L'economia
vitivinicola italiana si trova oggi a dover subire l'influenza di due
fenomeni contrastanti, quali la tendenza alla contrazione del consumi,
peraltro molto sensibile sul piano interno, e la tendenza all'ampliamento
dei mercati esteri. L'aumento del reddito familiare e la conseguente
evoluzione dei gusti del consumatori hanno contribuito poi a modificare
la tradizionale immagine del prodotto.
Un tempo bevanda-alimento ad elevato apporto calorico, indispensabile
nella dieta degli anni '50 e '60, il vino ha perso oggi questa funzione
per assumere sempre più gli aspetti di una normale bevanda, dalle
particolari caratteristiche organolettiche, da consumarsi in determinate
occasioni. Pertanto, la domanda si è orientata ad un tipo di
vino più leggero, frizzante, con adeguata veste commerciale,
tanto da renderlo competitivo rispetto ad altri tipi di bevande. Poiché
l'offerta continua ad essere prevalentemente ancorata al prodotto tradizionale,
è logico che specialmente il consumatore giovane si allontani
dal vino, riducendone i consumi. Si può osservare, infatti, che
il consumo pro-capite di vino in Italia è passato da 110 litri/anno
nel 1967 a 68,3 litri/anno nel 1986.
Nell'ultimo decennio, è innegabile il progressivo ampliamento
dei mercati esteri nei quali alcuni vini hanno trovato ampio consenso.
Si tratta però di vini ancora una volta diversi da quelli tradizionali.
Il lambrusco, che ha avuto successo negli Stati Uniti, non assomiglia
certo ad un barolo o ad un montepulciano, ed è stato ulteriormente
adattato qualitativamente per avvicinarlo alle caratteristiche della
bevanda che quel mercato preferisce.
Né si pensi ad ingenti esportazioni (solo il 5% viene attualmente
esportato al di fuori della Cee), prive di problemi per il futuro: molti
Paesi importatori si stanno attrezzando con propri vigneti e cercano
perciò di ostacolare l'entrata del vino estero. Non va dimenticata,
inoltre, la concorrenza di altri Paesi produttori, anch'essi con consumi
interni in ribasso e surplus da collocare. Basta osservare l'andamento
delle esportazioni negli ultimi anni. Dal 1979 al 1987, la quantità
complessiva di vino esportato si è ridotta di circa il 40%, passando
da 18,6 a 10,8 milioni di ettolitri, soprattutto a scapito del vini
di minor pregio.
La viticoltura sta vivendo dunque un momento di crisi che non sembra
passeggero. Quella meridionale, in particolare, producendo in prevalenza
proprio quei vini che il mercato chiede sempre meno, non sembra proprio
in buone condizioni. E' pertanto legittimo chiedersi qual è la
struttura produttiva di questa viticoltura e quanto può aspettarsi
dagli interventi sia di politica agraria comunitaria e nazionale, sia
dal progresso tecnologico la cui applicazione nei processi produttivi
è vista come un fenomeno inevitabile nel futuro.
La struttura
produttiva
La vite costituisce la più importante coltura arborea del Meridione.
Con una superficie di oltre 500 mila ettari, questa rappresenta oltre
il 30% della superficie totale investita ad impianti arborei nel Sud.
Inoltre, il 49% in coltura principale di tutta la superficie nazionale
interessata alla vite è ubicata al Sud. Le regioni maggiormente
interessate sono la Puglia e la Sicilia, dove è localizzato
il 60% dei vigneti specializzati nel Meridione.
La viticoltura del Mezzogiorno, per le condizioni ambientali e la
sovrabbondanza di manodopera, indusse (durante il periodo di riforma
fondiaria) molti braccianti ad assumersi l'onere dell'impianto di
vigneti anche in terre di scarsa fertilità, e raggiunse la
sua massima espansione proprio nel dopoguerra. Con l'andar del tempo,
la crisi di mercato dei vini, l'esodo rurale e il processo di meccanizzazione
hanno indotto lentamente molte aziende a ridurre o abbandonare la
coltivazione di vigneti marginali.
Dopo una leggera flessione verso la fine degli anni '60, la superficie
a vite in coltura principale ha ripreso i livelli precedenti, raggiungendo
circa i 600 ettari nel corso degli anni '70. Tale dinamica positiva
del vigneto specializzato ha avuto origine da un processo di rinnovamento
e di ridistribuzione territoriale delle strutture viticole e da una
rinnovata fiducia nella viticoltura per l'entrata in vigore di regolamenti
comunitari che garantivano la collocazione del prodotto pur in assenza
di un'adeguata programmazione dell'intero comparto.
