§ Europa anni Novanta / Azienda Italia

La strada dell'efficienza bancaria




Gennaro Pistolese



L'obiettivo di una sempre più piena funzionalità del sistema bancario italiano è oggi più che mai elemento caratterizzante e fondamento della strategia diretta alla maggiore efficienza dei relativi servizi. E' un obiettivo valido per tutte le strutture dell'azienda Italia, anche nell'incombenza della sfida del '93, ma per il comparto creditizio è assolutamente prioritario, dal momento che dal suo assetto è condizionato, in via preliminare, lo stesso sviluppo, nella dimensione e correntezza, delle fonti degli investimenti. I passi innanzi, in parte compiuti ed in parte in via di svolgimento o di predisposizione, concernono:
- l'assetto normativo;
- il modello operativo;
- il complesso dei rapporti con l'utenza;
- la sempre più mirata determinazione dei mezzi diretti alla maggiore efficienza ed anche al superamento delle sacche di inefficienza o di inadeguatezza che si riscontrano nell'ottica del mercato unico integrato.

Urgenza di un assetto più avanzato
Circa il primo aspetto, varie misure amministrative si sono registrate in quest'ultimo periodo. Esse riguardano la liberalizzazione degli sportelli, la definizione dei rapporti banche-assicurazioni, la possibilità per le aziende di credito di partecipare ad attività di merchant banking, di allungare le scadenze oltre il breve termine, ecc. Su questa strada il problema è tuttavia molto più vasto, in quanto alle misure amministrative bisogna affiancare anche quelle legislative, alle quali oggi si sta lavorando, nella speranza che il relativo corso abbia una tempestività e una compiutezza corrispondenti alle necessità da affrontare. Fra le relative priorità, come ha messo in luce un recente studio dell'ABI, figurano la regolamentazione dell'intero settore dell'intermediazione bancaria, la definizione dell'assetto giuridico dei gruppi bancari polifunzionali, le fusioni fra aziende di credito, l'eliminazione di vari vincoli che tuttora frenano l'operatività del settore.
L'urgenza delle conseguenti definizioni è sottolineata dal fatto che, sotto appunto il profilo istituzionale, elementi penalizzanti per il nostro sistema rispetto a quelli esteri, a cominciare dai Paesi Cee, limitano il nostro grado di competitività. C'è in materia il grosso problema della funzionalità degli intermediari creditizi, che costituisce fonte di svantaggi per le nostre banche nel quadro europeo; ci sono inoltre misure al tempo stesso a doppio taglio da mettere meglio a punto (e qui ci si riferisce alla necessaria tutela dei depositi con i gravami che impone e che, pur migliorando l'identità degli istituti di credito, tuttavia vanno sempre meglio calibrati, l'elevatezza della soglia d'ingresso in capitale per la costituzione di un ente creditizio che offre margini più larghi per l'applicazione del coefficiente di solvibilità, ma che indubbiamente richiedono maggiore elasticità); ci sono regolamentazioni eccessivamente gravose.
Rilevante in questo ambito è il grosso nodo da sciogliere concernente la riserva obbligatoria. Si tratta per il 1989 di un onere per il sistema bancario calcolato in circa 6.500 miliardi, derivante dalla differenza fra la remunerazione della riserva e quella di un investimento alternativo in titoli di Stato. La conclusione che si può trarre a tutto questo riguardo, anche nella comparazione con gli altri Paesi, soprattutto comunitari, è che molte sfaccettature del nostro sistema non sono ancora in linea con le stesse direttive della Cee ed alcune di esse hanno origini che risalgono a vari decenni. Tutto questo mentre il quadro nel quale si svolgono l'economia nel suo complesso e la stessa struttura creditizia è integralmente mutato, in termini di dimensione, di avanzamento civile, di maturità, di capacità tecnologica. E questi sono altrettanti fattori che non solo devono filtrare nella struttura creditizia, ma da essa devono far derivare motivi e mezzi di propulsione. Perché, in effetti, il credito è un avamposto.

Potenziamento della razionalizzazione
Ma come difendere e far procedere questo avamposto? E che cosa sta succedendo ed è perseguibile con organicità in questa direzione? Nel rispondere alla prima domanda, c'è da sottolineare anzitutto la cessazione dei vincoli del regime delle autorizzazioni per l'apertura di nuovi sportelli bancari. Secondo i programmi, nel corso di questi prossimi tre anni il complesso degli sportelli, che durante il 1989 era di 15.577 unità, dovrebbe aumentare di circa 5.000 unità. E' questa un'ascesa ineluttabile per il nostro sistema, dato che attualmente disponiamo di 2,7 sportelli ogni 10 mila abitanti, mentre la Germania Ovest e la Francia ne hanno 6,5, la Gran Bretagna 4,3, gli Stati Uniti 4,2.
Altro aspetto rilevante del quadro è l'ampliamento progressivo dell'area bancaria sempre più tecnicizzata e computerizzata. Fra l'altro, c'è da rilevare il maggiore spazio che si vengono conquistando il self service, o la personalizzazione del rapporto con la clientela, o ancora la specializzazione dei servizi. Con la loro più organica razionalizzazione sarà possibile anche una riduzione dei costi, conseguente anche ad una migliore utilizzazione del personale ed in un certo senso anche alla sua possibile riduzione. Oggi, negli sportelli italiani, anche per il loro numero ridotto, vi sono per ogni unità in media 23 addetti, contro i termini della Gran Bretagna, i 14 della Germania già federale, i 16 degli USA ed i 17 della Francia, ecc.
La maggior dinamica conseguibile in questo campo ha a che fare, per le grandi come per le piccole e medie banche, con le cosiddette filiali leggere, aperte ad un sempre maggiore ricorso al self service. Le apparecchiature relative oggi all'interno delle filiali bancarie si aggirano intorno al migliaio di unità, che secondo qualificate previsioni saranno presto in grado di raddoppiarsi. Si è partiti, come è noto, dal Bancomat, le cui operazioni si vengono ampliando fino a comprendere quelle riguardanti l'erogazione delle pensioni INPS, ed ora si è giunti anche ad altri tipi di operazioni, oltre ai prelievi, che riguardano versamenti, interrogazioni varie e concessioni di fidi preautorizzati, ecc. Si tratta di una nuova modulazione che si viene svolgendo o predisponendo, a sviluppo delle ormai trentennali teletrasmissioni dei dati di Borsa da Milano e da Roma in tempo reale, e ad imitazione di quanto avviene negli altri Paesi più avanzati, come gli USA, con la comunicazione diretta casa-banca. Sono traguardi non solo difficili e forse anche in gran parte da sospirare, ma sono necessariamente dietro l'angolo, in termini di varietà di operazioni, di capacità di offerta, di sistemi informativi di marketing, e così via.
Altri spiragli che si dovranno aprire concernono la cosiddetta operazione "shopping day", degli istituti di credito, con sportelli sia pure solo settimanalmente aperti per un orario più lungo. E qui si tratta di un passo europeo che dovrà essere compiuto anche in Italia, perché in Francia ed in Germania, ad esempio, già esistono fasce orarie per l'apertura degli sportelli, che vanno rispettivamente dalle 8.00 alle 18.00 e dalle 8.00 alle 18.30.
Concludendo questa rapida panoramica, si può rilevare che l'ordinamento in atto nel nostro Paese definisce, con i vincoli fin qui richiamati e con le ricordate iniziative, l'attitudine bancaria come l'esercizio congiunto della raccolta di risparmio fra il pubblico e dell'impiego di fondi in operazioni di credito. Il che è in linea per l'Italia, come per altri Paesi - Belgio, Lussemburgo, Spagna - con la prima Direttiva di coordinamento emanata al riguardo dalla Comunità
Nel fondo tuttavia vi sono due altre principali indicazioni. Per qualche sistema, infatti, e qui ricordiamo Francia e Germania, il nesso fra raccolta ed impiego non è essenziale per la qualificazione dell'attività; per qualche altro sistema, come ad esempio quello britannico, la nozione di attività bancaria è limitata all'aspetto della raccolta dei fondi; per altri Paesi, infine, c'è una delimitazione riferita solo ad alcune categorie di aziende ed è prevista una delimitazione temporale della scadenza dei depositi e dei fondi rimborsabili. E quest'ultimo caso si riferisce alla Francia, al Belgio ed all'Olanda.
Quanto all'altra indicazione che si desume dal generale quadro in atto, va rilevata la tendenza abbastanza diffusa all'istituzione di una banca cosiddetta universale, alla quale si affiancano altre strutture: istituti ipotecari, credito specializzato (fra l'altro per l'edilizia), erogazioni creditizie alle piccole e medie imprese, mutui ipotecari, ecc. A fronte di questa tendenza, che vede fra l'altro largamente presente e definita la funzione dell'intermediazione finanziaria, vi è lo stato di fatto italiano, con ambiti di operatività che appaiono troppo circoscritti in un contesto che ne indebolisce competitività e spesso maggiore efficienza, a causa dell'osservanza di regole alla quale non è sottoposta la concorrenza estera, tenuto conto che le banche comunitarie, in virtù del principio del mutuo riconoscimento, possono applicare oltre confine le loro specifiche normative nazionali.

Una "fratellanza siamese"
E veniamo ad un aspetto particolare che, rientrando nella tematica della cosiddetta banca universale sopra richiamata, è oggetto di un largo dibattito, di precisi indirizzi progettuali, e anche di critiche e di riserve.
Un punto di riferimento può essere ricavato al riguardo dal pensiero espresso dal nostro ministro del Tesoro, Carli, che all'interrogativo su banca universale o gruppo polifunzionale ha risposto di non sapere quale sistema sia preferibile. "Ciò che occorre - ha detto - è la garanzia del massimo grado di adattabilità del sistema finanziario italiano", perché possa esplicare pienamente la sua attività in concorrenza con le altre strutture dei Paesi comunitari ed in particolare con l'area forte che si delinea o è tentata per quanto riguarda, ad esempio, il marco.
Quanto poi al pensiero della Banca d'Italia in materia, esso si può sintetizzare nei seguenti punti:
- scelta, o meglio propensione, per il gruppo polifunzionale che apre le maggiori possibilità di riorganizzazione e razionalizzazione del sistema creditizio.
- ipotesi di accelerazione sulla strada della despecializzazione normativa delle istituzioni creditizie.
- mantenimento di una separazione fra banche ed imprese finanziarie (e questa, come si sa, è oggetto di progetti legislativi, fra l'altro con la legge Amato, approvata da un ramo del Parlamento, sul cui esame e sul cui andamento rimandiamo il discorso ad altra occasione) onde evitare "intrecci pericolosi".
Fin qui le posizioni ufficiali. Ma la dialettica al riguardo non manca di esprimere riserve e critiche in merito alle successive definizioni della materia. C'è chi osserva che non è solo la scelta fra banca universale e polifunzionale che può risolvere i problemi di un sistema che di fatto oggi è distratto da questi due modelli. C'è ancora chi aggiunge che con la banca universale i rischi battono i vantaggi. C'è infine chi osserva che la banca universale èsolo un modello retró. Un punto fermo che intanto sembra prevalere è quello dell'affermazione del principio dell'indipendenza delle istituzioni finanziarie, che in un certo senso svolgono la funzione di guardiani dell'industria. In conseguenza, questa con sue ingerenze nell'ambito della struttura bancaria verrebbe a controllare i suoi controllori. Come ha ricordato qualcuno, il problema è quello di combattere la "mostruosa fratellanza siamese", come ebbe a chiamarla un grande della storia bancaria italiana, Raffaele Mattioli, con la sua opera oltre che di banchiere -della Comit - anche di magistero. Ed era un magistero (chi scrive può ricordare per averlo personalmente praticato) che non era di parole, ma si affidava solo a fatti e cifre: gli unici ispiratori rigorosi del suo pensiero.

Sviluppi dell'offerta bancaria
Due altri aspetti vanno intanto valutati per quanto riguarda gli sviluppi della possibile offerta bancaria: la stessa strutturazione e la dimensione del sistema bancario operativo.
In merito all'innovazione organica dell'offerta bancaria, è da tenere presente - e lo sottolinea uno studio del gruppo San Paolo - che il ventaglio si allarga, deve allargarsi. Venture capital, merger e acquisizioni, leveraged buy out, ecc. devono e possono divenire, nella rispondenza della clientela possibile, termini di sportello, in funzione di utilizzi di disponibilità che rispondano ai fabbisogni finanziari delle imprese per acquisire anche apporti di natura merceologica, di mercato e professionali, utili per rafforzare la capacità competitiva globale dell'impresa. Malgrado gli attuali limiti del mercato finanziario italiano, qualche cosa si sta facendo per favorire il rafforzamento finanziario delle imprese, la loro ricerca di capitale di rischio. Nel 1988, il nostro mercato finanziario ha investito l'equivalente di 233 milioni di Ecu per operazioni di venture capital, classificandosi al quarto posto dopo la Gran Bretagna, la Francia e l'Olanda. Siamo anche al quarto posto per quanto si riferisce al totale delle consistenze investite in operazioni di capitale di rischio, che durante l'anno scorso hanno raggiunto gli 861 milioni di Ecu. In svolgimento sono inoltre le operazioni di leveraged, management buy out, quelle di fusione e di acquisizione, di processi di cosiddetta crescita esterna, di family buy out, ecc.
Il tutto avviene nel quadro di una strategia che per quanto riguarda attitudini, progettualità, esplicazione da parte del sistema, si manifesta con la possibile offerta di un capitale dal quale deve derivare un valore aggiunto nuovo, che deve rafforzare il potenziale azienda sul mercato, nei contatti internazionali, nelle acquisizioni, nelle fusioni, nei collegamenti con centri di ricerca e di analisi. Un profilo particolare acquista in questa dinamica la merchant banking, la quale sta indirizzando i propri interventi nell'espansione delle piccole e medie imprese, nella trasformazione del management che tende a diventare imprenditore, nell'affiancamento o sostituzione di gruppi familiari, ad interesse aziendale più debole, con gruppi esterni o della stessa famiglia precedentemente in minoranza. In questa traiettoria di sviluppo si registrano purtroppo fattori condizionanti e limitativi che riguardano un sistema fiscale e legislativo non corrispondentemente mirato e tale da farlo definire dagli operatori il peggiore d'Europa. Tale cioè da far pensare oggi che operazioni di merchant banking istruite e concordate in Italia finiscano per realizzarsi al di fuori del nostro Paese su piazze straniere, soggette a più semplici e razionali regolamentazioni.
Chiare sono le posizioni di svantaggio che derivano alla nostra economia ed al nostro sistema creditizio. Su di un piano più specifico, riguardante fusioni e partecipazioni, ad esempio, i nostri istituti di credito necessitano della preventiva autorizzazione dell'organo di vigilanza, mentre in Germania, Gran Bretagna, Lussemburgo e Spagna queste operazioni sono sottoposte alle stesse disposizioni valide per i gruppi societari. Circa in ispecie le partecipazioni in istituti di credito vige una preventiva autorizzazione subordinata al possesso di alcuni requisiti. Comunque, è questa una materia in merito alla quale c'è molto cammino da percorrere in termini normativi e di iniziativa, in un adeguamento sempre più stretto a direttive e a indirizzi comunitari, taluni dei quali ci trovano ancora in posizioni di retroguardia. Con la minaccia fra l'altro di una Comunità a due velocità, che non vogliamo - come si sa - sul terreno monetario, ma dobbiamo anche non volere in tutto il resto del quadro, che è a monte di tutto.

