§ Evoluzione e problemi economici della vitivinicoltura meridionale

Nelle vigne di Bacco




Giulio Antonio Malorgio



L'economia vitivinicola italiana si trova oggi a dover subire l'influenza di due fenomeni contrastanti, quali la tendenza alla contrazione del consumi, peraltro molto sensibile sul piano interno, e la tendenza all'ampliamento dei mercati esteri. L'aumento del reddito familiare e la conseguente evoluzione dei gusti del consumatori hanno contribuito poi a modificare la tradizionale immagine del prodotto.
Un tempo bevanda-alimento ad elevato apporto calorico, indispensabile nella dieta degli anni '50 e '60, il vino ha perso oggi questa funzione per assumere sempre più gli aspetti di una normale bevanda, dalle particolari caratteristiche organolettiche, da consumarsi in determinate occasioni. Pertanto, la domanda si è orientata ad un tipo di vino più leggero, frizzante, con adeguata veste commerciale, tanto da renderlo competitivo rispetto ad altri tipi di bevande. Poiché l'offerta continua ad essere prevalentemente ancorata al prodotto tradizionale, è logico che specialmente il consumatore giovane si allontani dal vino, riducendone i consumi. Si può osservare, infatti, che il consumo pro-capite di vino in Italia è passato da 110 litri/anno nel 1967 a 68,3 litri/anno nel 1986.
Nell'ultimo decennio, è innegabile il progressivo ampliamento dei mercati esteri nei quali alcuni vini hanno trovato ampio consenso. Si tratta però di vini ancora una volta diversi da quelli tradizionali. Il lambrusco, che ha avuto successo negli Stati Uniti, non assomiglia certo ad un barolo o ad un montepulciano, ed è stato ulteriormente adattato qualitativamente per avvicinarlo alle caratteristiche della bevanda che quel mercato preferisce.
Né si pensi ad ingenti esportazioni (solo il 5% viene attualmente esportato al di fuori della Cee), prive di problemi per il futuro: molti Paesi importatori si stanno attrezzando con propri vigneti e cercano perciò di ostacolare l'entrata del vino estero. Non va dimenticata, inoltre, la concorrenza di altri Paesi produttori, anch'essi con consumi interni in ribasso e surplus da collocare. Basta osservare l'andamento delle esportazioni negli ultimi anni. Dal 1979 al 1987, la quantità complessiva di vino esportato si è ridotta di circa il 40%, passando da 18,6 a 10,8 milioni di ettolitri, soprattutto a scapito del vini di minor pregio.
La viticoltura sta vivendo dunque un momento di crisi che non sembra passeggero. Quella meridionale, in particolare, producendo in prevalenza proprio quei vini che il mercato chiede sempre meno, non sembra proprio in buone condizioni. E' pertanto legittimo chiedersi qual è la struttura produttiva di questa viticoltura e quanto può aspettarsi dagli interventi sia di politica agraria comunitaria e nazionale, sia dal progresso tecnologico la cui applicazione nei processi produttivi è vista come un fenomeno inevitabile nel futuro.