A partire dagli anni '80, tale tendenza ha subìto una leggera
inversione. La gravità delle condizioni di mercato e l'orientamento
di politica vitivinicola intrapreso dalla Comunità, caratterizzato
dall'incentivo all'abbandono dell'attività e dal blocco di
nuovi impianti, hanno determinato, seppure in misura modesta e con
un certo ritardo, una diminuzione della superficie viticola del 10%
nel periodo tra il 1981 e il 1987.
Riguardo alla struttura produttiva, se confrontiamo i dati degli ultimi
due censimenti (1970-1982), possiamo individuare un leggero miglioramento
della struttura viticola, dato dalla diminuzione del numero delle
aziende viticole che, insieme all'espansione della superficie investita
a vite, hanno determinato l'aumento della superficie media viticola
aziendale (tab. 1). Aumento poco percepibile in realtà essendo
l'investimento medio ancora sotto la soglia di 1 ettaro. Dal censimento
del 1982 possiamo rilevare che il 62% delle aziende possedeva una
superficie a vite inferiore a 1 ettaro e in alcune regioni (Molise,
Campania, Basilicata e Calabria) tali condizioni risultavano ancora
più accentuate. Un quinto circa delle aziende presentava una
superficie vitata compresa tra 1 e 5 ettari, occupando una superficie
che rappresentava circa il 46% della superficie viticola meridionale.
Ampie dimensioni, al di sopra della media, si riscontravano in Puglia
e in Sicilia (tab. 2).
Risalta da ciò il carattere principale che differenzia la viticoltura
meridionale dal resto d'Italia: tantissime microaziende e micro-appezzamenti
come nel resto d'Italia, ma anche appezzamenti di notevole estensione
almeno per le dimensioni normali in Italia. Non è fortuito
naturalmente che tale condizione si riscontri in Puglia e in Sicilia,
massime produttrici dei vini da taglio, la cui produzione è
giustificata da sempre solo in grandi aziende che possono realizzare
in qualche misura l'economia di scala.
Un aspetto nella struttura viticola meridionale, in realtà
in comune anche con la viticoltura del Nord, è la prevalenza
di vecchi impianti. Sempre da censimento si può infatti rilevare
che il 33% della superficie totale era costituita da impianti che
superavano i venti anni di età. Tale percentuale denuncia la
presenza di impianti realizzati con criteri di una viticoltura tradizionale,
adeguata alle esigenze di mercato e alle tecniche produttive del passato,
tipiche di una agricoltura prevalentemente ricca di lavoro e con un
discreto orientamento verso l'auto-consumo. Ma dalla stessa fonte
si intravvede una certa tendenza al rinnovamento degli impianti, specialmente
in Abruzzo e in Sicilia, che rispettivamente registrano il 49% e il
51% di vigneti di età inferiore a dieci anni.
Nel Sud possiamo distinguere due viticolture. Una simile a quella
del Nord, con produzioni di consumo, con la micro-struttura così
tipica di quelle aziende familiari il cui ingente lavoro viene opportunamente
impegnato e compensato dal vigneto da vino. L'altra, fatta di grandi
appezzamenti, nelle aziende in economia, con produzioni di alta gradazione,
ideali per rafforzare certi anonimi mosti del resto d'Europa.
Produzione
complessiva di vino e produzione D.O.C.
La produzione di vino nella campagna '86-187 è risultata assai
rilevante: circa 36 milioni di ettolitri, pari al 47,4% di quella
italiana. Si tratta in buona parte di vini "complementari".
La domanda di tali vini da taglio, assai sostenuta, ha da sempre stimolato
il viticoltore a produrre vini ricchi di alcool, di estratto e di
colore, puntando su vitigni in prevalenza a uva rossa ed altamente
produttivi, che però dal punto di vista organolettico possono
dirsi neutri. Lo standard varietale è caratterizzato dalla
netta predominanza di cultivar, frutto di una scelta a volte secolare
dei viticoltori in funzione del loro adattamento all'ambiente ed ai
risultati ottenuti dalla vinificazione. Tali varietà, come
il Primitivo e il Negro amaro pugliesi, l'Agliatico irpino, la Malvasia
calabra e campana, il Cataratto e il Nerelli siciliani, il Cannonau
e il Nuragus sardi, ecc., danno origine ad un tipo di vino poco richiesto
sul mercato. Con tali vitigni si è tentato di produrre vini
da pasto e nobili, ma con scarso apprezzamento da parte del consumatore.
Allo stato attuale, forse con l'ampliamento della base ampelografica,
allevando insieme al vitigno complementare nuovi vitigni, in modo
da poter ricavare vini più completi ed utilizzando uve non
molto mature per accentuare acidità e bouquet è possibile,
se si modernizzano anche gli impianti di vinificazione, ottenere del
vini più consumabili.
