§ Il corsivo

Storia senza finale di S.




Milla Pastorino



Una busta molto grande, molto pesante. Piena di fogli scritti a mano, di ritagli di giornale, di fotocopie. Lettere di avvocati, atti di tribunale, qualche sbiadita fotografia mal riprodotta delle cronache del quotidiani. C'è, dentro la busta, la storia di un ragazzo che ha cominciato a bucarsi a quindici anni. Adesso ne ha trenta, e la madre mi ha spedito la grande busta con una domanda: "la nuova legge servirà ad eliminare tutto questo?".
Vorrei risponderle che sì, certo, forse non subito, ma non ne sono capace. Non ne sarei stata capace prima, anche meno lo sono dopo aver letto i fogli che mi ha mandato.
Meno capace di risponderle, ma tanto più carica di rabbia e di speranza. Perché ci deve essere una speranza per questa disperazione che ho sentito quasi fisicamente uscire dalla grande busta pesante. La cosa più importante che la busta contiene è un quaderno: fitto di una scrittura elegante ma spesso strascicata come per un colpo di sonno, spesso in pagine dilavate come da lacrime. La madre che mi ha mandato questo quaderno ha qualche volta annotato suoi pensieri, sue reazioni. Non tanto riferite al figlio quanto agli ambienti attraverso i quali è passata nel tentativo di aiutarlo. Ai medici, anche illustri, che le hanno detto "faccia conto che abbia il cancro e si rassegni". A quelli che, in un inizio di luglio, con quel figlio in crisi di astinenza la mandarono via, dicendole di tornare a settembre, quando il centro avrebbe riaperto. Alle cliniche, anche di lusso, che le restituivano un figlio sempre più disorientato. Alla rianimazione del pronto soccorso, dove corre a vedere suo figlio in coma, e l'indomani deve riportarselo a casa come un pneumatico rattoppato. Alle panche del carcere, in attesa del colloquio settimanale, dove altre donne come lei raccontavano disperate storie di disperate vite. Agli amici del figlio, che aveva conosciuto e poi ritrovato in foto di cronaca vera: rapinatori o cadaveri.
Non racconta nulla di sé, come se la sua vita si fosse fermata al primo maledetto giorno in cui seppe che suo figlio si drogava e si domandò prima "perchè?" e subito dopo "che faccio?".
E allora bisogna aprire il quaderno, il diario del figlio. Che comincia con una data: 9 ottobre 1979 e con un titolo: "Storia di un anno maledetto (o di una vita?)".
Leggiamo insieme alcune pagine di questo diario, con tutta l'attenzione e il rispetto che merita, non dimenticando che, da quegli anni, abbiamo in più soltanto una legge, ancora tutta da verificare nella realtà.
"Sono le solite immagini e sensazioni di sempre. Una piazza, una fontana, tanti di sperati come me che devono mettersi in faccia al sole e guardare la propria ombra per convincersi di essere ancora vivi.
Una mattina come tante altre. La piazza è luminosa, limpida nel suo oscuro ritrovo di tossicomani, ladri, spacciatori. Il solito pensiero che ormai da anni ha preso il sopravvento su tutta la mia mente, su tutto il mio corpo, in tutto il mio sangue. La ricerca disperata di soldi per acquistare l'ero, quella maledetta polvere bianca che ti copre come un sudario, che ha sostituito la famiglia, l'amore per me e per gli altri.
Due amici, povere vittime del gioco, che è più grosso, più potente delle nostre ormai deboli forze.
Una coppia di turisti si siede a godere il caldo sole romano, vicino a noi, che il sole non lo sentiamo sulla pelle, ma avvertiamo solo brividi di gelo, il nostro sangue che urla, vuole ciò a cui l'abbiamo abituato: l'eroina.
I turisti sono divertiti, ridono, scherzano, non si accorgono che saranno di lì a poco vittime di un episodio come tanti: uno scippo. Sono pieni di catene, orologi e monili d'oro. All'inizio nella nostra mente minata dalla droga si decide di minacciarli, per consegnarci le loro borse e tutto ciò che hanno addosso di valore. Sì, lì, proprio nel mezzo di una delle piazze più affollate di Roma.
Pare tutto tranquillo, si decide di fare il colpo. Una piccola discussione per chi dovrà guidare la macchina. Lo farà Pino, mentre l'altra persona verrà con me a derubare le povere vittime, che ostentano davanti a noi la loro voglia di vivere, il loro benessere, il loro oro!
La signora più anziana giocherella con una massiccia collana d'oro. La decisione è subito presa: quei 40 grammi d'oro, così la stimiamo, risolvono il nostro problema immediato. Ci possiamo ricavare al mercato nero sulle trecentomila lire.