La struttura produttiva
La vite costituisce la più importante coltura arborea del Meridione. Con una superficie di oltre 500 mila ettari, questa rappresenta oltre il 30% della superficie totale investita ad impianti arborei nel Sud. Inoltre, il 49% in coltura principale di tutta la superficie nazionale interessata alla vite è ubicata al Sud. Le regioni maggiormente interessate sono la Puglia e la Sicilia, dove è localizzato il 60% dei vigneti specializzati nel Meridione.
La viticoltura del Mezzogiorno, per le condizioni ambientali e la sovrabbondanza di manodopera, indusse (durante il periodo di riforma fondiaria) molti braccianti ad assumersi l'onere dell'impianto di vigneti anche in terre di scarsa fertilità, e raggiunse la sua massima espansione proprio nel dopoguerra. Con l'andar del tempo, la crisi di mercato dei vini, l'esodo rurale e il processo di meccanizzazione hanno indotto lentamente molte aziende a ridurre o abbandonare la coltivazione di vigneti marginali.
Dopo una leggera flessione verso la fine degli anni '60, la superficie a vite in coltura principale ha ripreso i livelli precedenti, raggiungendo circa i 600 ettari nel corso degli anni '70. Tale dinamica positiva del vigneto specializzato ha avuto origine da un processo di rinnovamento e di ridistribuzione territoriale delle strutture viticole e da una rinnovata fiducia nella viticoltura per l'entrata in vigore di regolamenti comunitari che garantivano la collocazione del prodotto pur in assenza di un'adeguata programmazione dell'intero comparto.
A partire dagli anni '80, tale tendenza ha subìto una leggera inversione. La gravità delle condizioni di mercato e l'orientamento di politica vitivinicola intrapreso dalla Comunità, caratterizzato dall'incentivo all'abbandono dell'attività e dal blocco di nuovi impianti, hanno determinato, seppure in misura modesta e con un certo ritardo, una diminuzione della superficie viticola del 10% nel periodo tra il 1981 e il 1987.
Riguardo alla struttura produttiva, se confrontiamo i dati degli ultimi due censimenti (1970-1982), possiamo individuare un leggero miglioramento della struttura viticola, dato dalla diminuzione del numero delle aziende viticole che, insieme all'espansione della superficie investita a vite, hanno determinato l'aumento della superficie media viticola aziendale (tab. 1). Aumento poco percepibile in realtà essendo l'investimento medio ancora sotto la soglia di 1 ettaro. Dal censimento del 1982 possiamo rilevare che il 62% delle aziende possedeva una superficie a vite inferiore a 1 ettaro e in alcune regioni (Molise, Campania, Basilicata e Calabria) tali condizioni risultavano ancora più accentuate. Un quinto circa delle aziende presentava una superficie vitata compresa tra 1 e 5 ettari, occupando una superficie che rappresentava circa il 46% della superficie viticola meridionale. Ampie dimensioni, al di sopra della media, si riscontravano in Puglia e in Sicilia (tab. 2).
Risalta da ciò il carattere principale che differenzia la viticoltura meridionale dal resto d'Italia: tantissime microaziende e micro-appezzamenti come nel resto d'Italia, ma anche appezzamenti di notevole estensione almeno per le dimensioni normali in Italia. Non è fortuito naturalmente che tale condizione si riscontri in Puglia e in Sicilia, massime produttrici dei vini da taglio, la cui produzione è giustificata da sempre solo in grandi aziende che possono realizzare in qualche misura l'economia di scala.
Un aspetto nella struttura viticola meridionale, in realtà in comune anche con la viticoltura del Nord, è la prevalenza di vecchi impianti. Sempre da censimento si può infatti rilevare che il 33% della superficie totale era costituita da impianti che superavano i venti anni di età. Tale percentuale denuncia la presenza di impianti realizzati con criteri di una viticoltura tradizionale, adeguata alle esigenze di mercato e alle tecniche produttive del passato, tipiche di una agricoltura prevalentemente ricca di lavoro e con un discreto orientamento verso l'auto-consumo. Ma dalla stessa fonte si intravvede una certa tendenza al rinnovamento degli impianti, specialmente in Abruzzo e in Sicilia, che rispettivamente registrano il 49% e il 51% di vigneti di età inferiore a dieci anni.
Nel Sud possiamo distinguere due viticolture. Una simile a quella del Nord, con produzioni di consumo, con la micro-struttura così tipica di quelle aziende familiari il cui ingente lavoro viene opportunamente impegnato e compensato dal vigneto da vino. L'altra, fatta di grandi appezzamenti, nelle aziende in economia, con produzioni di alta gradazione, ideali per rafforzare certi anonimi mosti del resto d'Europa.

Produzione complessiva di vino e produzione D.O.C.
La produzione di vino nella campagna '86-187 è risultata assai rilevante: circa 36 milioni di ettolitri, pari al 47,4% di quella italiana. Si tratta in buona parte di vini "complementari".
La domanda di tali vini da taglio, assai sostenuta, ha da sempre stimolato il viticoltore a produrre vini ricchi di alcool, di estratto e di colore, puntando su vitigni in prevalenza a uva rossa ed altamente produttivi, che però dal punto di vista organolettico possono dirsi neutri. Lo standard varietale è caratterizzato dalla netta predominanza di cultivar, frutto di una scelta a volte secolare dei viticoltori in funzione del loro adattamento all'ambiente ed ai risultati ottenuti dalla vinificazione. Tali varietà, come il Primitivo e il Negro amaro pugliesi, l'Agliatico irpino, la Malvasia calabra e campana, il Cataratto e il Nerelli siciliani, il Cannonau e il Nuragus sardi, ecc., danno origine ad un tipo di vino poco richiesto sul mercato. Con tali vitigni si è tentato di produrre vini da pasto e nobili, ma con scarso apprezzamento da parte del consumatore. Allo stato attuale, forse con l'ampliamento della base ampelografica, allevando insieme al vitigno complementare nuovi vitigni, in modo da poter ricavare vini più completi ed utilizzando uve non molto mature per accentuare acidità e bouquet è possibile, se si modernizzano anche gli impianti di vinificazione, ottenere del vini più consumabili.


