§ Che Sud fa / Cronaca di un fallimento

Terra promessa addio




Redazionale



A Catania si fa terra bruciata attorno all'imprenditoria pulita. A Palermo e a Napoli progetti analoghi sono quasi completati. L'immagine dei tentacoli della piovra sarà usurata, ma visualizza bene l'idea dei Sud avvolto sempre più nelle spire del cartello del crimine. Lo strangolamento è progressivo e, a modo suo, "indolore": ai bollettini delle guerre mafiose e ai morti ammazzati si finisce per fare l'abitudine; lo stillicidio quotidiano delle notizie di cronaca nera dà assuefazione: come il curaro inoculato per dosi crescenti: avvelena l'organismo senza ucciderlo. Dominandolo, infine, senza scampo.
Uno sdegno forte e a volte fortemente insolente per la situazione criminale del Sud percorre il Paese, provocando sentimenti generali di ripulsa per tutto ciò che è o che sa di meridionale: dal modello di vita, di cui si riscoprono "ascendenze orientali" o levantine, alle cadenze fonetiche, considerate insopportabili. Per la verità, sentimenti del genere, anche se a livello subliminale, ci sono sempre stati, nel nostro Paese. Ma mentre prima li si esibiva con pudore, o in sordina, ora sono esplosi in forma plateale. Questa condizione psicologica così diffusa ha le sue spiegazioni. La criminalità organizzata è penetrata negli ultimi tempi non solo in altri territori meridionali (come la Puglia e la Basilicata), ma ha dislocato i propri uomini anche in posti-chiave dell'economia e della politica amministrativa, tant'è che - a leggere certa stampa e certi opinion-makers - il frutto della produttività mafiosa sembra essere l'unica "iniziativa"nella vita associata nel Sud.
C'è però un conto che non quadra negli spettacolari dossier televisivi, nelle inchieste della carta stampata degli ultimi tempi, e negli stereotipi sociali, descritti da tanti intellettuali, sul Sud degenerato. Non quadra quella generalizzata demonizzazione di massa del Mezzogiorno che rappresenta un supplemento d'ingiustizia per un territorio nei confronti del quale, come ha ricordato Karol Wojtyla nel suo viaggio in Campania, "urge un recupero di legalità". Esiste infatti una grandissima maggioranza di meridionali che non delinque, che per la delinquenza non ha alcuna propensione "antropologica" e che ha orrore per la violenza e per il sangue.
Esattamente come ce l'hanno tanti cittadini del Nord. Questa fetta di società meridionale, che ha radici profonde nel proprio territorio, non può trarre dall'elemento più casuale e incolpevole della propria esistenza, che è appunto il luogo di nascita, un motivo d'angoscia in più. Un'idea martellante - e persecutoria -la spingerebbe ad emigrare, se non fosse per il fatto che questa fetta di società appartiene ad una generazione che ha interrotto, per una sfida silenziosa, il calvario delle emigrazioni meridionali che segnò la vita delle generazioni precedenti. Risultando, per questa complessa situazione psicologica, difficile partire, si adatta a vivere in contiguità e talvolta in promiscuità (nel Sud si fa sempre più sottile e confuso il confine tra le due posizioni) con la violenza e col terrore. Della violenza e del terrore subisce i riflessi di un codice impietoso.
Per quanto possa apparire diseducativa l'accettazione dell'omertà, (quanti spettatori lontani e al sicuro sanno fare gli eroi a parole!), essa diventa, in alcune aree, una involontaria scelta di vita. La sua deroga provoca, nel migliore dei casi, una sventagliata di mitra alla finestra, o una bomba sulla porta, nel cuore della notte. Omologare questa parte lesa a quella parte di società che delinque è un misfatto grave che può essere compiuto dal grande pubblico televisivo, inconsciamente condizionato da una presunta modernità che offre solo notizie-flash, o peggio, notizie-merce, prive di antefatto e delle necessarie difformità e articolazioni di una società complessa. Non può mai diventare, però, un'operazione compiuta da intellettuali, dai quali ci si aspetta, semmai, l'aiuto giusto per comprender meglio un fenomeno intricato e, comunque, la difesa della parte dolente di una comunità.