Quasi due grammi di eroina. L'appuntamento col pusher è per le 14. Sono le 13,30. Con risoluta disperazione, in quei momenti in cui tutto sembra diventare irreale, le immagini si confondono, sudore freddo sul viso, mi avvio verso l'anziana tedesca. Mi viene nausea, sto per vomitare, mi fermo, la "rota" è ormai al suo culmine. Se non fosse per la mia espressione di sconvolto dolore, nulla tradirebbe la mia immagine di bravo ragazzo.
Pino vede che sto male, ma è sicuro che ce la farò. Con le ultime forze mi avvicino alla signora e con una violenta botta le strappo la pesante catena dal collo (potrebbe essere mia madre, ho pensato). Panico, gente che urla, tavoli rovesciati nella mia fuga verso la macchina che ha il motore imballato e pronta a partire a scatto. Ci dirigiamo a tutta velocità per il vicolo, abbiamo una buona conoscenza del posto e sappiamo districarci nel labirinto dei vicoli che circonda la piazza. La portiera della mia parte, accanto al posto di guida, è ancora aperta, la collana è nelle mie mani. Penso: per stamattina abbiamo finito di soffrire. Ci aspettano tre siringhe, un cucchiaio e almeno due grammi di roba neanche molto tagliata.
Non faccio a tempo a finire il pensiero che scoppia l'inferno. Il ragazzo disperato che "deve mettersi con la faccia al sole per convincersi di essere ancora vivo" viene arrestato. Siamo a Roma: quindi Regina Coeli, poi Rebibbia. Nel suo diario scrive: -Stavo male. Non c'erano medici specializzati, solo un internista e un neurologo che avevo conosciuto durante un ricovero in uno di quei manicomi privati chiamati "case di cura". Lui era il primario, e per disintossicarmi mi fece fare le cure che si fanno ai matti. A quell'epoca avevo 17 anni e mi bucavo da almeno due anni. La cura non servì a nulla: dopo 46 giorni di quel trattamento non riconoscevo più i miei parenti, ma ricordavo benissimo l'indirizzo di Bruno, dove andavo a comprare l'eroina. Bruno finì di soffrire nell'estate del 179 per overdose di eroina. La sera prima avevamo cenato insieme, e lui era convinto di essersene tirato fuori. Si bucò seduto su un muretto, nel nostro vecchio quartiere. Gli venne un collasso, cadde di sotto. Lo trovarono con la testa rotta e vicino le solite cose: una siringa, un cucchiaio, una cintura ancora legata al braccio E la madre, intanto, continua a interrogarsi, a sentire sempre più pesante quella imprecisata e imprecisabile "colpa" che le pare tutti vogliano addossarle.
"Quanta gente ho ascoltato, a quanti ho domandato. - annota - Quanti libri ho letto, cercando di capire. Uno scrittore, che da tanti anni si occupa di droga, mi ha detto: "Moltiplica per il numero del drogati i milioni che ognuno di loro rende in un giorno e poi domandati se questo affare di miliardi può essere fermato solo dalle belle parole e dalle buone intenzioni. E' una questione di volontà politica, di grossa volontà politica"". Ma come ha cominciato, il ragazzo, il suo rapporto con la droga? Scrive nel diario: "Pensavo ai tempi in cui ero solo una persona, un giovane normale come tanti. Aspettare per ore la ragazza di cui ero cotto davanti ad una scuola. Le prime ubriacate di birra, nei locali del centro di Roma, sempre in gruppo con scintillanti e rumorosissimi motorini. La passione per il motocross, le prime fumate in gruppo, le risate, l'euforia che ci dava quella nuova esperienza. La prima volta che andai a fare l'amore con una ragazza. Poi tutto si cancellò, senza che neanche me ne rendessi conto, iniziai a approfondire l'esperienza delle droghe; con gli allucinogeni. La prima volta che presi l'acido ero in una casa in montagna, coperta di neve. Il sole che vi scintillava sopra rendeva tutto così irreale, così magico:. quella neve che scintillava come una enorme lastra di vetro non l'ho più scordata".
Poi l'eroina. Sempre più spesso, in dosi sempre maggiori. Gli scippi, le rapine. La morte vista da vicino, in lunghe ore di coma.
(A quell'epoca il flash della coca ci sembrava una cosa splendida, ogni tanto aggiungevamo nel cucchiaio un po' d'ero di cui eravamo sempre ben forniti. Durò così tutta la notte e la mattinata. Ci sembrava tutto facile, avevamo la lucidità dell'incoscienza che ci dava un senso di euforia unico, che provai solo la prima volta che mi feci un buco di morfina (con quella iniziai). Nel primo pomeriggio ci dividemmo, i miei amici tornarono a casa e io rimasi a piazza del Pantheon. Stetti lì a osservare la gente, divertito da come si affannavano i turisti per scoprire i segreti nascosti di Roma, oppure come cercavano di farsi capire dal cameriere per avere un gelato.