Identità del sistema operativo
E veniamo alla dimensione del sistema operativo. In merito ad essa, è in corso un dibattito che vede sulla scena chi dice che è tramontata l'èra del piccolo che è bello, chi afferma invece che le grandi banche sono alla resa dei conti, chi osserva che determinate operazioni di interesse, riferito a questo o a quel tipo di utenza, sfugge volutamente all'attenzione dei grandi istituti, con riferimento ad esempio al Mezzogiorno, dove si riscontra l'insoddisfazione per il livello degli impieghi.


Fra l'altro, una recente indagine della Prometeia ha messo in luce che se le banche maggiori hanno mediamente riconquistato un po' del terreno perduto, esso è stato spesso pagato con una compressione della redditività. E la Prometeia aggiunge che nel confronto dei risultati relativi al margine di interesse, al margine di intermediazione, al risultato lordo di gestione, gli istituti medi e piccoli si sono dimostrati più dinamici. Il discorso può rifarsi anche a quanto più sopra abbiamo detto a proposito degli sportelli leggeri.
In effetti, di fronte ad un rapporto fra margine d'interesse e attivo netto di bilancio pari complessivamente al 4,7%, il valore per le banche medie si porta al 5,02%, mentre per le banche piccole sale al 5,13%. Quanto poi al raffronto dei risultati di gestione ci sono un 1,99% per le banche maggiori, un 2,60% per le banche medie ed un 3,02% per quelle piccole.
Ma a prescindere da questi dati, con riguardo al sistema bancario minore, c'è da rilevare per esso l'accentuazione della gestione del cambiamento, constatabile fra l'altro nelle fusioni, negli accordi di collaborazione, nelle politiche di gruppo e talvolta anche nei collegamenti già in atto o allo studio. Se ne ricava l'estrema validità attuale ed in prospettiva degli istituti creditizi a carattere locale, a cominciare da quelli operanti specie in alcune aree del Sud, in un ambiente cioè in cui il sistema, oltre a dover svolgere la normale funzione creditizia, deve incentivare ed indirizzare, sul piano pure formativo, l'iniziativa ed il suo habitat economico e culturale.
Taluni discorsi in questa tematica si fermano alla grande dimensione, cercando di predisporre il terreno nel quale dovranno agire le grandi banche, pensando fra l'altro a qualche, task force, ma il vero problema è quello di garantire la massima efficienza di tutto un sistema, che non può non essere articolato, che non può non essere fondato se non sul massimo della razionalizzazione, e una risposta pronta, esauriente, valida alla domanda di un'utenza che molte volte è addirittura da ricercare e da formare anche culturalmente. Abbiamo sempre ritenuto che questo aspetto "Culturale", inteso in tutta l'ampiezza e profondità delle sue radici, debba essere elemento non secondario della problematica bancaria. Ci sono già quelli che si muovono, più o meno, in questa direzione, ma oltre ad aumentare il ritmo bisogna provvedere a maggiori e nuove forme di collegamento e, se possibile, pure di coordinamento. Circa i tempi di questi sviluppi, l'anno prossimo - a detta di esperti e di indagini -dovrebbe essere quello più determinante e comunque largamente preparatorio delle tappe finali. Questo prossimo traguardo comincia ad acquisire più precisi connotati in relazione a quella che sarà la crescita degli sportelli, di cui abbiamo detto prima. L'attenzione e l'iniziativa al riguardo saranno rivolte maggiormente ai Comuni di medie dimensioni piuttosto che alle grandi città.

Due importanti capitoli
Nell'evoluzione del sistema bancario, quale oggi si viene manifestando o sollecitando, due altri capitoli si aggiungono ai precedenti: quello del rapporto e della sua funzionalità fra credito e borsa, e quello degli scambi con compagnie di assicurazione.
Attualmente nel nostro Paese le banche non hanno accesso diretto in Borsa. A noi, in questa posizione, si affiancano anche le Borse francesi, belghe, spagnole, con la differenza però che queste ultime consentono l'ingresso indiretto delle banche tramite la partecipazione in società di agenti di cambio. Come osserva il presidente dell'ABI, è urgente una riforma, in forza della quale gli intermediari debbono godere di un presidio patrimoniale di tutto rispetto, il campo degli intermediari non bancari sia sottoposto ad ordine, le partecipazioni estere siano favorite, la concorrenza diventi più stringente, i costi dell'intermediazione siano diminuiti. Fra i provvedimenti di urgenza, si impone poi la riduzione dei tempi della liquidazione con il ricorso quando necessario ad interventi più tempestivi, quando la contingenza talvolta grave ne offra la giustificazione o meglio la necessità. E qui il discorso - si deve aggiungere - si riporta anche alla Consob, che dopo tutto ha il compito di essere un buon cordone sanitario, una sorta di pacemaker, attento al ritmo cardiaco ed a correggere i suoi sbalzi.
Quanto poi agli scambi con le compagnie di assicurazione, essi entro certi limiti sono ammessi; ora si tratta di mettere meglio a punto anche questa materia, per la quale qualche cosa sembra muoversi per quanto attiene agli ingressi esterni privati nella Sace, l'assicurazione pubblica ai crediti export. Questa struttura deve stabilire il suo nuovo quadro di riferimento, necessario all'ente per prepararsi ai mutamenti del mercato interno europeo. L'intervento esterno è già previsto in analoghi enti assicurativi europei. Il che è richiesto oltre che dal punto di vista della determinatezza normativa, anche dall'andamento della Sace, rispetto al quale le banche estere oggi ci rivolgono l'accusa di procedere agli indennizzi con il rallentamento, con il pericolo che le procedure messe in atto per la verifica del relativo diritto all'indennizzo - con la macchinosità e burocratizzazione perseguite -provochino addirittura una disincentivazione delle esportazioni. Ed al riguardo si fa appello anche ad una professionalità da instaurare nelle strutture, che d'altra parte è un tema incombente su tutte indistintamente le matrici ed i vertici direttivi ed esecutivi dello sviluppo. Nel bancario, perché è di questo che stiamo parlando, come negli altri campi.
Questa necessità di più ampio respiro e di un migliore orizzonte nel quadro bancario viene sollecitata anche dalle banche estere interessate ad operare in Italia. Attualmente esse ricoprono una quota inferiore all'1,5% del mercato creditizio, quota che ci pone all'ultimo posto in una graduatoria internazionale che qualche anno fa - precisamente nel 1985 - vedeva la Gran Bretagna al primo posto con un 61%, la Francia al secondo con il 18%, la Germania Federale al quarto posto con l'8%, la Spagna al quinto posto con il 6%. Qualche cosa sta cambiando, in forza delle sollecitazioni del 193. Dicono al riguardo gli operatori del settore che la banca estera in Italia è più vittima che raider, che essi prendono atto con soddisfazione dell'atteggiamento di disponibilità della Banca d'Italia (i provvedimenti più penalizzanti, come la ritenuta d'acconto sulle operazioni interbancarie, vengono da altre fonti, mentre le recenti proposte di modifica della disciplina della riserva obbligatoria costituiscono solo l'ultimo esempio di questo spirito di collaborazione), ma che non possono sottacere l'estrema pesantezza dei vincoli in atto che deprimono la redditività dell'attività di intermediazione, con le chiare conseguenze che ne derivano per un Paese che pure è fra i sette Paesi maggiormente avanzati ed ha nella bilancia valutaria, con rilevante componentedella partecipazione dei capitali esteri, un cardine essenziale da non perdere mai d'occhio nei condizionamenti che direttamente o indirettamente l'influenzano.

La trasparenza
E veniamo ad un punto chiave di tutto questo discorso: la trasparenza dei rapporti fra banche e clientela. Per quanto riguarda l'Italia, la base normativa sta seguendo due rotte, e cioè quella dell'autoregolamentazione e l'altra legislativa.
La prima, che si fonda sull'accordo dell'ABI in vigore dal dicembre del 1988, prevede l'obbligo di esporre negli albi delle banche un cartello con le condizioni minime e massime praticate. I rapporti in concreto che ne derivano sono regolati su base contrattuale, con le predeterminazioni di fondo derivanti dal codice di autoregolamentazione.
La fonte legislativa, invece, ha a che fare con una proposta di legge di iniziativa parlamentare, attualmente in discussione alla Camera, in forza della quale è fatto obbligo agli istituti di credito di rendere noti i costi e le condizioni reali praticati per le singole operazioni e sono previste garanzie specifiche per i piccoli risparmiatori, fra i quali l'aggiornamento obbligatorio dei tassi passivi, quando salgono gli attivi, e l'automaticità per i conti con i rendimenti minimi. Su questa linea sono in corso ulteriori approfondimenti che affrontano gli altri possibili passi innanzi da compiere in merito all'informativa dell'utenza, al diritto di fruizione di un grado minimo di servizi bancari (life line banking), il livello dei tassi d'interesse, delle commissioni, dei costi e dei rendimenti effettivi, le implicazioni giuridiche dell'adozione di sistemi elettronici di pagamento, le forme di pubblicità dei prodotti di risparmio, le modalità di promozione e di vendita a domicilio, le tematiche specifiche di taluni contesti.
Tutta questa tematica si lega anche a quanto è previsto o si prevede per il mercato mobiliare con la riforma della Consob, di cui prima si è detto ed in merito alla quale numerose sono le leggi, all'attenzione del Parlamento, relative a funzioni nuove o diverse dell'istituto, con l'intento di adeguarne il funzionamento ai compiti nuovi derivanti dall'evoluzione in atto nel mercato ed anche ai ritardi del nostro ordinamento.
Gli sbocchi possibili riguardano oltre che la funzione di trasparenza (e cioè la completezza delle informazioni), quella dell'ampliamento del suo grado di tutela e cioè di protezione del risparmiatore. Rispetto delle regole del gioco da una parte, dunque, e autorità di settore dall'altra, con la necessaria latitudine di competenze e strumenti. E' questa tutta una materia in corso di dibattito teorico e pratico, che comporta altri corollari, concernenti l'attrezzatura e la funzionalità dei servizi indispensabili, l'alternativa fra la sottoposizione dell'istituto al ministero del Tesoro o la sua elevazione a livello di magistratura, accentuandone l'autonomia. Obiettivo del nuovo presidente dell'istituto è quello di dare trasparenza ed efficienza al mercato e far sì al tempo stesso che la difesa piena del risparmiatore non sia soltanto uno slogan. Si tratta, come si vede, di un finalismo ancora da meglio tradurre in norme ed in prassi, che poi direttamente o indirettamente vengono a riflettersi ed a coinvolgere anche il quadro bancario. E su questo quadro, bisogna aggiungere, si vengono inserendo vari ed importanti provvedimenti, che oltre a riguardare la Consob e le materie di cui abbiamo detto prima, concernono il disegno di legge sulle SIM, il disegno di legge sulla regolamentazione delle offerte pubbliche di acquisto, la repressione dell'insider trading, la regolamentazione dell'intermediazione mobiliare, le banche popolari, ecc.
Spingendo lo sguardo oltre l'angolazione nazionale, e cioè approfondendo l'esame alla situazione in atto negli altri Paesi comunitari, ne risulta che per quanto attiene agli specifici rapporti fra banche e clientela, ferma restando la generalizzazione del fondamento contrattuale, in Germania, la legge sui contratti tipo stabilisce alcuni requisiti generali di correttezza e, trasparenza; in Francia sono imposti alcuni obblighi o divieti nella tenuta dei conti; in Olanda opera un accordo volontario, stipulato fra le banche, che non riguarda commissioni e spese dei servizi; in Spagna vigono regole di pubblicità e di trasparenza delle condizioni per aziende di credito, banche popolari e casse di risparmio; in Gran Bretagna sono obbligatorie comunicazioni su condizioni e costi delle operazioni e le pubblicizzazioni sui giornali delle variazioni relative ai tassi attivi, ecc.
Fermiamoci appunto sui tassi attivi. Attualmente, nel quadro comunitario, tassi e condizioni sono lasciati quasi sempre alle regole della concorrenza, con precisazioni in determinati ambiti. In Francia, per esempio, vi è una scala di tassi amministrati per alcuni tipi di depositi di risparmio popolare ed i libretti di assegni sono gratuiti per legge. In Olanda, sono fissati tassi massimi per il credito al consumo. In Gran Bretagna, per i prestiti al di sotto delle 3.500 sterline che riguardano la clientela minore, sono previste informazioni più dettagliate ed anche il metodo di calcolo del costo del credito è stabilito per legge. E' da notare che per questo Paese esiste una tradizione di interventi che spesso ha un'origine lontana e comunque il più delle volte in anticipo sui recepimenti in materia intervenuti negli altri Paesi in merito appunto alla trasparenza. Per noi, ad esempio, le forme di autoregolamentazione risalgono a meno di due anni; per la Gran Bretagna bisogna rifarsi al Consumer Credit Act, stipulato tre lustri fa.
Ma prima di considerare i riflessi che la materia sta registrando e può esercitare in Italia, vediamo quale è il quadro che ci offrono gli Stati Uniti. Orbene, in essi i principii generali relativi alla trasparenza delle operazioni bancarie sono contenuti nel "The truth in lending and fair credit reporting" del 1969. La legge fa parte delle norme complessive del Consumer Credit Act. Essa prevede che devono essere comunicati alla clientela interessi, commissioni, parcelle ed eventuali premi assicurativi sia in valore assoluto sia in percentuale del credito concesso. Regolamentate sono anche le modalità di esposizione dei cartelli pubblicitari. La disciplina in atto affronta anche il diritto di recesso ed il complesso di regole per l'uso delle carte di credito, a fronte di un loro utilizzo che è assolutamente preminente nella vita economica e civile americana. Sono invece esclusi dalle norme di tutela i crediti superiori ai 25 mila dollari non garantiti da ipoteche.
Ed ora passiamo all'Italia, in aggiunta a quanto abbiamo detto più innanzi. Gli indirizzi emergenti non prevederebbero interventi specifici e dettagliati sul piano legislativo, ma obblighi generali da inserire in una legge quadro, lasciando poi alle banche ed agli accordi settoriali la messa a punto delle modalità per l'applicazione pratica delle direttive in materia di trasparenza e tutela del cliente. In sostanza, si intenderebbe seguire la linea maggiormente praticata fuori dei nostri confini e di cui abbiamo detto prima, e cioè quella di un intervento di principio, con il quale la trasparenza è regolata per legge, ma applicata appunto in via di principio, lasciando poi alle autorità monetarie la possibilità di intervenire ed invitando le associazioni di categoria a dare direttive a tutto il sistema.
Non mancano tuttavia proposte e sollecitazioni, per lo più parlamentari, per l'obbligo per le banche dell'applicazione automatica nella misura del 50% delle variazioni in aumento del tasso minimo, per le operazioni di credito sui depositi a risparmio a tempo determinato che beneficiano di un tasso di interesse non superiore di due punti percentuali a quello minimo o per l'applicazione nel caso di tassi, prezzi e condizioni più sfavorevoli rispetto a quelle indicate nei cartelli, di tassi invece corrispondenti a quello nominale minimo e massimo dei Bot emessi nei due mesi precedenti, rispettivamente per le operazioni attive e per quelle passive. Altra proposta concerne l'invarianza, nei contratti di risparmio in senso sfavorevole ai clienti, dei tassi e di altre condizioni, salvo previa comunicazione e con la facoltà per i clienti di recedere dal contratto senza penalità.
La strada della legge di riforma bancaria è dunque anche sotto questo aspetto molto complessa e difficile, e l'assetto di tutta questa delicata materia rischia di incontrare tempi lunghi, a fronte di un'evoluzione reale del sistema che procede in fretta ed è sollecitata pure dalla sfida del '93, con un nostro apparato specifico che non si può dire certamente di punta nel confronto con i Paesi più avanzati. Comunque, il sistema sta spingendo al massimo l'acceleratore, facendo leva anche sulla professionalità a tutti i livelli del fattore umano di cui dispone e dal quale sta raccogliendo frutti, esperienze, impulsi, ritenendo i vari traguardi di questa formazione interna altrettanti gradini per il continuo conseguimento dell'efficienza.
In realtà a questo fine è in atto una strategia, che è sempre da attuare su basi nuove, cominciando nel percorso da effettuare subito. Come ha detto argutamente qualcuno, da ieri. Che poi è ieri e domani anche delle banche.