Attuale da sempre, questo discorso sta diventando decisivo, dal momento che i grandi industriali e gli operosi imprenditori del Centro-Nord dovranno decidere se sia ancora interessante scendere a Sud, o se il rischio è troppo alto e, tutto sommato, sia preferibile cercare altri spazi e altre occasioni di investimento all'interno di un'Italia settentrionale sempre più congestionata, nella penisola iberica o in quella ellenica, in Jugoslavia, o addirittura nei Paesi dell'Europa centro-orientale, quella dell'epoca post-comunista. Malgrado tanti segnali negativi, la partita sembra ancora aperta. Ma per comprendere i termini di una questione così complessa, occorre fare due piccoli passi indietro, poi un piccolo passo avanti.
Finita la guerra, la borghesia agraria (protetta dal sistema daziario) e la borghesia industriale (protetta dalle commesse pubbliche) si trovarono di fronte al problema della ricostruzione fisica e morale del Paese. Il grande errore fu quello della scelta, o meglio, della perpetuazione della politica economica dualistica: si ricostruirono le industrie al Nord, si abbatté - con la distribuzione delle terre - il latifondo al Sud. Inutilmente Manlio Rossi Doria gridò ai quattro venti che alla radice della vecchia questione meridionale c'erano problemi di scolarità, di qualificazione professionale, di istruzione tecnica, di trasporti, di beni civili e di servizi sociali. Un disegno abilmente preordinato finanziò l'area privilegiata del Paese, facendo del Sud un suo gigantesco mercato, e della Cassa per il Mezzogiorno un pubblico ufficiale pagatore.
Quando la riforma naufragò, quattro milioni di contadini, di artigiani e di disoccupati meridionali abbandonarono i paesi d'origine, diventando - come abbiamo già avuto occasione di scrivere - miriametri di fasci muscolari e tonnellate di materia grigia a buon mercato, a disposizione del Nord e dell'Europa comunitaria. Le loro rimesse in valuta pregiata furono decisive per l'equilibrio della nostra bilancia dei pagamenti e, ancora una volta, per l'acquisto di materie prime destinate alle imprese produttrici di beni e consumi, dislocate per quote di maggioranza assoluta nel Centro-Nord. Al Mezzogiorno - dov'era indispensabile creare una cultura imprenditoriale - le industrie pubbliche incentivarono il mito della tuta blu nel settore dell'acciaio e dei caschi gialli in quello della petrolchimica, e l'azione politico-amministrativa incentivò il mito dell'impiego statale, regionale, locale. Così, emersero le figure nuove del Sud: i salariati pubblici, molti dei quali provenivano da esperienze tecnico-professionali fatte al Nord o all'estero; i privati imprenditori, metà almeno. dei quali poi sconfitti dall'avventurismo finanziario e da una tetra ignoranza dei problemi del mercato; i gestori del denaro pubblico, strumenti - spesso consapevoli - della grande corruzione che nel Sud ha generato torme di assistiti, di pensionati, di precari, di profittatori in proprio o per conto terzi.
Quando, a proposito del Sud, si parla di collusioni mafia-politica, si fa un discorso estremamente parziale. Queste collusioni ci sono, e si consumano sulla pelle del Mezzogiorno: ma riguardano soprattutto i rapporti tra lobbies politiche ed economiche del Nord, dal momento che solo le imprese settentrionali sono in grado di gestire appalti per decine di migliaia di miliardi, con progetti "chiave in mano" di grandissima portata. E' al secondo livello, e a quelli ancora inferiori, che prevalgono le interferenze delle lobbies politiche ed economiche del Sud: nei sub-appalti, nella frantumazione (o moltiplicazione, o parcellizzazione) dei cantieri di lavoro. Il caso della ricostruzione delle aree terremotate è emblematico: l'Italia delle due o tre economie diverse e persino contrapposte, l'Italia delle diaspore leghiste, l'Italia dell'affarismo politico si è riunificata in Irpinia e dintorni nel nome dell'appalto, della tangente, della truffa. Ci sono stati tutti, settentrionali, centrali e meridionali, concertati dal sacro egoismo del profitto.
