termini di conquista rivoluzionaria, non più con la dialettica delle armi; ma nel nome del principio dell'interdipendenza del villaggio globale. Adam Smith ha avuto ancora ragione.

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