L'inchiesta / prospettiva Europea

Quale Mezzogiorno

M.C. Milo, A. Foresi, G. Salerno

La guerra del Golfo persico ha scaricato i suoi effetti negativi sulle aree più deboli delle nazioni industriali. I timori, che erano ben presenti in alcune zone della Comunità europea, e soprattutto nel Sud d'Italia, una volta tradotti in realtà, si sono proiettati ai nostri giorni. In aggiunta, il Sud era alla vigilia di scelte di politica industriale e di strategie strutturali che, rappresentando un deciso mutamento rispetto al passato, avrebbero richiesto invece una stabilità dei mercati molto più certa di quella che è stata sconvolta.
Le nuove realtà emerse rendono ancora più problematico un giudizio sulle nuove direttrici di intervento che le grandi imprese, con in testa quelle che fanno capo all'arcipelago delle Partecipazioni Statali, avevano messo a fuoco. in concreto, si stava facendo strada la convinzione che l'ulteriore sviluppo del Sud andava decisamente legato "alla creazione di quelle condizioni di base, oggi ampiamente carenti, in grado di trasformare il Mezzogiorno in un'area effettivamente europea che possa attirare e rendere convenienti gli insediamenti produttivi italiani e internazionali".
Si trattava quindi di riqualificare gli interventi nell'area meridionale attraverso il ricorso a infrastrutture "mirate" che l'Iri riassumeva in cinque priorità: gestione integrata delle acque; compimento delle grandi reti di trasporto; potenziamento delle telecomunicazioni; formazione di imprenditorialità e, attraverso una Mediobanca per il Sud, creazione di un agile sistema finanziario di supporto alle imprese.
Come aveva valutato queste prospettive l'imprenditoria privata? Antonio Urcioli, consigliere della Confindustria per il Mezzogiorno, aveva affermato che "questo indirizzo ci può soddisfare se significa anche una nuova politica dello "stare insieme" tra grandi e piccoli gruppi che riesca a trasformarsi anche in una politica di promozione per la quantità di cultura d'impresa che riuscirà a distribuire, per le possibilità di inserimento sui grandi mercati che offre, per le opportunità di crescita che le aziende minori avranno a portata di mano". E aggiungeva: "Il piccolo mondo imprenditoriale meridionale parteciperà con piena adesione a questo indirizzo se esso si tradurrà in una vera politica di completo abbandono dei vecchi interventi a pioggia".
Questa nuova funzione dei grandi gruppi piaceva anche ad Andrea Saba, presidente dello Iasm, l'Istituto di assistenza allo sviluppo del Mezzogiorno da sempre attento, per le sue stesse funzioni, ai cambiamenti dell'imprenditoria meridionale. Diceva Saba: "Tutte le nostre inchieste sulle potenzialità del Sud come area in cui investire hanno messo in luce la debolezza delle strutture a sostegno dell'impresa. In questo vuoto gioca un capitolo a parte la produzione di servizi innovativi. Le Partecipazioni Statali possono svolgere un ruolo nuovo e di primissima utilità proprio in questo campo". Per Saba, le vie da percorrere "passano attraverso la creazione di consorzi di ricerca", con l'azione di supporto alle Regioni per riempire di contenuti progettuali i grandi programmi che la Comunità europea intendeva finanziare in futuro: "Ma vi è di più: le grandi aziende possono porre sistematicamente in essere joint-ventures con imprese straniere portatrici di innovazione. La formula vincente potrebbe proprio essere quella che vede una stretta collaborazione tra Partecipazioni Statali, Comunità europea, Regioni e Ricerca universitaria".
Ma c'era anche chi avanzava riserve verso questo scenario: esponenti di vertice dell'Agenzia per il Sud, l'ente che, in passato, aveva operato proprio nel campo delle grandi infrastrutture; e anche settori del mondo sindacale. Le obiezioni: "I grandi gruppi, soprattutto se pubblici, devono continuare ad agire come imprese. Il loro ruolo imprenditoriale non può essere confuso con quello istituzionale legato alle infrastrutture. E per ruolo imprenditoriale si intende la loro presenza nella realizzazione di quelle dimensioni produttive essenziali, anche per il Mezzogiorno, per un efficace inserimento di quest'area nei mercati globali che caratterizzano l'attuale fase economica". E i sindacati, sulla stessa lunghezza d'onda: "Il rischio è che le Partecipazioni Statali siano portate ad accentuare una loro presenza nel terziario con un conseguente progressivo abbandono delle attività manifatturiere nelle regioni meridionali. Si ritiene, invece, che senza una forte presenza industriale sia delle imprese pubbliche sia dei grandi gruppi privati la piccola e media imprenditorialità meridionale che sta finalmente emergendo rischi di rifluire nelle forme artigianali dalle quali è partita".

 

La parola alle cifre. Per la prima volta, più del 50 per cento del recupero di occupazione industriale manifatturiera nazionale degli ultimi anni (1988-'90) veniva dal Mezzogiorno. Per la prima volta, dopo anni di crescita, le prime rilevazioni Istat delle forze lavoro (gennaio-aprile) mostravano un calo apprezzabile (circa due punti) nel tasso di disoccupazione meridionale. Per la prima volta, gli investimenti in macchine e attrezzature erano aumentati nel Sud dell'11 per cento, a ritmi doppi, cioè, rispetto al Centro-Nord (5,5 per cento).
E tutto questo avveniva in condizioni sotto molti aspetti negative: criminalità organizzata sempre più attiva; infrastrutture civili e sociali sempre più lontane da standard accettabili; e soprattutto la cessazione di fatto dell'intervento straordinario (con l'avvio faticoso della legge 64) che a partire dall'84 e fino all'88 aveva già più che dimezzato l'intervento diretto a sostegno di investimenti e di occupazione industriale nel Mezzogiorno. Nelle otto regioni meridionali gli interventi agevolati avevano determinato occupazione manifatturiera per 23 mila addetti l'anno nel quinquennio 1979-'83 e per soli 10 mila l'anno nel quinquennio successivo.
Allora non era vero che l'industria meridionale si presentava assai debole agli appuntamenti storici del 1993? Tutt'altro! La struttura industriale meridionale era debolissima, malgrado i "successi" delle piccole e medie imprese e della nuova imprenditoria. Il fatto è che fra le analisi correnti sulla situazione meridionale, anche le più autorevoli peccavano di una sottovalutazione degli sforzi che la nuova imprenditoria meridionale stava facendo per evitare il collasso della debole struttura industriale del Sud. Corollario di questa tesi è che sbagliavano quanti, collegando i dati "macro" (sicuramente negativi) dell'ultimo decennio - l'industria meridionale aveva perso peso sul totale nazionale - al sistema di agevolazioni in atto, mettevano quest'ultimo sotto accusa, senza calcolare gli errori del passato, la crisi delle industrie di base, la forte diminuzione del flusso di incentivi a partire dal 1984, e così via.
Dopo la crisi del Golfo, tutto va rivisto. Compresi gli incentivi, che vanno modificati, ma con tempi e modi che non annullino quanto di buono e di nuovo può verificarsi nelle regioni meridionali. Da un lato, il livello delle infrastrutture civili ed economiche va avvicinato a quello del Centro-Nord (e qui èl'intervento ordinario che deve attivarsi); dall'altro, il peso degli incentivi diretti va gradualmente spostato dagli investimenti fisici agli investimenti "immateriali".
Bastano pochi dati per indicare la debolezza dell'industria meridionale:
- la quota di produzione industriale del Mezzogiorno è in calo da almeno dieci anni, ma con un forte spostamento dalle grandi imprese alle piccole e medie imprese;
- l'export meridionale di merci è anch'esso in calo continuo: in quattro anni ha perso tre punti;
- le importazioni nette di "beni e servizi" sono in costante crescita: il deficit corrente è pari al 21 per cento del Prodotto interno lordo meridionale, sicché il Mezzogiorno risulta la regione europea più dipendente dall'esterno.


L'unico segnale positivo è che da tre anni (1988-'90) l'occupazione industriale meridionale segna una ripresa in percentuale superiore al Centro-Nord: ma non quale potrebbe essere, se venissero sfruttate più intensamente le potenzialità meridionali. E poi: per trasformare questi timidi segnali positivi in strutturale inversione di tendenze storiche non si devono commettere errori di analisi, di valutazione e di decisioni.
Per quasi vent'anni, il 70 per cento degli incentivi meridionali sono stati appannaggio delle industrie di base (acciaio e petrolchimica) perché l'Italia politica e industriale aveva deciso che era giusto "modernizzare" tali settori, e lo aveva fatto con i quattrini destinati al Mezzogiorno. Senza entrare nel merito di quelle scelte - sulle quali abbiamo obiettato in anni non sospetti - è successo che la crisi internazionale delle industrie di base e la ristrutturazione delle industrie mature (cantieristica, tessile, alimentare tradizionale) ha colpito il Mezzogiorno assai più del Centro e del Nord: le perdite di alcune migliaia di miliardi di valore aggiunto (circa il 20 per cento del valore aggiunto manifatturiero meridionale) e di circa 200 mila occupati in imprese di questi settori (indotto compreso) non vengono quasi mai considerate nelle analisi sull'attuale debolezza dell'industria meridionale. Così facendo, le analisi aggregate non mettono in giusta luce l'unico fenomeno positivo recente, la vitalità imprenditoriale meridionale, cui si deve la sostanziale tenuta, anzi la modernizzazione di un tessuto industriale che appena dieci anni fa era malato di "gigantismo", ma di un gigantismo dai piedi d'argilla; o era addirittura inesistente. Si deve infatti ascrivere all'imprenditoria locale il fatto che:
- la ristrutturazione industriale della fine degli anni '70 e fine anni '80 è stata assorbita dal Sud forse meglio che dal Nord; il Centro-Nord, infatti, ha perso nel decennio il 15,2 per cento dell'occupazione manifatturiera, contro il 13,8 per cento del Sud, malgrado acciaio, petrolchimica, cantieristica pesassero più al Sud che al Nord. Come si può vedere dalla tabella (ultime due colonne), la migliore tenuta del Mezzogiorno (ad opera soprattutto della piccola e media impresa) risalta in tutti i settori - anche nella chimica, dove le perdite dei prodotti di base sono state più che compensate da un fiorire di piccole e medie imprese nella chimica secondaria - ad eccezione dell'alimentare, unico settore che ha accumulato nel decennio più del 50 per cento delle perdite nazionali ( circa 30 mila accupati persi, su un totale di 56 mila persi in tutto il Paese), ed unico settore da considerare nel Mezzogiorno in grave crisi strutturale e per cui sempre più urgente appare il bisogno di interventi strategici puntuali ed organici;
- la ripresa occupazionale industriale iniziata nell'88 e che tuttora sembra continuare viene per il 50 per cento dal Sud (che pesa solo il 16 per cento sull'occupazione industriale nazionale): infatti, al 4 per cento circa di tasso di crescita netta di nuove imprese al Centro e al Nord, il Sud risponde da anni con un saggio del 6 per cento;
- sulla base dei dati disponibili, si può ragionevolmente stimare che la riduzione di 130 mila occupati manifatturieri nel Sud tra l'80 e 1189 (si veda l'ultima colonna della tabella, a pag. 36) sia dovuta:
a) alle perdite delle grandi imprese dei settori di base (metallurgia e chimica) e maturi (tessili, alimentari, cantieristica, ecc.) e del relativo indotto per circa 200 mila unità;
b) a ristrutturazioni di piccole e medie imprese di altri settori, per altre 130 mila unità;
c) queste perdite sono state in parte compensate dalla creazione di più di 200 posti per addetti a piccole e medie imprese, di cui solo due terzi con interventi agevolati.
La debolezza strutturale dell'industria di trasformazione meridionale è un dato innegabile cui va data assoluta priorità nelle politiche regionali nazionali e comunitaria. Queste politiche vanno modernizzate, ma non stravolte, e tanto meno cancellate, come analisi affrettate e rozze sui loro effetti pretenderebbero. Ad esempio, la pretesa di Bruxelles (Direzione Concorrenza della Commissione) di escludere dalle agevolazioni quei territori meridionali il cui sviluppo industriale ha assunto di recente un andamento più vivace che nel resto dell'area (e cioè regioni come Abruzzo e Puglia) è da rigettare con fermezza. La giusta esigenza di graduare gli incentivi all'interno del Mezzogiorno tra regioni più o meno sviluppate non va confusa con una applicazione schematica ed erratica del sistema di incentivi o, peggio, con un'applicazione punitiva proprio verso quegli "embrioni", di "sviluppo autopropulsivo" che aspettiamo da oltre quarant'anni e che cominciamo forse ad avere in qualche arca limitata del Sud. L'obiettivo dev'essere quello di estendere le aree di successo, e non di spegnerne gli stimoli vitali e, si auspica, diffusivi.
Così come, dopo la crisi medio-orientale, va fatto un doppio sforzo per evitare che questa nuova vitalità imprenditoriale abortisca sul nascere: da un lato, un impegno più continuo dello Stato e dell'intervento ordinario nel miglioramento delle infrastrutture vitali per la vita sociale ed economica, come la scuola, i trasporti, le comunicazioni, la sanità, l'ordine pubblico e la giustizia; dall'altro, un'attenzione maggiore del sistema agevolato verso i cosiddetti investimenti immateriali delle imprese.
Oggi, l'impresa moderna deve investire sempre più in formazione, ricerca, software, marketing, controllo e certificazione qualità, servizi avanzati di ogni tipo, se vuole competere sui mercati internazionali, e un sistema moderno di agevolazioni allo sviluppo deve trovare i modi per spostare gradualmente il peso degli aiuti dagli investimenti materiali a quelli immateriali. Altre uscite di sicurezza non ci sono.