Una conferma del mancato processo di qualificazione del vini è
data dalla bassa percentuale dei vini D.O.C. del Sud rispetto al totale
nazionale, solo l'11,8%, e dalla modesta importanza dei vini D.O.C.
sulla quantità totale di vini prodotti nel Sud, circa il 2,7%,
quando nel Centro-Nord tale percentuale supera il 18%.
Se si analizza l'andamento della produzione negli ultimi dieci anni,
possiamo rilevare che la produzione complessiva di vino continua ad
aumentare, nonostante il calo del consumi (tab. 3). Aumento (circa
il 57%) di gran lunga superiore a quello registrato nella produzione
di vini D.O.C., che si è attestato nel corso dei dieci anni
intorno al 6%. Ciò sta ad indicare, da un lato, la mancanza
di un'adatta e tempestiva programmazione relativa al comparto vitivinicolo
meridionale affinché venga ristabilito un equilibrio tra domanda
e offerta. Dall'altro, l'evidente ritardo nel migliorare qualitativamente
il proprio prodotto attraverso interventi di riconversione e ristrutturazione
tali da adeguare la produzione alle nuove esigenze di mercato. L'azione
svolta in questi ultimi anni dalla Cee, mediante disposizioni riguardanti
l'aiuto all'immagazzinaggio e la distillazione, ha avuto un ruolo
determinante: dei 36 milioni di ettolitri prodotti, ben il 30% circa
è destinato alla distillazione, garantendo ai produttori la
collocazione del prodotto ad una accettabile remunerazione. E' comunque
fortemente frustrante produrre per la distruzione e molti viticoltori
vedono in questo un fortissimo segnale di allarme per il futuro.
Strutture di
trasformazione
Da stime attendibili, la produzione meridionale di vino è destinata
per il 50% al consumo diretto, il 20% all'esportazione ed il 30% alla
distillazione. I mercati di maggiore assorbimento del prodotto meridionale
sono la Francia, la Germania ed il Nord Italia. Dal punto di vista
strutturale esiste uno stretto collegamento tra produzione viticola
e trasformazione. Dell'uva vinificata in meridione, il 56,4% viene
trasformato presso organismi associativi, il rimanente presso le aziende
agricole produttrici e presso cantine di imprese industriali estranee
al settore agricolo. Dal punto di vista strutturale, nonostante la
considerevole quantità di uva prodotta e vinificata nel Meridione,
circa il 47% del totale nazionale, il numero degli impianti di trasformazione
risulta modesto, 1.480 unità, rappresentando circa il 12% del
numero totale degli impianti presenti su tutto il territorio nazionale
(tab. 4).
Notevole risulta la presenza degli impianti che svolgono attività
di trasformazione in imprese industriali (circa il 53,3% sul totale
meridionale), mentre il resto degli impianti è costituito da
unità produttive che svolgono attività in forma associata
e che rappresentano il 26,5% delle unità di trasformazione
presenti nel Sud e da impianti che svolgono attività di trasformazione
annessa all'azienda agricola, circa il 20%.
Dal punto di vista occupazionale, abbiamo che i centri di trasformazione
annessi all'azienda perdono di importanza, occupando circa il 15,2%
degli addetti totali impiegati nel settore vinicolo meridionale. Da
ciò risulta che la dimensione media raggiunge i 4,6 addetti
per unità di trasformazione. Le cantine sociali, invece, assumono
maggiore importanza. Queste occupano circa il 39,2% degli addetti
totali con dimensioni medie di 8,9 addetti per impianto. Le aziende
di tipo industriale occupano il 45,6% degli addetti, con una dimensione
media di 5,1 addetti per unità di trasformazione.
Particolare attenzione nell'ambito del settore di trasformazione va
rivolta alla crescente importanza che hanno assunto le cantine sociali
in questi ultimi anni (tab. 5). Il numero delle cantine organizzate
in forma associata è passato da 248 nel 1970 a 441 nel 1987;
la quantità di uva trasformata dalle stesse cantine, nello
stesso periodo, è passata da 10 a 28 milioni di quintali, rappresentando
rispettivamente il 22,3% sul totale di uva vinificata nel 1960 e il
56,4% nel 1987.
Il ruolo delle cantine, attribuito dalla letteratura, era quello di
aggregare la produzione, fortemente frammentata e, attraverso l'accomunamento
di capitali e quindi con l'ampliamento della scala produttiva, puntare
sul miglioramento igienico-sanitario del prodotto e sull'abbassamento
dei costi sfruttando le economie di scala. Tali funzioni, in parte
adempiute, non hanno sempre portato all'acquisizione di un corrispondente
potere contrattuale e ad un adeguamento alle mutevoli condizioni di
mercato. Infatti si può rilevare che oltre l'87% della produzione
da parte delle cooperative meridionali è costituito da vini
comuni, mentre i vini D.O.C. rappresentano solo il 2,9% della produzione
delle cantine sociali, circa il 62% del vini D.O.C. prodotti nel Sud
(Tab. 6). Può interessare notare che delle otto regioni meridionali
quelle con maggiore quantità di uva lavorata presso gli organismi
associativi sono la Puglia, l'Abruzzo, la Sicilia e la Sardegna, mentre
nelle altre regioni la loro presenza è poco rilevante.