Chiuso il discorso sul Sud "californiano" nel settore agricolo, si aprì quello sul Sud, altrettanto "californiano", per quello industriale. Economisti, demografi, sociologi, studiosi di strategie aziendali, giunsero quasi all'unisono alla conclusione che nel Mezzogiorno esistevano tutte le condizioni potenziali per il take-off, come si volle chiamare il "decollo". Imprigionato in uno spazio fisico ormai angusto, il Nord avrebbe trovato nelle regioni meridionali nuovi incentivi allo sviluppo. Un'Italia di bassa natalità, pervenuta addirittura alla mitica crescita-zero, avrebbe trovato nel Sud (otto nati per mille nel Nord, contro tredici per mille nel Sud) mano d'opera abbondante, a prezzi convenienti, sgombrando il campo dal pericolo d'invasione degli extracomunitari, soprattutto maghrebini, che già premevano alle frontiere. Obiettivo ritenuto possibile: riequilibrare il tasso di crescita, che allora era del 3,6 nel Centro-Nord e dell'1,6 nel Sud.
Fu allora che i tycoons che dominavano i quartieri generali della nostra economia a Milano, a Torino, a Genova, a Ravenna, a Ivrea, cominciarono a pensare seriamente ad una strategia "sudista": e non per generosità, e forse meno che mai perché illuminati dalle teorie di Pasquale Saraceno o di Francesco Compagna; ma per due considerazioni essenziali: perché l'esperienza degli Stati Uniti dimostrava che gli investimenti nelle regioni depresse si traducevano poi in benessere per l'intero Paese, e perché l'Italia era l'unico Paese europeo a poter contare su oltre un terzo del territorio densamente popolato ma con strutture economiche assolutamente inadeguate.
Fu un momento di snodo storico. Sembrò davvero che un ciclo negativo per il Sud stesse per entrare nella memoria epocale. Vecchi e nuovi clienti del Sud (Fiat, Pirelli, Olivetti, Montedison, Barilla, Ferrero) studiavano massicci investimenti a Sud del Garigliano. L'intera Europa occidentale, d'altra parte, aveva aggredito le proprie aree arretrate: il Borinage belga, il Midi francese, lo Schleswig-Holstein tedesco, il Nord britannico, le zone depresse irlandesi, spagnole, greche, portoghesi, conoscevano un revival simultaneo e rinnovatore.
Oggi, per il nostro Sud, quasi tutto è come prima. La Svimez ci informa che la disoccupazione del Nord è sotto il 7 per cento e quella del Mezzogiorno è sopra il 21 per cento. Al di qua del Garigliano si è superata ogni soglia di guardia: sono peggiorati il clima di insicurezza, il malaffare diffuso degli enti comunali e regionali, gli intrecci tra ambienti politici e poteri criminali, la rapina scientifica delle risorse statali. Vi sono problemi di ordine pubblico, di riconquista del territorio, di garanzia degli investimenti esterni contro l'assalto delle cosche, di controllo delle società finanziarie e degli affari dei pubblici amministratori condotti anche con società anonime o con prestanome, di sicurezza delle imprese che lavorano e creano posti di lavoro e benessere. E problemi di rafforzamento degli organici giudiziari e investigativi e di energica applicazione della legge Rognoni La Torre.
Il passo avanti riguarda il gennaio 1993, e anche in questo caso occorre riandare con la memoria al 1987-1988, quando per la prima volta in modo concreto si cominciò a parlare della necessità di affrontare con strumenti adeguati la sfida del Mercato comune europeo. A partire dal primo minuto del '93 - era il grido d'allarme lanciato dai nostri imprenditori - tutti i partners della Cee si muoveranno con decisione alla conquista dei mercati più convenienti da valorizzare e da sfruttare. E' accaduto, poi, che quei partners hanno preferito la Spagna e la Grecia, e ora guardano con attenzione alle joint ventures con l'Est europeo: i muri crollati nel continente si sono alzati ai confini del Mezzogiorno. E' l'addio alla terra promessa?