Una cento mille mafie

Palazzi da novanta

Aldo Bello

La tragedia del Sud continua e si aggrava, mentre lo Stato non riesce ad annientare - e nemmeno a contenere - il cartello del crimine organizzato. La società e l'economia meridionali talvolta sembrano scivolare verso una situazione ove grandi patrimoni di civiltà e di risorse umane finiranno travolti da una criminalità di stampo colombiano. In tale situazione, ogni componente della società va riesaminata; e, tra queste, non ultima, quella economica. Forse è stato il "mancato sviluppo economico" a generare eventi perversi di questo tipo? O è stata, al contrario, la "crescita del benessere" legata ai trasferimenti pubblici? Due domande, che spesso diventano tesi mal poste, sulle quali è opportuno soffermarsi.
Osservando i livelli di reddito, è evidente che il Sud ha avuto, nel corso del periodo post-bellico, una notevole crescita. Il suo reddito pro capite si è triplicato e attualmente è pari a quello del Centro-Nord degli anni Sessanta. Nello stesso periodo, la struttura settoriale si èprofondamente modificata con l'occupazione agricola passata dal 53 al 17 per cento, mentre quella nei servizi vendibili è ora al 40 per cento. Molto cresciute anche le infrastrutture. Ma il divario col Centro-Nord è rimasto molto ampio; sotto alcuni aspetti è addirittura aumentato negli anni Ottanta. Posto così uguale a 100 l'indicatore di prodotto per abitante della Cee, mentre il nostro Centro-Nord raggiunge il livello di 123,7 il Sud è a quota 70,7. Malgrado la dimensione del divario (cialtronescamente ignorato dai lamentosi profeti del separatismo legaiolo), non siamo sulla linea del dramma, perché il Sud è in posizioni contigue a quelle della Spagna, e sta molto meglio dell'Irlanda, del Portogallo e della Grecia.
La vera, grande anomalia del Sud viene dall'occupazione. Il tasso di disoccupazione è quasi raddoppiato in meno di dieci anni, e ora si avvicina al 23 per cento, contro il 7 per cento circa del Centro-Nord. Per le previsioni nel 2000, la popolazione in età lavorativa aumenterà di 850 mila unità nel Sud, a fronte di un calo di 900 mila unità nel Centro-Nord. Se si aggiungono la forte disoccupazione giovanile, un'ulteriore espulsione di addetti dall'agricoltura, il massiccio afflusso di nord-africani, ci si rende conto di come la situazione attuale e le prospettive siano tutt'altro che esaltanti.
Dalle precedenti contraddizioni tra livelli di reddito e disoccupazione emerge l'evidente necessità di riesaminare le politiche per il Sud e i grandi trasferimenti di fondi pubblici. Due le specifiche discrasie. La prima è la bassa quota di occupati nell'industria (sulla popolazione) che nel Mezzogiorno e pari al 36 per cento della media Cee, contro il 46 per cento del Centro-Sud della Spagna, il 65 per cento dell'Irlanda, il 79 per cento della Grecia, il 110 per cento del Portogallo, tutte aree con un reddito medio pro capite più basso del Sud d'Italia. Carente è quindi anche la cultura organizzativa tecnico-industriale. La seconda, che consegue alla prima, è dunque che i grandi trasferimenti di fondi pubblici sono andati a sostenere in prevalenza i redditi e la domanda (determinando quindi anche forti importazioni dalle industrie del Nord) piuttosto che la produzione industriale locale. La conclusione è una: il problema del Sud non riguarda certo oggi le risorse finanziarie, ma la loro peggiorata destinazione. Si deve prendere atto che a fronte di eccellenti gruppi dirigenti che operano secondo le leggi e il mercato, ne sono esplosi altri interamente volti ad ottenere fondi statali e sussidi improduttivi in un intreccio clientelare con tragiche contiguità alla delinquenza professionale dove opera anche una parte dei disoccupati. Così, i molti sacrifici dei meridionali (servitori dello Stato ed emigrati, ceti produttivi e accademici di alta levatura), l'impegno dei fondi pubblici e dei contribuenti, non serviranno a molto, finché lo Stato, rifondando anche se stesso, non avrà spazzato via l'intreccio criminal-clientelare. Ma lo vogliono realmente, tutto questo, i Palazzi da novanta?
Una volta o l'altra dovremo pur cercare di spiegare a noi stessi perché l'Italia del dopoguerra è la nazione europea con più "emergenze", quella che ha avuto - ed ha - più misteri irrisolti, più stragi, più terrorismo, più criminalità organizzata, più scandali. E il Paese nel quale si gode di più impunità. Le spiegazioni date finora sono state parziali e viziate. E tuttavia, il momento di una spietata esplorazione morale e sociale sembra essere ancora lontano. Sull'attuale società italiana si è solidificato un sistema di potere, produttore di ricchezze e di benessere, in condizioni di resistere quasi a tutto, e soprattutto all'esigenza di analizzare con sincerità le cause culturali e storiche della situazione attuale.
L'Italia "moderna" ha poco meno di un secolo di vita. L'unificazione, con la conquista del Regno del Sud, non soddisfece né il Nord né il Sud. La conquista di Roma creò un supplemento di lacerazioni. Solo il primo conflitto mondiale e il fascismo riuscirono a unificare, nelle speranze e nelle illusioni: torme di contadini meridionali morirono sul Carso e sul Piave, insieme con i contadini veneti; torme di contadini meridionali e veneti partirono con pari entusiasmo per l'Abissinia. Ma il secondo dopoguerra ripropose le divisioni e le contrapposizioni. In realtà, è mancato un vero principio unificatore, il cemento profondo dello Stato come collettività morale e culturale. E il Sud ha sempre nutrito risentimento, come un figlio adottivo trascurato rispetto all'erede. Del resto, la convinzione del Mezzogiorno di essere oppresso e sfruttato è antica: Francesco Crispi, deputato della Sinistra e poi presidente del Consiglio, uomo al quale non mancava il senso dello Stato, protestava come siciliano contro "leggi non fatte per noi". (Straordinario il fatto che nessuno abbia aperto bocca all'inizio della crisi mediorientale: avevamo riserve petrolifere per due anni, e i prezzi dei carburanti sono andati ugualmente alle stelle; la Fiat aveva registrato bilanci positivi per centinaia di miliardi, ma metteva in cassa integrazione decine di migliaia di operai di Torino e delle società collegate, passandoli a carico dell'erario pubblico proprio mentre mieteva successi internazionali con acquisizioni di altre imprese e proprio mentre si discuteva di ridimensionamento del debito pubblico; la Borsa andava a picco, e si prospettava la tassazione del capital gain; si varavano nuovi balzelli, ma nessuno metteva mano ad una autentica riforma fiscale; e si glissava rapidamente sul fatto che i valdostani hanno diritto ad ottanta litri di carburante al mese a 3 70 lire al litro, che veneti e brianzoli continuano ad essere i maggiori evasoti fiscali europei e che regioni e attività agricole, industriali, zootecniche intorno al Po hanno ridotto la Padania in un letamaio mangiasoldi).
I favori - storici, innegabili - accordati all'altra Italia hanno spinto le mafie meridionali a trasformarsi e a crescere: con mutazioni puntuali, efficienti, efficaci. Oggi, la mafia è una grande organizzazione criminale, ma non si ritiene tale. Si considera una grande associazione commerciale-produttiva, che deve agire in condizioni di sfavore rispetto all'industria e al commercio "normali". Presume che, come del resto in America, la sola possibilità che i finanzieri e gli industriali privilegiati le hanno lasciato sia il campo delle attività illecite, con la suburra sociale, la prostituzione, il contrabbando, la droga, la rapina, l'estorsione, le uccisioni a pagamento, il racket: e che quindi deve attuare questa forma di accumulazione primitiva, da riciclare e investire poi in attività pulite, lecite. Dunque: l'esplosione della potenza mafiosa di questi anni è legata a un grande fatto culturale, l'esplosione dello spirito del capitalismo nel Sud. Abbandonata a se stessa, tollerata (prevista? orientata?), gente senza scrupoli ha dato vita a una corrente "deviata" del capitalismo, che non rispetta alcun limite e fa ricorso anche all'assassinio come arma di concorrenza. E' un'autentica esasperazione di tipo sacrale dell'idea capitalistica: è un'idea stalinista dell'impresa. L'impresa e i suoi profitti vengono prima d'ogni altra cosa al mondo: chi si oppone, all'interno o all'esterno, va eliminato. Ovviamente, quest'idea paranoica si giova delle storture e delle ingiustizie italiane, come lo stalinismo si giovava delle storture e delle ingiustizie del mondo libero. Tutto questo i nostri Palazzi lo sanno. Anzi, lo hanno saputo con molto anticipo. Due anni fa, il capo della polizia previde che l'Antistato si sarebbe rafforzato e che avrebbe addirittura minacciato lo Stato. Venne insolentito dai politici.
E' stato scritto che, mentre ovunque crollano muri e sistemi, in Italia resiste, nei dibattiti pubblici, lo stile ideologico. Per il quale ci sono solo nemici da esorcizzare a colpi di moralismi, di retorica e di invettive, invece di problemi da analizzare razionalmente, prospettando le soluzioni possibili. Prendiamo il caso del cartello del crimine. Disponiamo di ottime descrizioni e spiegazioni del fenomeno. Ma l'intelligenza che molti applicano nell'analisi del problema sembra svanire quando il discorso si sposta sui possibili rimedi. Allora si torna allo stile ideologico: prediche e invettive sostituiscono di nuovo il ragionamento. E in questo modo alla gente comune non si offre la descrizione delle diverse soluzioni possibili né una valutazione dei rispettivi vantaggi e svantaggi. E' un persistente vizio italico. In sintesi, possiamo dire che, rispetto alla situazione attuale, in quella parte dell'Italia meridionale più soggetta ai morsi dei poteri criminali ci siano tre (e soltanto tre) possibili alternative.
La prima è quella "populista": consiste nel sostituire "Caudillos" onesti e capaci di mobilitare carismaticamente i consensi dei "descamisados" alle "oligarchie" corrotte e colludenti col sistema mafioso. La proposta populista, che rammenta persino nel linguaggio i populismi latino-americani, si regge su due pilastri: amministrazioni locali capaci di gestire, in stretta collaborazione con lo Stato centrale, le opere pubbliche, sottraendole all'ipoteca mafiosa e offrendo occupazione ai "descamisados" in competizione con l'offerta dell'imprenditoria criminale e, in secondo luogo, un apparato repressivo ispirato a criteri di giustizia "sostanziale", capace di reprimere i clan mafiosi aggirando gli' ostacoli che il garantismo giuridico pone normalmente all'azione degli inquirenti.
La soluzione populista può contare sul sostegno di una patte del mondo cattolico e della sinistra comunista. Del catto-comunismo essa mantiene l'ostilità per il garantismo liberale e la diffidenza per il mercato privato. Per i populisti l'economia pubblica, che domina il Sud (e grazie alla quale ingrassano i poteri criminali), non va smantellata, ma solo bonificata attraverso un passaggio di consegne: dai politici corrotti ai populisti onesti. Se perseguita con coerenza, la proposta populista può alleviare nel breve termine i danni più visibili prodotti dalla pressione criminale. Soprattutto essendo espressione di una tipica ideologia del sottosviluppo, essa corrisponde alla domanda e alle aspettative di quei settori della società meridionale che vorrebbero certamente liberarsi dal giogo criminale, ma senza pagare il prezzo della modernizzazione capitalistica, senza dover fronteggiare le incertezze e i rischi del mercato, senza fare a meno dell'assistenzialismo pubblico, (un po' come quei contadini dell'Europa centro-orientale che vogliono la libertà e il benessere dell'Occidente, ma senza rinunciare al Welfare comunista).
Gli svantaggi della soluzione populista sono insiti nella sua stessa inevitabile temporaneità (sono sempre temporanei i fenomeni caudillistici) e nel fatto che essa non è assolutamente in grado di modificare le condizioni economiche e i tratti delle culture meridionali che sono alla base dei fenomeni mafiosi.
La seconda è quella "militare". Se ne parla ormai sempre meno timidamente, ma è chiaro che con l'aggravamento, che sembra inarrestabile, della situazione, l'opzione militare è destinata ad attrarre crescenti consensi. Essa presuppone la formalizzazione dello stato di guerra con tutto ciò che ne consegue: leggi d'emergenza, temporanea sospensione dei diritti costituzionali nelle zone d'insediamento mafioso, esautoramento dei poteri locali, intervento militare diretto dal centro. Siamo ai cannoni di Bava Beccaris.
L'opzione militare ha una tradizione: essa venne di fatto usata, proprio nel Sud, dall'unica classe dirigente degna di questo nome che l'Italia unificata abbia avuto: la Destra Storica. Ma in ogni caso presenta, a sua volta, diversi ed enormi svantaggi. Il primo è che non potrebbe alleviare, ma anzi aggraverebbe, il problema - da cui tutto discende - della sfiducia verso lo Stato da parte delle popolazioni meridionali. Uno Stato che si limita a sostituire al volto corrotto e inefficiente che oggi ha in quelle zone un volto puramente repressivo può forse raggiungere temporanei successi militari contro la delinquenza organizzata, ma difficilmente può innescare quel "circolo virtuoso" di fiducia nell'autorità pubblica e di azione pubblica competente di cui il Sud ha bisogno. Inoltre, la soluzione militare ha un altro svantaggio: quello di lasciare intatti i nodi economico-sociali in cui si compendia la questione meridionale. Infine, essa porrebbe gravi problemi, e rischi di involuzione autoritaria, per il paese nel suo complesso: posta l'indivisibilità del sistema giuridico nazionale, come si fa a sospendere temporaneamente le garanzie in alcune zone d'Italia, senza che gli effetti si facciano sentire anche in tutte le altre?
La terza soluzione è quella "liberal-liberista". Essa propone una applicazione intransigente delle regole dello Stato di diritto liberal costituzionale. Nel presupposto che solo in questo modo (è quanto provò a dire Leonardo Sciascia, ma si trovò di fronte contraddittori troppo rozzi per capire di che cosa egli stesse parlando), lo Stato potrebbe arrivare, col tempo, a erodere la cortina di diffidenza che lo circonda. Inoltre, la soluzione liberal-liberista si affida al blocco dei trasferimenti di denaro pubblico dal centro, allo smantellamento dell'economia assistita e alla liberazione delle forze di mercato, nel presupposto che più "pubblico" si smantella nel Sud, più si restringe e prosciuga l'acqua nella quale nuotano i pesci del cartello del crimine, e più condizioni si pongono per lo sviluppo economico. Quest'ultima soluzione è ritenuta la sola che potrebbe, nel medio termine, avviare a soluzione la questione meridionale e ridimensionare i poteri criminali. Il suo maggior svantaggio è che per i benefici di medio-lungo termine che promette chiede un prezzo elevato a breve termine: la distruzione dell'economia parassitaria con conseguenti altissimi (temporanei?) costi sociali.
Ma soprattutto questa soluzione è avversata dal "comune sentire": né i politici legati al sistema malavitoso né i populisti - anche se per ragioni diverse - possono tollerare una drastica contrazione del peso dell'economia pubblica nel Sud. La sola strada che, forse, potrebbe avviare a soluzione il problema risulta quindi politicamente sbarrata. Se così è, nel prossimo futuro dovremo aspettarci un dibattito su questi temi interamente dominato dai populisti e dai militaristi, con ciascuna delle due fazioni impegnata a vantare i pregi della propria ricetta.
Ma è facile scommettere che, così stando le cose, altro non faremo che consegnare ai posteri, intatta nella sua gravità, quella questione meridionale il cui stato è chiarito, molto meglio che dalle indagini sociologiche, dal lugubre elenco dei morti ammazzati che ogni giorno dobbiamo diffondere attraverso i mass media.