Dopo un po' però l'effetto della lunga nottata a base di coca si fece sentire nel suo rovescio della medaglia, perché in tutto c'è un rovescio della medaglia, specialmente nelle droghe, per quanto stupende sembrino all'inizio. Ero entrato in quello che in gergo si chiama "down", ovvero la caduta dell'effetto delle anfetamine.
Presi una boccetta che tenevo con me e buttai giù tre o quattro compresse, ma non mi bastò, mi prese una forte depressione e stavo sempre più male. Due agenti della stradale mi fissavano, mi sembrò addirittura che uno prendesse la pistola e con tutte e due le mani mi mirasse. Non ce la facevo più, e l'unico rimedio che conoscevo per riacquistare la lucidità era quello di farmi un buco di eroina di cui ero ancora fornito. Entrai in un bar sulla piazza e chiesi con aria che a me sembrò allucinata dov'era la toilette. La cassiera me la indicò gentilmente. Feci scorrere l'acqua e sciacquai la siringa. Febbrilmente presi dalla tasca un piccolo cucchiaio d'argento e iniziai a squagliare l'ero, non mi resi conto che la dose era molto superiore a quella abituale. Faticai a trovare la vena, tremavo, ma non era una crisi di astinenza. Velocemente mi iniettai il liquido che il mio cervello, il mio fisico esigeva. Un lampo, poi il buio. Mi risvegliai dopo diverse ore nella camera di rianimazione dell'Ospedale S. Giacomo, ero pieno di tubi. La cosa non mi stupì per niente, ma non ricordavo come e perché ero arrivato lì. Trovai mia madre ai piedi del letto che sorrideva, ma con gli occhi ancora pieni di lacrime. Ero stato in coma per più di cinque ore. Quando lessi il giornale vidi la mia foto accanto a quella di uno spacciatore arrestato e di un altro ragazzo morto due giorni prima per overdose. Naturalmente erano fatti distinti, ma una cosa li accomunava: la droga. Lessi l'articolo che mi riguardava, su due intere colonne (a quell'epoca morire per strada o su una panchina o in un cesso per droga era un fatto che faceva molto scalpore, ora invece molte volte mettono il nome della nuova vittima, il suo numero di "serie", la zona dove lo hanno trovato e stop). Pare che due turiste, poco dopo che io mi ero avviato al bagno, chiesero della toilette. La cassiera si ricordò allora che ero entrato io. Bussarono alla porla, io non potevo rispondere, ero già in coma. Riuscirono ad aprire la porta dall'esterno, e la scena che gli si presentò era quella di un ragazzo di 17 anni riverso sul lavabo, con un braccio penzolante, con chiare tracce di sangue coagulato. Per terra due siringhe, una busta di carta stagnola vuota e un piccolo cucchiaio d'argento. Chiamarono subito un'ambulanza. Praticamente, se non fosse stato per due straniere che volevano lavarsi le mani io sarei morto, e avrebbero scoperto il mio cadavere chissà, forse all'ora di chiusura del bar. Insomma, quella volta la fortuna non mi ha voltato le spalle!".
Ancora ricordi, ancora riflessioni, spesso ingenue, non sorrette da mediazioni culturali, da un reale approfondimento. L'eroina non lascia molta libertà al pensiero.
"Una volta c'era una chiesa, credo ci sia ancora, dove andavo spesso a bucarmi, proprio davanti al suo enorme portone. Qualche volta usciva un prete, e mi trovava lì, con la siringa nel braccio, o intento a preparare il buco. Le prime volte non mi diceva nulla. Si fermava a guardarmi senza pronunciare una sillaba. La terza o quarta volta che ci incontrammo lì, sugli scalini della chiesa, mi ero appena bucato e schizzavo via dalla siringa le tracce di sangue, solo allora aprì bocca. Mi disse semplicemente che avrebbe pregato per me. Cercai di spiegargli che per me, e per centinaia come me, non basta pregare, si deve agire concretamente. Ma lui aveva più fiducia nel Signore che nelle istituzioni, e non aveva torto".
Il diario finisce con il ricordo di un disco ascoltato in carcere. "Mi porta molti ricordi, troppi o troppo lontani per poterli scrivere. Ascoltando, riaffiorano solo quelli positivi. Come se la mia coscienza volesse cancellare gli altri".
In una breve nota, la madre scrive che il figlio ha fatto lunghe e brevi esperienze di comunità, che non esistevano quando aveva cominciato con la droga, e che avevano dato qualche risultato, ma non un risultato definitivo. Che il figlio non è forse più un drogato, ma che certo non è definitivamente al sicuro. E poi quella domanda: "la nuova legge potrà eliminare tutto questo?".
C'è qualcuno che sappia o che possa, in coscienza, rispondere?

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