Il ruolo della
meccanizzazione nella viticoltura meridionale
Il ridimensionamento della coltivazione secondaria a vite e il parziale
riammodernamento della coltura principale hanno avuto come protagonista
il processo di meccanizzazione.
Tale processo,
così come nel resto della penisola, ha trovato applicazione
principalmente nelle lavorazioni del suolo, nei trattamenti antiparassitari,
nei trasporti ed in altri lavori resi così meno impegnativi.
Scarsa diffusione, invece, hanno avuto la meccanizzazione della raccolta
e della potatura, operazioni di grande incidenza sull'impiego aziendale
di manodopera. Riconosciuti gli effetti positivi della raccolta meccanica
sulla produttività della manodopera impiegata e sulla riduzione
del costi di produzione, la difficoltà di diffusione trova
giustificazione nelle peculiari realtà strutturali ed organizzative
delle aziende viticole meridionali. Le dimensioni molto limitate degli
impianti, l'eterogeneità degli stessi e le non idonee forme
di allevamento pongono del vincoli all'applicazione della raccolta
meccanica. Vi è inoltre da sottolineare come tale innovazione,
considerata fortemente risparmiatrice di lavoro, non è ancora
molto sentita nelle zone meridionali.
Le aziende familiari, infatti, non hanno ancora reale necessità
di risparmiare lavoro, non avendo in loco altre alternative di impiego
più allettanti e remunerative ed essendo loro obiettivo la
massimizzazione del reddito di lavoro. Perciò solo col tempo,
nel progredire dello sviluppo economico generale - quando il nucleo
familiare si restringerà e disporrà di minor lavoro
- gli imprenditori potranno rivolgersi alla vendemmia meccanica, anche
se ciò comporterà un adeguamento degli impianti.
Per le aziende in economia il problema è diverso. Quelle con
appezzamenti modesti non sembrano sentire in modo particolare il disagio
della raccolta. Le altre lo percepiscono spesso in forma acuta. Tuttavia,
prima di ipotizzare una veloce diffusione delle macchine per la raccolta,
occorre prestare attenzione al mercato del lavoro, cui queste aziende
si rivolgono. Se infatti è vero che il processo di meccanizzazione
è irreversibile, è altrettanto certo che esiste un'offerta
di lavoro stagionale, non impegnativa, a prezzo ridotto e capace di
risultare ancora preferibile alla vendemmia meccanica. Si ha l'impressione
che finché questa non avrà produttività, elasticità
di adattamento e affidabilità (riducendo le perdite) tali da
portare ad un costo unitario molto più contenuto rispetto a
quello manuale, gli agricoltori preferiranno non azzardare i rilevanti
investimenti che le macchine per la raccolta comportano. Soprattutto
in un momento di crisi per il settore. Dunque, se può esistere
uno stimolo all'introduzione della vendemmia meccanica, nell'immediato
futuro ciò sembra riservato solo ad alcune aziende in economia,
sempre che il mercato del lavoro non offra più le attuali possibilità.
Per le altre aziende, l'epoca della meccanizzazione sembra più
lontana.
Queste considerazioni naturalmente valgono se si protrae l'attuale
congiuntura, tutto sommato "non negativa". Infatti, anche
se il settore è in crisi, l'intervento pesante e sistematico
della Cee esorcizza la crisi violenta e distruttrice. Quando la Comunità
non riuscirà più a giustificare una simile sistematica
distruzione di ricchezza e sarà costretta ad abbassare i prezzi
pagati per il vino avviato alla distillazione, allora inizierà
la vera crisi evolutiva anche per le aziende meridionali. Queste inevitabilmente
saranno costrette a produrre vini leggeri per il consumo, perché
le tendenze del consumo ormai lo impongono, costringendo i produttori
di vino italiani e francesi a modificare le loro antiche abitudini
di servirsi del vino meridionale per rafforzare e moltiplicare una
produzione assai incerta. Le esportazioni verso il Nord rallenteranno
e tutta la viticoltura che su quelle vive dovrà adattarsi.
L'espianto e la riconversione saranno il destino della maggior parte
dei vigneti. Le nuove forme di allevamento terranno conto di tutte
le possibilità offerte dal processo tecnologico. E allora non
solo la vendemmia sarà totalmente meccanizzata, ma anche la
potatura, sia verde che secca, verrà automatizzata, perché
sarà l'unico modo per aumentare la produttività del
lavoro e per garantire la convenienza delle produzioni e la sopravvivenza
del vigneto.