Repubblica sudamericana?

Lo stato che c'è

Norberto Bobbio

Le lamentele che si vanno ripetendo monotonamente da anni, specie nei momenti di recrudescenza dello criminalità, sull'essenza dello Stato, sono insopportabili. Lo Stato esiste, e come!, anche in Sicilia. Forse che in Sicilia non esiste un governo regionale, addirittura a statuto speciale, che gode di privilegi che altri governi regionali non hanno? Non esiste in tutte le città siciliane, a cominciare da Palermo, un governo locale? Non esiste una pubblica amministrazione in Sicilia? Non si svolgono in Sicilia, come in tuffo il resto del Paese, regolari elezioni che chiamano i cittadini a eleggere i propri rappresentanti? Non ci sono i partiti in Sicilia, e i partiti non sono in una società democratica lo strumento principale, riconosciuto dalla Costituzione, per far partecipare i cittadini alla vita dello Stato?
Il continuare a far credere che lo Stato consista soltanto negli istituti della repressione del crimine, polizia, carabinieri, magistratura, per poter spiegare la nuova spietato uccisione di un magistrato che faceva Il proprio dovere adducendo l'insufficienza degli organici, l'inefficienza dell'apparato repressivo, è il solito modo, cosciente o incosciente che sia, per distrarre l'attenzione della gente indignata e atterrita dallo Stato che esiste, e su cui ricadono le maggiori responsabilità di quel che accade in quella regione, e in altre regioni meridionali. Lo Stato che esiste è lo Stato democratico-rappresentativo, completo di tutti i suoi organi', in pieno possesso dei suoi poteri'. Giustamente e saggiamente Alessandro Galante Garrone ha scritto che, se è vero che sotto accusa è lo Stato in generale, si dovrebbe parlare più precisamente di "governo, amministrazioni pubbliche, partiti, uomini' singoli, fuori dalle solite generalizzazioni". E aggiunge: "Un discorso da fare con più calma". Il discorso deve cominciare, a mio parere, dalla constatazione inoppugnabile che lo Stato esiste anche in Sicilia. Ma lo Stato che esiste è quello che non solo non è riuscito a sconfiggere in tanti anni il male antico della mafia, ma ha permesso che questa diventasse una potenza smisurata, sempre più minacciosa sino ad apparire invincibile. L'autrice di un noto libro, ("Cosa non solo nostra"), ha affermato in un'intervista che "dal dopoguerra a oggi la mafia siciliana è diventata la più potente organizzazione criminosa su scala mondiale" e che esso è "la principale responsabile della diffusione delle droghe in Europa dal 1951". Sarà un'esagerazione. Ma che in tutti questi anni la potenza della mafia in Sicilia non sia stata debellata, è di pubblico dominio.
Sino a che punto riusciamo a renderci conto che tutto questo accade non in una Repubblica sudamericana lontana mille miglia da noi, ma in una regione della civilissima, o che si ritiene civilissima, Italia, dove non solo esiste uno Stato, ma esiste un governo rappresentativo, che trae legittimità e forza da una Costituzione democratica avanzatissima?

Risposta su tutti i fronti

Giancarlo Caselli
Magistrato, ex membro CSM

La principale caratteristica dei modelli di criminalità mafiosa emersi ed affermatisi in Italia negli ultimi tempi sembra essere la loro vitalità e capacità di espansione. Nonostante i colpi subiti, infatti, le organizzazioni criminali più consistenti hanno saputo diventare vere e proprie strutture economiche, che ci loro modo producono ricchezza e danno lavoro: interessando (spesso in maniera sommersa) moltissime persone, che vengono così a trovarsi coinvolte in una rete di collegamenti e di rapporti che è sempre più difficile rompere. Di più: un complesso e sofisticato sistema di alleanze e scambi con pezzi dei mondo economico e politico (spesso fondato su forme anche solo implicite di intimidazione) ha fatto, di tali organizzazioni criminali, centri di diffusione di illegalità nelle istituzioni e nella società (comitati d'affari di varia composizione, tangenti, appalti e concorsi truccati ne sono - purtroppo - dimostrazione evidente).
Questa illegalità diffusa, che si intreccia con pesanti forme di disgregazione dei tessuto sociale e con storiche carenze dello Stato (in particolare della pubblica amministrazione) crea e ricrea - con continuità impressionante - spazi enormi per le organizzazioni criminali. Enormi e puntualmente riempiti, con il ricorso a tutte le tecniche d'intervento: dalle più moderne (grandi traffici) alle più tradizionalmente brutali (estorsioni, microcriminalità strategicamente orientata, ecc.). Il risultato complessivo di questa situazione bene è stato definito come "incancrenimento della criminalità in diverse aree dei Paese". Con tale incancrenimento, la criminalità riesce a permeare di se stessa interi territori, controllandoli pressoché in esclusiva. Ecco perché (come osserva Arlacchi in un suo saggio) se anche In molti Paesi dell'Occidente esistono "esempi di gestione disinvolta ed illegale di risorse pubbliche", se anche negli Stati Uniti e altrove esiste un potere mafioso molto forte, in nessun Paese esiste un potere paragonabile - per capacità di influenza reale - a quello detenuto dalla mafia In Italia.
Il pericolo, di fronte a questo stato di cose, è che la crescente sfiducia verso lo Stato finisca per appannare (fino a cancellare dei tutto) le motivazioni a ribellarsi e lottare. Il controllo dei territorio, realizzato nelle forme opprimenti che sono tipiche dei potere mafioso, finisce per determinare una saturazione dell'ambiente che altera valori e comportamenti. Senso di impotenza e tendenza alla rassegnazione ne sono la conseguenza. Mentre si vanificano l'opera e gli sforzi di quanti vorrebbero continuare a reagire.
In questo contesto, che è davvero poco definire drammatico, non si può che ribadire l'assoluta necessità di procedere con determinazione ed energia ad un piano organico e globale di interventi, articolato su tutti i fronti interessati: da quello repressivo a quello politico, economico e sociale. Solo in questo modo si potrà arrestare la caduta della tensione civile che sembra purtroppo serpeggiare nell'attuale fase, restituendo allo Stato il controllo dei territorio e della situazione nel suo complesso.

Cose nostre / Mafia bianca all'italiana?

L'aria che cammina

Guido Salerno

I superlatitanti ricercati sono 17, e la loro cattura comporterebbe effetti certamente disgreganti e di sicuro sbandamento all'interno delle organizzazioni criminali di appartenenza. Sono gli uomini che tirano le fila di mafia, 'ndrangheta e camorra; gli stessi che, dopo le spettacolari retate e i relativi maxiprocessi degli ultimi anni, hanno riorganizzato truppe e reti di gregari, ma non solo più in Sicilia, Campania e Calabria: nel giro di affari sono ormai entrate altre regioni ricche del Sud, come la Puglia, quarta "area a rischio mafioso" della penisola, e regioni ad alta concentrazione finanziaria del Nord, come l'Emilia, la Lombardia, la Valle d'Aosta e il Veneto.
Le cosche della Sicilia orientale fanno capo a Benedetto ("Nitto") Santapaola, personaggio tipico della mafia dei colletti bianchi, alla testa di un'organizzazione vastissima di interessi, e con relazioni rilevanti con esponenti della politica, dell'amministrazione pubblica e della finanza. Accreditato nei cosiddetti "ambienti che contano", non solo siciliani, Santapaola è il punto di riferimento esclusivo dei "corleonesi" della Sicilia occidentale, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Il primo è in assoluto il capo di Cosa Nostra Siciliana, mentre il secondo, fino a poco tempo fa un comprimario, è stato successivamente relegato al ruolo di braccio destro.
Riina è il nuovo Luciano Liggio, un monarca assoluto che ha trasformato radicalmente l'organizzazione con due operazioni a vasto raggio: la prima è consistita nell'eliminare la vecchia "cupola", o "commissione", della cui esistenza sospettava il generale Dalla Chiesa, e la cui operatività collegiale venne confermata da numerosi pentiti nel corso dei maxiprocessi; la seconda si è tradotta nella pratica, mutuata dalla strategia delle Brigate Rosse, della "compartimentazione", il sistema di mimetizzazione fondato sull'anonimato nelle città, e con comunicazione solo a livello di graduati, di luogotenenti, ciascuno noto solo, al proprio, e non agli altri gruppi di soldati semplici.
Fra i grandi latitanti, altri due nomi di spicco: Salvatore Greco, noto come "il senatore", (fratello di Michele Greco, "il papa", in galera e sotto processo), eminenza grigia di Cosa Nostra, sempre defilato, con numerosissime relazioni politiche, finanziarie e amministrative locali; e Carmelo Zanca, venuto fuori indenne dal processo per la strage di Piazza Scaffa, nella quale furono uccise otto persone, ma condannato all'ergastolo in contumacia al maxiprocesso.
Complessivamente, sono 16.302 le persone sospettate di lavorare full time per la mafia. Di questi personaggi i centri raccolta dati dell'Antimafia sanno quasi tutto: precedenti penali, vincoli di parentela e d'amicizia, livelli di affiliazione, giri di affari, luoghi frequentati, soprannomi usati, modi di comportamento, metodi di "lavoro" prediletti. E sono 817 le società o imprese alle quali gran parte di costoro fanno capo. Questo è lo "zoccolo duro" di Cosa Nostra Siciliana, al quale fanno riferimento le indagini su grandi appalti pubblici (come la terza corsia Roma-Napoli, soprattutto nel tratto Frosinone-Capua; o la centrale termoelettrica Enel di Gioia Tauro); i collegamenti con la camorra per appalti (la strada valdostana per il Monte Bianco) e subappalti (48 non autorizzati, 28 violazioni alle norme sulla certificazione antimafia, 305 violazioni al decreto di intermediazione delle prestazioni di lavoro solo nei primi sei mesi dello scorso anno); per gli omicidi; per il riciclaggio del denaro sporco; per le estorsioni; per il traffico di titoli; per le speculazioni in Borsa; per gli attentati.
I gruppi mafiosi siculo-calabresi sono 359, quelli camorristici sono 67, quelli pugliesi di recente formazione sono una trentina: calabresi e siciliani dispongono di circa 10 mila uomini armati, i campani di circa 5 mila, i pugliesi di 1.300. Di fronte a questi eserciti di scherani stanno 449 pentiti e collaboratori della giustizia, i quali hanno consentito di ridisegnare le nuove mappe della criminalità, di perfezionare 114 "accessi" bancari in 32 istituti di credito per esaminare i movimenti su singoli libretti o conti correnti, di acquisire numerosi elementi a carico di pubblici amministratori, di valutare in 3 mila miliardi i proventi del lotto clandestino, di mettere in cantiere un dossier sui canali di riciclaggio e di "legittimazione" della black money, di avviare una parallela indagine analitica sugli spostamenti di capitali dalle regioni ad alta intensità mafiosa a quelle dell'Italia centro-settentrionale con l'acquisto preferenziale di aziende agro-vinicole, di alberghi, di gioiellerie e pelliccerie, di ristoranti; di appartamenti, di terreni edificabili.

L'assedio di Milano
Emblematico è il caso della Montimmobiliare, che il narcotrafficante Sergio Coraglia aveva messo a capo di altre società di costruzione, con decine di cantieri aperti a Bollate, Carrugate, Opera, Rozzano, Cesano Boscone, Cornaredo, Settimo Milanese, Liscate, su terreni fatti diventare edificatori grazie a complicità locali ora sotto inchiesta. Coraglia e gli altri creatori della "Cosca Nord" facevano capo alla "famiglia" Resuttana, potentissima in Palermo. Alleati con la 'ndrangheta calabrese, gestivano società di copertura per il riciclaggio delle narcolire ed espandevano gli imperi immobiliari grazie a società finanziarie lombarde compiacenti. Senza, tuttavia, che questo escludesse altre attività mafiose tradizionali. Mafia, camorra e 'ndrangheta esercitano il "pizzo": secondo un rapporto del sostituto Guido Viola, a Milano un negoziante su dieci paga la tangente e tace. Finanza, imprenditoria e mercato immobiliare lombardi sono percorsi dal denaro sporco del Sud e del Centro, e Milano è diventata un gigantesco "lavatoio"; insieme con Nizza, dove alcuni milanesi operavano in contatto con Michele Zaza, esponente di primissimo piano della camorristica "Nuova Famiglia", arrestato un anno e mezzo fa.
Quello dell'edilizia non è il solo campo in cui avviene il riciclaggio. Una parte notevole del denaro sporco (i capitali provenienti da sequestri di persona sono poca cosa nel contesto delle migliaia di miliardi di lire dell'economia del crimine) viene investita in titoli di Stato e in titoli atipici. E' nella Borsa, dunque, che attraverso mille rivoli giunge gran parte del denaro da riciclare: fenomeno difficile da controllare, anche perché, comunque, sempre più destinato a collegarsi a flussi transnazionali.