E' l'addio alla terra promessa. Di fronte alle sfide del 1993, le regioni italiane si dilanieranno. Non è un caso che le leghe propongano la confederazione di tre Italie, del Nord, del Centro e del Sud: con poche deleghe (politica estera, difesa, neanche tanto pubblica istruzione, e poco altro) allo Stato centrale, e con la gestione finanziaria in mano a ciascuno dei tre tronconi di penisola. E' l'avvisaglia delle risse. Basti guardare un rapporto della Confindustria per rendersene conto. Da esso figura che l'Italia risulta agli ultimi posti nella dotazione di infrastrutture moderne - trasporti, comunicazioni, energia, istruzione - che sono il volano e il supporto dell'apparato produttivo. Le cose tendono a peggiorare, non solo nel deserto del Sud, ma anche nell'Italia che, rispetto al Sud, è privilegiata. Per fare un esempio, la dotazione di infrastrutture in Liguria è pari alla metà di quelle di Amburgo, e quella della Lombardia è pari al 40 per cento della regione di Parigi o di Amburgo. La sindrome dello Stato inerte colpisce tutti i settori produttivi. Le ferrovie trasportano solo il 10 per cento delle merci. I 136 porti italiani riescono a smaltire un volume di traffico non superiore a quello del solo porto di Rotterdam. Il servizio telefonico è da terzo mondo: su 100 tentativi di chiamata ne vanno a segno appena 53, mentre la sostituzione delle centrali elettromeccaniche è prevista per il 2000. Gli aeroporti sono intasati. Quello di Fiumicino, rattoppato di recente, continua a restare inadeguato. Malpensa e Linate saranno resi moderni - se si metteranno d'accordo i 29 enti dai quali più o meno dipendono - non prima del 1998. Dopo dieci anni di tira e molla l'ex centrale nucleare di Montalto di Castro, faraonico monumento delle nostre incapacità, sarà ultimata, forse entro il 1996: costerà 9.500 miliardi, e sarà trasformata in un ibrido impianto "policombustibile", mentre si riapre il discorso del nucleare "piccolo e sicuro".
Qual è il cancro che divora l'Italia, e la rende così diversa dal Paese intraprendente emerso da una guerra lacerante? Dov'è l'Italia che realizzò a tempi di primato una flotta aerea civile di prim'ordine, un'autostrada del Sole, i grattacieli di Milano? Non è un caso che nostri architetti come Renzo Piano e Gae Aulenti abbiano realizzato i loro progetti più impegnativi in Francia - col Beaubourg e col Museo d'Orsay -, in Giappone, negli Stati Uniti, persino in Spagna. E non è un caso che dalle nostre Università escano sempre meno laureati in Ingegneria, che dobbiamo reclutare dall'Est europeo o dal Maghreb, mentre si è inflazionato il numero dei medici, che poi non sappiamo come impiegare.
La giustificazione che altri Paesi registrino analoghi fenomeni non regge. Ovunque, nell'Europa che conta, si assiste alla realizzazione di eccezionali opere pubbliche, mentre da noi lo Stato non va oltre gli striminziti 26-27 mila miliardi annui. La Cee ha stanziato somme ingenti per finanziare un programma ferroviario ad alta velocità che collegherà le principali città europee, da Siviglia ad Amburgo. Sia pure a costi altissimi, si è traforata la Manica tra Francia ed Inghilterra. I danesi danno vita al Great Belt, sistema combinato di ponti e gallerie. Gli svedesi progettano la Scanlink per avvicinarsi di più all'Europa. Gli svizzeri pensano al traforo del Gottardo.
Solo l'Italia sta a guardare, con una torpida fannulloneria che non è nemmeno in grado - come se fosse estenuata dopo lo sforzo per condurre in porto i mondiali di calcio - di far funzionare l'esistente: ospedali, Usl, poste, ferrovie, fisco (metà del Pil sfugge all'imposizione fiscale: come in Uganda!). Si ravviva, questo nostro Paese, solo quando deve mandare in scena spettacoli indecorosi di scontri politici, cioè partitici e correntizi. Bisognerebbe far leggere i giornali europei e occidentali: quanta ironia su di noi!

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