Una conferma del mancato processo di qualificazione del vini è data dalla bassa percentuale dei vini D.O.C. del Sud rispetto al totale nazionale, solo l'11,8%, e dalla modesta importanza dei vini D.O.C. sulla quantità totale di vini prodotti nel Sud, circa il 2,7%, quando nel Centro-Nord tale percentuale supera il 18%.
Se si analizza l'andamento della produzione negli ultimi dieci anni, possiamo rilevare che la produzione complessiva di vino continua ad aumentare, nonostante il calo del consumi (tab. 3). Aumento (circa il 57%) di gran lunga superiore a quello registrato nella produzione di vini D.O.C., che si è attestato nel corso dei dieci anni intorno al 6%. Ciò sta ad indicare, da un lato, la mancanza di un'adatta e tempestiva programmazione relativa al comparto vitivinicolo meridionale affinché venga ristabilito un equilibrio tra domanda e offerta. Dall'altro, l'evidente ritardo nel migliorare qualitativamente il proprio prodotto attraverso interventi di riconversione e ristrutturazione tali da adeguare la produzione alle nuove esigenze di mercato. L'azione svolta in questi ultimi anni dalla Cee, mediante disposizioni riguardanti l'aiuto all'immagazzinaggio e la distillazione, ha avuto un ruolo determinante: dei 36 milioni di ettolitri prodotti, ben il 30% circa è destinato alla distillazione, garantendo ai produttori la collocazione del prodotto ad una accettabile remunerazione. E' comunque fortemente frustrante produrre per la distruzione e molti viticoltori vedono in questo un fortissimo segnale di allarme per il futuro.

Strutture di trasformazione
Da stime attendibili, la produzione meridionale di vino è destinata per il 50% al consumo diretto, il 20% all'esportazione ed il 30% alla distillazione. I mercati di maggiore assorbimento del prodotto meridionale sono la Francia, la Germania ed il Nord Italia. Dal punto di vista strutturale esiste uno stretto collegamento tra produzione viticola e trasformazione. Dell'uva vinificata in meridione, il 56,4% viene trasformato presso organismi associativi, il rimanente presso le aziende agricole produttrici e presso cantine di imprese industriali estranee al settore agricolo. Dal punto di vista strutturale, nonostante la considerevole quantità di uva prodotta e vinificata nel Meridione, circa il 47% del totale nazionale, il numero degli impianti di trasformazione risulta modesto, 1.480 unità, rappresentando circa il 12% del numero totale degli impianti presenti su tutto il territorio nazionale (tab. 4).
Notevole risulta la presenza degli impianti che svolgono attività di trasformazione in imprese industriali (circa il 53,3% sul totale meridionale), mentre il resto degli impianti è costituito da unità produttive che svolgono attività in forma associata e che rappresentano il 26,5% delle unità di trasformazione presenti nel Sud e da impianti che svolgono attività di trasformazione annessa all'azienda agricola, circa il 20%.
Dal punto di vista occupazionale, abbiamo che i centri di trasformazione annessi all'azienda perdono di importanza, occupando circa il 15,2% degli addetti totali impiegati nel settore vinicolo meridionale. Da ciò risulta che la dimensione media raggiunge i 4,6 addetti per unità di trasformazione. Le cantine sociali, invece, assumono maggiore importanza. Queste occupano circa il 39,2% degli addetti totali con dimensioni medie di 8,9 addetti per impianto. Le aziende di tipo industriale occupano il 45,6% degli addetti, con una dimensione media di 5,1 addetti per unità di trasformazione.


Particolare attenzione nell'ambito del settore di trasformazione va rivolta alla crescente importanza che hanno assunto le cantine sociali in questi ultimi anni (tab. 5). Il numero delle cantine organizzate in forma associata è passato da 248 nel 1970 a 441 nel 1987; la quantità di uva trasformata dalle stesse cantine, nello stesso periodo, è passata da 10 a 28 milioni di quintali, rappresentando rispettivamente il 22,3% sul totale di uva vinificata nel 1960 e il 56,4% nel 1987.
Il ruolo delle cantine, attribuito dalla letteratura, era quello di aggregare la produzione, fortemente frammentata e, attraverso l'accomunamento di capitali e quindi con l'ampliamento della scala produttiva, puntare sul miglioramento igienico-sanitario del prodotto e sull'abbassamento dei costi sfruttando le economie di scala. Tali funzioni, in parte adempiute, non hanno sempre portato all'acquisizione di un corrispondente potere contrattuale e ad un adeguamento alle mutevoli condizioni di mercato. Infatti si può rilevare che oltre l'87% della produzione da parte delle cooperative meridionali è costituito da vini comuni, mentre i vini D.O.C. rappresentano solo il 2,9% della produzione delle cantine sociali, circa il 62% del vini D.O.C. prodotti nel Sud (Tab. 6). Può interessare notare che delle otto regioni meridionali quelle con maggiore quantità di uva lavorata presso gli organismi associativi sono la Puglia, l'Abruzzo, la Sicilia e la Sardegna, mentre nelle altre regioni la loro presenza è poco rilevante.