Il sacco di Roma
Se Milano piange, Roma non ride. Per le cosche del Sud, la capitale è una base sicura per le complesse relazioni internazionali e per le coperture del traffico di cocaina e di eroina. Altissimo concentrato di politica, di pubblica amministrazione e di commercio, con l'aeroporto di Fiumicino e con gli scali di Ostia e di Formia-Gaeta, Roma è uno snodo di prim'ordine, la "business house" della mafia, giunta dapprima sul litorale, molti anni fa, con i Coppola, e in seguito con le famiglie di Palmi alleate con i "corleonesi".
La camorra, invece, ha risalito la costa attestandosi lungo l'asse Afragola-Mondragone-Cassino ed effettuando investimenti sicuri dopo il terremoto dell'Irpinia: settori privilegiati, l'acquisto, il taglieggiamento, il totonero. Da parte sua, la 'ndrangheta, alleata con la mafia, traffica in licenze commerciali, in speculazioni sui terreni (che hanno fatto saltare il mercato immobiliare nel Sud-Pontino) e in riciclaggio di denaro sporco.
La camorra ha un personaggio di riferimento preciso, Ernesto Bardellino, che da tre anni vive a Formia. Altri personaggi di rilievo delle mafie calabresi e siciliana vivono in soggiorni obbligati, come a Riano Flaminio, oppure hanno fatto acquistare (e poi si son fatte cedere) licenze commerciali a persone dalla fedina penale pulita, ponendo le basi di attività intorno alle quali ruotano gli interessi sporchi del narcotraffico, del "pizzo", dei sequestri di persona.
Molto complicato è il rapporto tra piovre e malavita romana, soprattutto dopo la fine degli equilibri, stabiliti negli anni '70, tra la banda della Magliana e Pippo Calò, il cassiere della mafia. Oggi siamo in presenza di una ricerca di nuova stabilità, costata finora almeno una trentina di morti ammazzati. Una nuova "pax mafiosa", è ritenuta indispensabile soprattutto per due motivi: ogni scontro apre un nuovo fronte di indagini, che si saldano con altre in corso da parte del Commissariato Antimafia, con gravi rischi per l'organizzazione; l'instabilità rende poi più difficile l'espansione dell'economia mafiosa, com'è accaduto per le indagini che hanno impedito di aggiudicarsi grossi appalti, quali quelli dell'università di Cassino, o delle Terme di Latina. Ma c'è anche un altro aspetto sul quale puntano gli investigatori: quello della proliferazione delle finanziarie, che a Roma e nel Lazio aprono e chiudono nel breve spazio d'un mattino e che spesso sono risultate essere solo un appartamento con telefono. Sono strumenti di riciclaggio, strozzinaggio, traffico e controllo del gioco d'azzardo, che applicano la tecnica colombiana delle centrali di raffinazione: possono essere smontati e trasferiti nel giro di un'ora.

Verso una "società del crimine"?
Se, dunque, il vero nemico del Sud è l'inestricabile nodo tra continua emergenza di bisogni sociali, controllo politico sulla gestione delle risorse pubbliche e interessi delle imprese coinvolte in questa gestione, è altrettanto vero che le tre piovre sono in grado di tessere all'interno del sistema politico-amministrativo rapporti, collusioni e garanzie d'impunità, inseriti in un circolo vizioso che si instaura tra sviluppo interrotto, assistenzialismo, aumento del potere criminale e crisi delle istituzioni. O si spezza questa catena, in ciascuno e in tutti i suoi anelli perversi, oppure assisteremo alla nascita di una diffusa società del crimine, parallela alla società civile, operante sull'intero territorio nazionale: come accade negli Stati Uniti, dove la "mafia bianca" è in grado di manovrare fino a quindici milioni di voti; come in Corea, nel Sud-Est asiatico, o nel Sudamerica, dove le mafie sono governi-ombra e gestiscono economie reali. Criminose, ma miliardarie in dollari. Politicamente determinanti, e ormai inestirpabili.

Criminalità e crisi morale

Michele Giordano
Arcivescovo Metropolita di Napoli

La serie efferata di delitti della criminalità organizzata, che ha coinvolto persone ignare ed estranee alla lotta tra i vari clan e finanche Innocenti fanciulli, ha seminato - per la sua vastità, crudeltà e continuo crescita sgomento e sconcerto. Apprezziamo tutti coloro che, rappresentanti dello Stato o semplici cittadini, si rifiutano di considerare tale fenomeno come una fatalità alla quale non è possibile reagire in alcun modo: dobbiamo invece riaffermare - con le parole e soprattutto con i fatti - la certezza che è possibile liberare le nostre regioni da un cancro che potrebbe portare alla rovina, alla morte; ed è possibile, ovviamente, solo a patto che ognuno faccia la sua parte.
Anzitutto, lo Stato con le sue istituzioni di polizia, la cui azione va ulteriormente potenziato con migliori attrezzature ed una migliore professionalità, tenuto conto dell'alto indice di "specializzazione" con cui opera oggi la criminalità organizzata. Al ministero di Grazia e Giustizia e alla magistratura si chiede, invece, di assicurare una più puntuale e rapida amministrazione della giustizia penale: la consapevolezza che i delitti non vengono puniti perché non si riesce a scoprirne l'autore, oppure che - in caso di condanna - c'è sempre la prospettiva di sfuggire alla pena attraverso le maglie larghe della giustizia penale italiana incoraggia senz'altro i delinquenti.
Ma non si tratta solo, per lo Stato, di svolgere un'opera di repressione. Più necessaria e urgente è l'opera di prevenzione. Sappiamo, infatti, che nel fenomeno della criminalità organizzata molto incidono la disoccupazione giovanile e il degrado sociale e civile dell'area urbana che gravita intorno alle metropoli. Occorre perciò creare posti e occasioni di lavoro, bonificare zone e quartieri, creare scuole e opere sociali.
Crisi lunghe, addirittura perenni, degli enti locali - spesso causate dalla logica distorto della spartizione dei potere - di fronte a problemi giganteschi da risolvere - come le emergenze dell'acqua, della casa, dei lavoro sono il punto debole e drammatico della situazione. Auspico, per gli enti locali, stabilità, concordia, impegno nella realizzazione del bene comune; e rivolgo una parola di compiacimento e di incoraggiamento a quanti stanno già operando in questa direzione.
Ma dobbiamo anche avere il coraggio di dichiarare che a nulla servirebbe l'azione dei pubblici poteri se non fosse accompagnato da un'intensa azione educativa da parte della famiglia e della scuola oltre che, in particolare, della Chiesa. Bisogna infatti rendersi conto che alla base dei fenomeno delinquenziale non c'è solo una grave crisi sociale, dovuta a subitanei' cambiamenti che hanno sconvolto equilibri e regole di comportamento, disorientando le persone e alimentando gravissimi problemi come la disoccupazione; c'è anche una - ancora più grave - crisi morale e religiosa, che ha portato alla caduta di quasi tutti i valori e al rigetto delle più fondamentali norme morali e religiose, a cominciare da quelle riguardanti il rispetto della vita umana, dal concepimento al termine naturale.
Su ogni legge morale e su ogni valore religioso, nella cultura dominante che ci avvolge e che respiriamo, ha preso il sopravvento l'idolatria dei denaro, visto come il bene supremo e assoluto, da guadagnare - in poco tempo e in gran quantità - anche a costo di uccidere o di infliggere spaventose sofferenze a creature inermi come i bambini. E' contro questa idolatria - spesso purtroppo esaltata anche dai mass media - che particolarmente la Chiesa deve combattere.
Alla comunità ecclesiale spetta il compito di inculcare con tenacia e con pazienza il senso autentico della vita umana, che si trova pienamente solo in Dio, la legge derivante dal Creatore e perciò rispondente alle esigenze più profonde della natura dell'uomo, in modo particolare l'assoluto rispetto della vita umana, insistendo nel proclamare l'insegnamento di Gesù sul denaro "iniquo" e la impossibilità di servire insieme Dio e Mammona.
Senza questa opera educativa profonda e radicale, ogni altra azione, pur necessaria, mi richiama la storiella di colui che schiacciava con le mani i moscerini uno ad uno, invece di pensare a bonificare il pozzo che ne produceva a centinaia di migliaia.

Società ed economia

Una follia punire il Sud

Sebastiano Maffettone

Tre elementi diversi, ma complementari, fanno pensare che il Mezzogiorno vivrà, nell'immediato futuro, momenti difficili.
Innanzitutto, esiste nel Paese un sentimento diffuso di scontento per il Sud e i meridionali. Il successo delle leghe non è solo elettorale. Nasconde anche antiche e mal sopite diffidenze, insieme con la rinascita vigorosa di distinzioni etniche e culturali poco rassicuranti. In sostanza, mentre prima si tendeva a credere che il divario Nord-Sud fosse da attribuire alle circostanze, ora ci sono pochi dubbi che la "colpa" sia dei meridionali.
In secondo luogo, queste sensazioni e intuizioni popolari trovano conforto nella più affermata dottrina sociale. I giuristi pubblici sostengono con rinnovato vigore le tesi delle autonomie locali, con la implicita raccomandazione che un Mezzogiorno più separato e indipendente sul piano istituzionale sarebbe alfine capace di colmare le proprie deficienze sociali.
I politologi riprendono a leggere il Cattaneo federalista. Gli economisti celebrano, con sorprendente entusiasmo, i fasti della logica di mercato. Per cui, il Sud soffrirebbe di una perversa abbondanza finanziaria, rimossa la quale, solo una "salutare" scarsità potrebbe rendere i suoi abitanti nuovamente autonomi, operosi, e efficienti sul piano economico. Poco importa a codesti neoreaganiani di provincia che la loro ricetta richiederà costi umani e sociali terribili in nome di un successo futuro e incerto.
I sociologi, infine, ripropongono l'idea di una criminalizzazione pervasiva delle popolazioni meridionali. Secondo alcuni di loro, la mentalità mafiosa e camorristica sarebbe così diffusa perché frutto irrinunciabile di una cultura tradizionale dominante. Come si può notare, tutte queste tesi teoriche riprendono, in maniera certo formalmente più seria e responsabile, le sensazioni diffuse che sono alle spalle del fenomeno leghista: il Mezzogiorno deve essere progressivamente separato dal resto del Paese e impoverito. In terzo luogo, fenomeni reali sembrano imporre, indipendentemente dalla volontà della gente comune o degli studiosi, una cura severa. Le difficoltà in cui si imbatte ogni finanziaria sembrano essere sempre meno occasionali e sempre più strutturali, con la conseguenza che l'abituale finanziamento alle regioni meridionali diventerà, nel prossimo futuro, estremamente improponibile. Inoltre, la presenza di nuovi agguerriti mercati, in concorrenza con i nostri, a cominciare dai Paesi assetati di consumismo dell'Europa Orientale, creerà impreviste difficoltà per eventuali investimenti nel Sud d'Italia.
I tre elementi che abbiamo qui sottolineato hanno origine diversa. Coincidono, però, nel proporre un'unica dolorosa ricetta. Il Mezzogiorno dovrà subire tutte le asprezze di un "vuoto deflativo", come lo chiamano gli economisti, per avere l'opportunità di ritornare ad occupare la sua posizione nel Paese con pari dignità. Lo stato del benessere dovrà essere ridotto o smantellato per ottenere un sia pur minimo risultato.
C'è poco dubbio che ci siano elementi di verità in questa pur amara conclusione. Il modo, ad esempio, in cui politici e imprenditori meridionali gestiscono la spesa pubblica e consentono un livello di consumi non giustificato dalla produttività, è spesso scandaloso. E' lecito, però, dubitare dello zelo ideologico che l'accompagna. Perché i tre aspetti che abbiamo presentato si rinforzano l'uno con l'altro, contribuendo a creare l'immagine di un Mezzogiorno assediato. Su questa immagine, cupa e punitiva, ci sembra giusto esercitare un esplicito sospetto intellettuale. E' perlomeno curioso che la forza delle idee sposi, senza dubbi o tentennamenti, gli ostinati pregiudizi dei lumbard, in un momento storico effettivamente complesso e preoccupante.
Il fine ultimo di una politica per il Mezzogiorno dovrebbe essere l'integrazione culturale economica, prima che sociale, di questa pane del Paese, come completamento dell'opera di riunificazione nazionale. E' implausibile credere che l'immagine di un Mezzogiorno assediato possa contribuire a ciò.

Ma il Nord ci rimette?

Paolo Savona

L'economia meridionale è presa tra due fuochi incrociati: da un lato giungono bordate pesanti sull'uso scorretto dei fondi che ad essa vengono destinati; dall'altro vengono le sferzate della concorrenza interna e internazionale. Le centrali di fuoco sono alimentate da valutazioni sociali, economiche e politiche che vanno individuate con precisione per essere neutralizzate. Sul piano sociale, larghi strati della pubblica opinione settentrionale sono convinti che il Sud viva a spese del Nord. Sul piano economico, questa convinzione non è suffragata né dai dati delle entrate e delle uscite del settore pubblico nel Mezzogiorno né dai dati della destinazione della domanda dei beni di consumo e di investimento meridionali tra Nord e Sud. Il contributo che il mercato meridionale, composto da 33 milioni di abitanti, dà allo sviluppo del mercato settentrionale, composto da 22 milioni di abitanti, attraverso i suoi acquisti al Nord, è elevato, prossimo a un terzo del benessere di questa parte della popolazione italiana. All'incirca, l'altro terzo del benessere del Nord viene dalle esportazioni e il residuo dalla domanda interna. Da questa ripartizione delle "fonti del benessere", dovrebbe derivare un pari interesse del Nord a mantenere buoni rapporti col Sud, come con l'estero. Ben conosciamo, invece, la diversa considerazione che i due universi ricevono dalle popolazioni settentrionali. E' ben noto che il contributo dato dal Mezzogiorno al benessere del Settentrione dipende per quasi il 40 per cento dai trasferimenti del bilancio pubblico al Sud, finanziati con l'imposizione fiscale e con l'indebitamento pubblico. La pubblica opinione settentrionale ritiene che questi trasferimenti derivino interamente dai propri esborsi fiscali. Questo convincimento è infondato.
Una certa parte, almeno un terzo, viene dalle stesse imposte e tasse pagate dai contribuenti meridionali; più di un terzo proviene dal meccanismo della progressività delle imposte tra aree che presentano diversità di reddito pro-capite in rapporto di 2 a 3; il residuo è l'effettivo finanziamento del Nord al Sud. Una stima grossolana consente di considerare questa percentuale pari al contributo dato dal Sud al benessere del Nord attraverso i suoi acquisti, stimabile intorno al 12 per cento. In sintesi, il Nord si autofinanzia (e dunque "non ci rimette") e in tal modo mantiene un minimo di condizioni soddisfacenti nel Sud. Questi calcoli hanno un mero contenuto statistico, "ragionieristico". Se si ipotizzasse la cessazione di tutti i trasferimenti pubblici al Sud, il benessere del Nord si ridurrebbe in misura maggiore di quella stimata, in quanto indurrebbe cadute di domanda o di risparmio proporzionalmente più ampie. Se il Sud interrompesse i suoi scambi di beni e servizi col resto del Paese, produzione e finanza del Nord presenterebbero gravi tensioni da adattamento alla nuova situazione.
Sul piano politico si riflettono queste errate valutazioni della componente economica del problema Nord-Sud e la spinta sociale che da esse hanno origine. Ciò è comprensibile, ma non giustificabile. Quali che siano l'origine e il contenuto della "questione meridionale", essa deve essere affrontata secondo un'ottica democratica: di una democrazia che si prefigga di garantire pari opportunità ai propri cittadini, secondo un'ispirazione liberale, e un minimo di giustizia distributiva, secondo una più moderna coscienza sociale. Le Nazioni o aree geografiche che non si prefiggono di garantire un assetto politico che offra pari possibilità a tutti i cittadini e una distribuzione del reddito e della ricchezza con diversità "accettabili" sono destinate a forme di organizzazione sociale basate sulla violenza nelle sue diverse forme (criminalità spicciola o organizzata, teppismo, droga, oppressione di Stato). Per non scontentare qualcuno dei moderni filosofi sociali citando uno solo di essi, mi limito a ricordare che già Platone scese in difesa dei due citati pilastri su cui si fonda una sana Repubblica: pari opportunità e adeguata giustizia sociale. La politica non può quindi registrare solo la spinta antimeridionalistica.
Il suo primo dovere dovrebbe essere quello di diffondere corrette informazioni statistiche sullo stato dell'economia. Il secondo, quello di attuare forme di intervento adeguate alle nuove necessità dei mercati aperti alla concorrenza interna e internazionale. Oggi questa politica è molto carente nell'assolvimento dell'uno e dell'altro dei propri doveri e qualche responsabilità ce l'hanno anche i meridionali che, pur formando maggioranza numerica nel Paese, non esercitano coerentemente questa loro forza democratica proponendo soluzioni "ragionevoli".

Così muore il Sud

Guido Gentili

Il meridionalismo politico non c'è più. Ma ci sono mafia e camorra, che vedono accresciuto il loro potere, e c'è la paralisi decisionale e operativa dello Stato. E' questa la triplice crisi che stringe d'assedio il Sud e che fa di intere regioni, isolate dal resto del Paese, un blocco sociale nuovo, alimentato dalle emergenze continue e dal "controllo politico sulla gestione di risorse pubbliche e interessi delle imprese a vario titolo dipendenti da tale gestione". Non poteva essere più amara, e severa, l'analisi della Svimez sullo stato del Mezzogiorno. La crisi della legalità, del meridionalismo e dello Stato fanno di un pezzo dell'Italia un terreno abbandonato, dove convivono modernizzazione fittizia e vecchi residuati socio-culturali. Ecco, così, "le sopraffazioni e gli asservimenti", la confusione tra pubblico e privato, gli "scambi di protezioni e le fedeltà personali": un bel tuffo, insomma, in un lontano passato "lazzaronesco e feudale" che si perpetua nel nuovo assistenzialismo.
Certo, fanno bene i padri nobili dell'intervento straordinario ad avvertire che l'Abruzzo non è la Calabria e che la stessa criminalità, pure così forte in alcune zone, è fenomeno che tocca parti circoscritte della società meridionale. Ma non sfuggono loro le radici del disagio, e della protesta, che stanno alla base del successo politico delle Leghe: il Nord, che vuole gestire la sua integrazione con l'Europa, non sa che farsene proprio di quello Stato inefficiente ed assistenziale dal quale al contrario il Mezzogiorno chiede di essere sussidiato.
Finita la stagione delle grandi utopie e dell'attesa delle "rivoluzioni" a Sud, la politica meridionalistica è stata travolta dalle leggi speciali e dalla fittissima rete di deroghe in nome e per conto dell'emergenza. E la stessa Svimez, che pure ripropone il valore della moderna impresa concorrenziale, e quindi dell'industrializzazione non assistita, per infrangere il blocco sociale degli anni 180, è consapevole che l'esito della partita con un coacervo di interessi ben più forte del vecchio "blocco agrario" è tutt'altro che scontato.
La mafia tende a sostituirsi allo Stato; ma, per accrescere i suoi guadagni, le sue quote di mercato e le garanzie di impunità, è anche interessata a rapporti di collusione con chi opera al suo interno. Da qui, l'affermarsi di un circolo vizioso che si instaura tra sviluppo interrotto, assistenzialismo, aumento del potere criminale e crisi delle istituzioni.
La catena andrebbe spezzata. Ma come? E' a questo punto che si apre la voragine del meridionalismo, quello non cialtrone e non lacrimoso, smarrito (speriamo non per sempre) nel buco nero degli interventi a pioggia. Per ora, lo ammette la stessa Svimez, non è affatto chiaro chi, e come, possa iniziare a tagliare gli anelli di questa catena. Contrapposta al nuovo, granitico blocco, questa nebbia progettuale costituisce l'aspetto forse più inquietante delle già difficilissime prospettive del Mezzogiorno. La legge che doveva sostituire l'intervento straordinario presenta un bilancio fallimentare. I piani per il Sud sono diventati elenchi di opere inutili e poco trasparenti. Lo Stato e una burocrazia romana, che vive solo di procedure ed ignora i bisogni dell'economia reale, sono lontani.
Perché meravigliarsi, allora, se un'area vasta, opaca e non concorrenziale come il Meridione è destinata ad essere sempre più emarginata?

Mezzogiorno Stato e Mercato

Enzo Giustino

Il richiamo al senso di responsabilità dei gruppi sociali contenuto nel documento dei Vescovi italiani sul Mezzogiorno poneva tra l'altro il quesito di come la società meridionale potesse superare la condizione di "dipendente verticale verso le istituzioni". In altri termini, di come si potesse rendere il Sud più "soggetto" che "oggetto" di sviluppo.
Commentando in particolare questa parte del documento, mi ero chiesto se una risposta a questa fondamentale domanda non andasse ricercata nella formula "più Stato, più mercato". Una formula, cioè, che ponesse fine ad una malintesa solidarietà nei confronti di popolazioni che devono certamente trovare nello Stato tutte le garanzie per una convivenza giusta, civile, serena, ordinata, ma che ha al suo interno forze e risorse sufficienti per riscattare e determinare il proprio futuro sotto il segno di uno sviluppo civile ed economico. Una formula che contribuisse a ribaltare l'immagine di un Sud avido e sprecone, "spesa-pubblico-dipendente". Una formula che aiutasse a svincolare le forze sane dalla soggezione del clientelismo politico là dove si manifesta e si impone.
Di tutto questo non si è parlato nel consueto convegno annuale dei giovani dell'industria su "Stato e Mercato", (argomento non nuovo, almeno per la Confindustria). Il tema ricorre spesso nelle manifestazioni e nelle prese di posizione dell'organizzazione imprenditoriale. Insistervi è infatti non solo utile, ma necessario, visto che nel nostro Paese interferenze, vincoli e condizionamenti sono ancora tanti. Al riguardo, vorrei osservare che ogni qualvolta si discute di questi problemi, in qualsiasi sede, si ha l'impressione che l'argomento non può interessare le regioni meridionali. Esse non potrebbero essere coinvolte in questo discorso perché destinatarie di politiche speciali, perché votate all'assistenzialismo, perché incapaci di intendere certi valori e certi principii, infine perché ormai dominate e costrette dalla delinquenza organizzata. Si potrebbe anche obiettare che i rapporti fra Stato e mercato interessano globalmente il Paese e che non è il caso di "specializzare" la discussione in chiave meridionale. E' vero! Tuttavia, la società meridionale dev'essere stimolata e sollecitata a ritrovare se stessa. Non nella forma dell'aiuto o di quella malintesa solidarietà di cui si diceva, ma contribuendo a creare una corrente di opinione che, sulla base di obiettive e serie analisi, possa consolidare la prospettiva non di un Sud in procinto di staccarsi dal resto dell'Italia e dell'Europa, ma di un Sud forte delle sue ragioni, delle sue tradizioni, della sua storia, delle sue possibilità, perfettamente integrate con l'Italia e con l'Europa.
Certo, non si possono cancellare in un sol colpo questioni come ad esempio quella relativa "all'economia della catastrofe", (com'è stata definita la politica di intervento per le zone terremotate), oppure quella degli "ammazzamenti" che monopolizzano le cronache. Tuttavia si deve riflettere e discutere, non solo per riferire, commentare, giudicare e magari condannare. Ma anche per capire. Solo due riferimenti. Primo: non è vero che la spesa pubblica, nel Sud, cumulate insieme ordinaria e straordinaria, sia quantitativamente superiore a quella che una ordinata redistribuzione delle risorse le assegnerebbe. Secondo: il fenomeno malavitoso, almeno in alcune regioni, può essere contenuto. Si afferma, in proposito, che è necessaria una incidente politica di risanamento e di sviluppo. Allora, alcune domande: vi può sopperire, in luogo dell'intervento pubblico, se non del tutto almeno in parte, il privato e quindi il mercato? Vi sarebbero, però, due nodi da sciogliere. Come si fa a garantire la neutralità della "politica" che comunque non è solo un'esigenza esclusiva del Sud? Come si può garantire che i nuovi investimenti non siano considerati, se pubblici, nuovo alimento per la delinquenza organizzata; e, se privati, controllati, se non addirittura indotti dalla stessa? Chissà se ci saranno indicazioni in merito, nell'immediato futuro.

Addio, ragazzi del '43

Luigi Compagnone

Quarantasette anni e mezzo fa, il 27 settembre '43, cominciarono le Quattro Giornate napoletane. Tredici anni e mezzo fa, agosto '77, il boia nazista Kappler evase a Roma dall'ospedale militare del Celio. Qualche giorno dopo, un quotidiano politico della Germania Federale scrisse tra l'altro che noi italiani' avremmo dovuto farla finita di parlare della Resistenza, poiché essa fu "soltanto una manovra per metterci dalla parte dei vincitori". Spero che, dopo la caduta del muro di Berlino, sia caduto anche quell'articolista. Il quale forse non sapeva, o fingeva di non sapere, che la Resistenza italiana era nata a Napoli, e che tra i ribelli (come gli imboscati chiamavano i partigiani) si videro molti ragazzini dei nostri vicoli. E molti di loro persero la vita dopo aver fatto saltare in aria più di un carro armato teutonico. Quei ragazzini non avevano combattuto per "mettersi dalla parte dei vincitori". Quando gli innocenti si rivoltano contro i carnefici, non si mettono dalla parte di nessuno. Essi pensano soltanto, per istinto e per sofferenza, a liberarsi dalla violenza e dal terrore. Come fecero quei ragazzini, che dettero una lezione di vita civile. Essi, gli "scugnizzi". Ossia i diseredati.
Ma tutti i napoletani - ripeto, tranne gli imboscati - divennero "ribelli". Ossia offrirono una civilissima lezione. Un solo esempio: il colonnello Scholl, che aveva fatto massacrare gente inerme, un giorno offrì un compenso di "lire mille e viveri" a ognuno che gli avesse consegnato un "traditore". Napoli, che di fame se ne moriva, rifiutò quei viveri e respinse il ricatto della fame. Esempio raro di fame e nobiltà. Eppure la fame è stata sempre il nostro nume indigeno. Una storpia letteratura ha rappresentato questa città come una affamatissima tribù che si arrende sempre ai maccheroni. Nessuno ha mai accennato ci una Napoli che, almeno quella volta, non si arrese alla pastasciutta. Fu questa, soprattutto, la sua grande Resistenza. Una resistenza al di sopra del color locale, al di sopra dei soavi e sospirosi canzonettari. Ma quella resistenza al morsi dello stomaco non ha fatto ancora storia né letteratura, anche se è viva nella memoria della nostra giovinezza.
Quarantasette anni e mezzo sono passati. Quasi un nero mezzo secolo. E Napoli si è arresa ad altri morsi. Non i morsi della fame vicaiola. Ma i morsi della fame miliardaria, nel cui nome si uccidano persino i ragazzini. Anche questi, vittime innocenti. Come i ragazzini del '43.
Vogliamo celebrarli? E celebrare quelle quattro splendide e terribili Giornate? Cretineria burocratica. E ipocrisia. Perché non si celebra un rimorso. Il rimorso di aver tradito quella Napoli, che resistette ai viveri e alle lire dei colonnello Scholl. Ma che oggi, almeno in gran parte, non resiste a camorre d'ogni risma e d'ogni ceto, affamate di miliardi e corruzione, di appalti e mangerie, di imbrogli e di delitti.
Addio, quindi, ragazzi del '43. Non siamo degni di celebrare il vostro esempio, né degni di onorare a freddo la speranza con cui alimentaste la nostra giovinezza. E poi, perché portare in giro la vostra fiaccola di verità? Magari si corre il rischio di bruciare una barba o una parrucca. Fetide barbe, fetide parrucche. Fetida "nuttata", che non passa da se stessa. Facciamola passare. noi, senza nessun rispetto per le barbe. le parrucche, i miliardi e la paura.