Il ruolo della meccanizzazione nella viticoltura meridionale
Il ridimensionamento della coltivazione secondaria a vite e il parziale riammodernamento della coltura principale hanno avuto come protagonista il processo di meccanizzazione.

Tale processo, così come nel resto della penisola, ha trovato applicazione principalmente nelle lavorazioni del suolo, nei trattamenti antiparassitari, nei trasporti ed in altri lavori resi così meno impegnativi. Scarsa diffusione, invece, hanno avuto la meccanizzazione della raccolta e della potatura, operazioni di grande incidenza sull'impiego aziendale di manodopera. Riconosciuti gli effetti positivi della raccolta meccanica sulla produttività della manodopera impiegata e sulla riduzione del costi di produzione, la difficoltà di diffusione trova giustificazione nelle peculiari realtà strutturali ed organizzative delle aziende viticole meridionali. Le dimensioni molto limitate degli impianti, l'eterogeneità degli stessi e le non idonee forme di allevamento pongono del vincoli all'applicazione della raccolta meccanica. Vi è inoltre da sottolineare come tale innovazione, considerata fortemente risparmiatrice di lavoro, non è ancora molto sentita nelle zone meridionali.


Le aziende familiari, infatti, non hanno ancora reale necessità di risparmiare lavoro, non avendo in loco altre alternative di impiego più allettanti e remunerative ed essendo loro obiettivo la massimizzazione del reddito di lavoro. Perciò solo col tempo, nel progredire dello sviluppo economico generale - quando il nucleo familiare si restringerà e disporrà di minor lavoro - gli imprenditori potranno rivolgersi alla vendemmia meccanica, anche se ciò comporterà un adeguamento degli impianti.
Per le aziende in economia il problema è diverso. Quelle con appezzamenti modesti non sembrano sentire in modo particolare il disagio della raccolta. Le altre lo percepiscono spesso in forma acuta. Tuttavia, prima di ipotizzare una veloce diffusione delle macchine per la raccolta, occorre prestare attenzione al mercato del lavoro, cui queste aziende si rivolgono. Se infatti è vero che il processo di meccanizzazione è irreversibile, è altrettanto certo che esiste un'offerta di lavoro stagionale, non impegnativa, a prezzo ridotto e capace di risultare ancora preferibile alla vendemmia meccanica. Si ha l'impressione che finché questa non avrà produttività, elasticità di adattamento e affidabilità (riducendo le perdite) tali da portare ad un costo unitario molto più contenuto rispetto a quello manuale, gli agricoltori preferiranno non azzardare i rilevanti investimenti che le macchine per la raccolta comportano. Soprattutto in un momento di crisi per il settore. Dunque, se può esistere uno stimolo all'introduzione della vendemmia meccanica, nell'immediato futuro ciò sembra riservato solo ad alcune aziende in economia, sempre che il mercato del lavoro non offra più le attuali possibilità. Per le altre aziende, l'epoca della meccanizzazione sembra più lontana.
Queste considerazioni naturalmente valgono se si protrae l'attuale congiuntura, tutto sommato "non negativa". Infatti, anche se il settore è in crisi, l'intervento pesante e sistematico della Cee esorcizza la crisi violenta e distruttrice. Quando la Comunità non riuscirà più a giustificare una simile sistematica distruzione di ricchezza e sarà costretta ad abbassare i prezzi pagati per il vino avviato alla distillazione, allora inizierà la vera crisi evolutiva anche per le aziende meridionali. Queste inevitabilmente saranno costrette a produrre vini leggeri per il consumo, perché le tendenze del consumo ormai lo impongono, costringendo i produttori di vino italiani e francesi a modificare le loro antiche abitudini di servirsi del vino meridionale per rafforzare e moltiplicare una produzione assai incerta. Le esportazioni verso il Nord rallenteranno e tutta la viticoltura che su quelle vive dovrà adattarsi. L'espianto e la riconversione saranno il destino della maggior parte dei vigneti. Le nuove forme di allevamento terranno conto di tutte le possibilità offerte dal processo tecnologico. E allora non solo la vendemmia sarà totalmente meccanizzata, ma anche la potatura, sia verde che secca, verrà automatizzata, perché sarà l'unico modo per aumentare la produttività del lavoro e per garantire la convenienza delle produzioni e la sopravvivenza del vigneto.


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