Italia e Mezzogiorno

La decadenza risale alla fine di Roma

Guido Salerno

Coloro i quali ritengono di poter dividere l'Italia in partes tres (com'era la Gallia ai tempi di Giulio Cesare) forse non sanno, o sanno molto bene, che dividere la penisola a qualsivoglia livello significa decretarne la fine. Questo, almeno, insegna il passato. Accadde così, infatti, con la prima divisione della storia, avvenuta nell'evo antico, dopo oltre mezzo millennio di unità trascorsa, prima, tra il III e il I secolo a. C., in maniera provvisoria e parziale (sia in termini geografici sia dal punto di vista politico-amministrativo), nella forma della "federazione" che legava a Roma e ai territori che facevano parte integrante della Repubblica, una per una, le singole e varie comunità "italiche" (dell'Etruria e della Magna Grecia, dei Sanniti, degli Umbri, dei Campani, degli Apuli, dei Lucani, dei Bruzi, ecc.); poi, dal I secolo a.C., in senso integrale, dopo l'estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'Italia, dallo Ionio alle Alpi, e la loro comune e generale organizzazione nel sistema dei municipi.
Unificata dunque da Roma, dopo essere stata per secoli un vero e proprio mosaico di popoli, di costumi, di lingue, l'Italia fu dalla stessa Roma divisa, alla fine del III secolo della nostra era, per ragioni strategiche e nell'ambito della generale riforma amministrativa cui l'imperatore Diocleziano sottopose l'Impero per adeguarlo alle mutate esigenze di governo e soprattutto alle sempre gravi necessità della difesa.
L'Italia che, alla stregua delle province (quasi sempre sdoppiate), era stata inclusa in una "diocesi" (la VII, detta Italiciana) comprendente, oltre la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, anche la Retia, a Nord (vale a dire gran parte della Baviera e il Tirolo) e, a Sud, la Numidia e l'Africa Proconsolare (cioè l'Algeria, la Tunisia e la Tripolitania), fu al suo interno divisa in due parti o "vicariati", dal titolo di Vicarius che ebbero i rispettivi governatori. Linea di divisione tra le due parti, il "confine" naturale - l'Appennino tosco-emiliano, tra i fiumi Magra e Rubicone - che separa l'Italia peninsulare da quella continentale e che già era stato politicamente operante prima del 49/42 a.C. quando, per volere di Cesare, divenne Italia anche la Padania, che fino ad allora era stata la provincia della Gallia Cisalpina.
L'Italia a nord dell'Appennino fu denominata "annonaria", dato che, come già accadeva in genere per le province dotate di una certa ricchezza e di una buona produzione agricola, essa venne sottoposta al tributo in natura a favore dell'Annona dello Stato; l'Italia a sud dell'Appennino fu detta invece "urbicaria" (o "suburbicaria") semplicemente perché in essa si trovava l'Urbe o, meglio, perché in vario modo essa gravitava (anche col compito di rifornirla) attorno a Roma, la quale peraltro ne faceva parte. Roma, infatti, conservò la sua - autonomia di governo che, per quanto non fosse di competenza del Senato, faceva capo alla carica tradizionale del Praefectus Urbis (il "Prefetto della Città") affiancato ora da un Vicarius del Prefetto del Pretorio.
Il governatore dell'Italia "annonaria" ebbe il titolo, abbreviato, di Vicarius Italiae, con sede a Milano; il governatore dell'Italia "urbicaria" prese ovviamente il titolo di Vicarius Urbis: sede naturale, Roma.
E' appena il caso di sottolineare come in queste titolature il nome Italia fosse riferito alla sola Italia settentrionale la quale, da questo punto di vista, si trovò ad essere (o così dovette apparire) come l'unica Italia o l'Italia per eccellenza (ciò che accentuò la divisione anche in senso nominale). Per l'Italia centro-meridionale e insulare tornarono così più facilmente (e come segno d'incipiente disgregazione) a prevalere i nomi regionali (Apulia, Campania, Umbria, Samnium, Etruria e poi Tuscia), fortemente caratterizzati e di antichissima e tenace tradizione, mentre nell'Italia settentrionale i nomi regionali continuarono a rimanere in sottordine, essendo alcuni artificiali (Aemilia, Transpadana), altri di accezione territorialmente meno compatta e definita (Liguria, Venetia). La conferma si ha negli scrittori dell'epoca, specialmente cristiani, i quali facendo riferimento all'articolazione interna dell'Italia considerata ancora come un'unità, elencano i diversi nomi delle regioni centro-meridionali facendoli poi seguire da quello dell'Italia, con l'evidente significato di "parte restante dell'Italia" che però, essendo - questa - quella settentrionale, faceva di essa la sola ad essere designata complessivamente con quel nome.
Ad agevolare poi la distinzione, stava il fatto che tutta l'Italia settentrionale si trovava in un periodo di prosperità e di progresso civile senza precedenti, proprio mentre l'Italia centro-meridionale e insulare stava andando incontro ad una crisi dalla quale, sia pure con gli alti e bassi dei secoli successivi, si può dire che non si è più ripresa (sicché è possibile anche affermare che nacque allora il "problema meridionale"). Diventa infatti assolutamente antieconomica ogni attività, dall'agricoltura, già da tempo compromessa dalla piaga dei latifondo, all'artigianato "industriale" privo di sbocchi di mercato; e con la disoccupazione era subentrato lo spopolamento, mentre si diffondeva la malaria e imperversava il brigantaggio.
Quanto alla fioritura dell'Italia settentrionale, essa era stata grandemente favorita per il fatto che la regione s'era venuta a trovare, nel giro di pochi decenni, al centro dell'Impero o, quanto meno, degli interessi e delle iniziative del governo centrale, tutto intento alla difesa delle pericolanti frontiere del Reno e del Danubio e alla salvaguardia delle province transalpine, delle quali la Padania costituiva, rispetto alla loro "prima linea", il naturale "retrovia". Si aggiunga la funzione di "cerniera" che la stessa Padania esercitava tra la parte occidentale e quella orientale dell'Impero (sempre più spesso divise, ma ancora strettamente legate) e la conseguente importanza dei collegamenti e dei traffici (militari e annonari, prima di tutto; ma inevitabilmente anche culturali e artistici, economici in senso lato e persino religiosi) che l'attraversavano passando per un asse Est-Ovest che aveva completamente soppiantato quello Nord-Sud, aggravando così l'emarginazione del Mezzogiorno, ormai escluso dalla "circolazione vitale" dell'Impero.
Così fu per tutto il IV e per buona parte del V secolo. Le cose cambiarono con le invasioni "barbariche". Tramontato l'Impero di Roma, Goti, Longobardi, Bizantini, Franchi, non riuscirono più, di volta in volta, a far propria l'intera Italia. Anzi, se ne disputarono fieramente le varie parti. E allora fu tutto un seguito di divisioni che riportarono la situazione a un nuovo mosaico, almeno da un punto di vista politico-amministrativo. Perché l'idea dell'Italia come entità unitaria rimase, nonostante tutto, viva e operante (anche se, significativamente, il "Regno d'Italia" ricostituito nel Medio Evo, all'interno del Sacro Romano Impero, riguardò solo l'Italia settentrionale; come sarà poi, del resto, molti secoli dopo, col Regno dell'Italia napoleonico). E per tornare all'antica unità dovettero trascorrere circa quindici secoli.

Sul filo della memoria

Il Sud e il "Mondo"

Il problema meridionale venne posto dal settimanale fondato e diretto da Mario Pannunzio (e uscito dal febbraio 1949 al marzo 1966), con grande energia, al centro dell'attenzione. Tale sottolineatura fu affidata, significativamente, alla penna di Ugo La Malfa. "Se noi vogliamo dare un significato - egli scriveva nel '49 - uno scopo, un fine alla nostra attività nazionale, se noi vogliamo trovare qualcosa di nuovo e di estremamente impegnativo intorno a cui galvanizzare le forze della giovane Italia democratica, se vogliamo dare uno slancio alla nostra capacità creativa, dobbiamo far perno sul problema, storicamente tramandatoci, del Mezzogiorno. Nessun altro problema è più maturo e più impegnativo di questo e nessun problema può essere, allo stato delle cose, dopo aver dato una certa struttura politica al nostro Paese, più urgente di questo".
Nel modo in cui "Il Mondo" affrontò la questione meridionale appare evidente la confluenza di due linee di pensiero (una confluenza, peraltro, che caratterizzò un po' tutta la rivista): quella di Salvemini e quella di Croce. Fu infatti Vittorio De Caprariis (un intellettuale di formazione crociana) a rendere omaggio a Salvemini sulle pagine del "Mondo", scrivendo: "Negli Scritti sulla Questione meridionale direi che l'attenzione a collegare il particolare al generale, a cogliere il nesso tra i problemi e una situazione generale è così evidente che bisogna essere lettori veramente distratti per non avvedersene. E certamente questa attitudine a risalire continuamente dai dati concreti ai fatti più generali e ai principi non è l'ultimo merito di un libro che, iniziato cinquant'anni fa, nel 1896, sembra che sia stato tutto scritto ieri". E di Salvemini "Il Mondo" condivise il giudizio sull'attività di agitazione sociale e politica svolta dai comunisti nel Sud ("I comunisti cercano ovunque i punti d'appoggio per sollevare il più esteso malcontento possibile. E in quel lavoro per reclutare comunque malcontenti promettono tutto a tutti, anche se quel che fanno sperare agli uni fa a pugni con quello che fanno sperare agli altri").
Si può dire che la linea portata avanti da "Il Mondo" sul problema meridionale si differenziò profondamente sia da quella dei comunisti (che era puramente strumentale e finalizzata a una politica antiliberale e antidemocratica) sia da quella di coloro che non vedevano l'importanza di un grande impegno nazionale per l'industrializzazione del Sud e si limitavano ad auspicare le condizioni in cui le modeste attività artigianali e industriali, più naturali e meglio rispondenti ai bisogni dei luoghi, potessero vivere, svilupparsi e progredire. Contro questa impostazione insorgerà Francesco Compagna, per il quale lo Stato non poteva limitarsi ad assecondare con una politica di incentivi un fragile tessuto di piccole imprese. Certo, non si trattava di creare artificialmente qualcosa dal nulla, bensì di infrangere quel "privilegio per cui attualmente una parte del Paese accentra nelle proprie mani la produzione degli strumenti del lavoro proprio e del lavoro dell'altra parte". L'obiettivo era dunque di "rendere le condizioni di partenza dell'insediamento industriale in determinate "zone industriali" del Mezzogiorno uguali alle condizioni di partenza che le iniziative incontrano nelle regioni meglio dotate del Nord".
Ed è stata questa, in effetti, la politica seguita: una politica che ha registrato errori e sconfitte, ma anche successi, e in taluni casi grandissimi successi, al punto che l'economia e la struttura sociale meridionali hanno conosciuto uno sviluppo notevolissimo, che non trova riscontri in altre regioni arretrate dei Paesi industrializzati. A questa politica il liberalismo democratico del "Mondo" diede, negli anni difficili della sua impostazione e del suo avvio, un contributo tutt'altro che trascurabile di analisi, di idee e di proposte Sarà un vero peccato, se andrà perduto (per i risvolti attuali, soprattutto) per colpa di pregiudizi nordisti e della criminalità mafiosa meridionale.

La disoccupazione giovanile

Drammi meridionali

Franco Compasso

Per affrontare alla radice il secolare divario che contrappone il Sud al Nord dei Paese, occorre attivare una seria e radicale politica per l'occupazione. E' sempre il Mezzogiorno l'area più colpita dalla disoccupazione. Ed il dato più allarmante consiste nella crescita della disoccupazione giovanile nelle regioni dei Sud. Ancora una volta, la Svimez si è incaricata di fornirci un quadro obiettivo della condizione dell'occupazione in Italia: nel 1988 la disoccupazione meridionale registrava un allarmante segmento di essa, pari al 70% di persone in cerca di prima occupazione. La disoccupazione effettiva, rimasta pressoché invariata nell'intero Paese tra il 1987 e il 1988, di fronte ad una contrazione nelle regioni centro-meridionali (-8,7%) faceva registrare un sensibile aumento nel Mezzogiorno (+8,1%). In questi ultimi anni, le politiche per l'occupazione (in particolare la 863/1984) hanno continuato ad operare con scorsi risultati per il Sud. Si è infranto nella realtà meridionale l'enfasi scriteriata azionato a tutto vapore per esaltare Il "miracolismo" dei contratti di formazione-lavoro. Introdotti per favorire l'occupazione giovanile attraverso una maggiore liberalizzazione dei mercato dei lavoro (la 863 consente alle imprese di assumere, con richiesta nominativa e rapporto a termine, giovani tra i 15 ed i 29 anni), i contratti di formazione-lavoro hanno conseguito risultati negativi per l'occupazione giovanile nel Sud. I dati parlano chiaro: nel 1988 i contratti di formazione-lavoro hanno interessato complessivamente, a livello nazionale, 493.643 unità lavorative, di cui solo 44.473 nel Mezzogiorno (449.170 nel Nord).
E' amaro constatare come sia tuttora troppo debole la partecipazione dell'apparato produttivo dei Mezzogiorno all'utilizzo delle nuove strategie e dei nuovi strumenti previsti dalle politiche per l'occupazione. Ciò non aiuta i giovani dei Sud a trarre vantaggio da norme ed incentivi che avrebbero dovuto creare in loco occasioni di lavoro aggiuntive. Ancora una volta è il Nord che piega al suo profitto leggi predisposte per favorire la ripresa produttiva ed occupazionale del Sud. E troppo chiedere ai leghisti lombardi di riflettere su questi dati prima di dare fiato ai loro tromboni?
Aspirazioni e frustrazioni dei giovani meridionali, esigenze di diplomati e laureati che intendono il lavoro come un diritto e non come un privilegio elargito dai potentati clientelari sono al centro di una vasta, documentata ed interessante indagine, curata dal sociologo Alessandro Cavalli, per conto del Formez-Iard. La condizione giovanile nel Mezzogiorno è stata scandagliata in tutta la sua complessa realtà: la radiografia dei Formez è oggettiva ed impietosa. Essa scruta nella profondità di un "sistema" meridionale che persiste ad elargire "posti" e non a garantire il lavoro. Lunghi decenni di clientelismo arrogante hanno alimentato l'illusione - come osserva acutamente il Presidente del Formez, Sergio Zoppi - che "il diritto al lavoro (ma anche la produttività e l'utilità sociale dei lavoro) si vanifica spesso nella gestione clientelare dei "posto"".
La condizione giovanile nel Sud appare in tutto il suo peso di irrisolto dramma civile e sociale quando si registrano perverse connessioni tra le opportunità di lavoro e le attività illegali, la marginalità e la precarietà dell'occupazione "ingessate" nell'economia sommersa di vaste aree urbane, la difficile convivenza con la forza-lavoro extracomunitaria. Tutto ciò conduce ad esasperare condizioni di rassegnazione e fatalismo in cui vivono migliaia di giovani meridionali che, come indica la ricerca, non "hanno fiducia sulla possibilità di esercitare qualche controllo sul proprio destino". la realtà complessa del Sud non può farci abbandonare le strade della speranza e della fiducia. E di fronte ad una condizione giovanile, che nel suo complesso èdrammatica e preoccupante, avvertiamo segnali che indicano una fase di crescita di alcuni valori, In particolare tra i giovani con li velli di istruzione e tassi di partecipazione associativa superiori alla media. Essi credono e si battono per avviare un processo di modernizzazione della società e delle istituzioni. E' vero: si tratta di un processo lungo e complesso, che ha però una dinamica propria inarrestabile, e che alla distanza potrà avere ragione dell'attuale immobilismo. In fondo la "fiducia" è la prima risorsa morale e civile dello sviluppo, l'unica capace di sradicare nel Sud la rassegnazione e la subalternità ad un potere clientelare corrotto e corruttore.


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