§ Processi al Risorgimento

Oggi lo boccerei




A. Galante Garrone



Vittorio Messori ha voluto addurre a propria difesa, in un articolo, il fatto di aver studiato, sotto la mia - paterna e insieme severa - guida, uomini e cose del Risorgimento, e di essersi laureato, sempre con me, con una tesi che ancora oggi "rispunta in qualche bibliografia iperspecializzata". Dunque, io sarei un "maestro di laicità, crede del Risorgimento più rigorosamente secolare", al quale è toccata la sorte di scodellare, fra gli altri, anche un notissimo scrittore di ispirazione diametralmente opposta.
Tutto questo mi ha richiamato alla mente un gustoso episodio che Gaetano Salvemini ci raccontò la sera del 16 novembre 1949 quando, dopo un quarto di secolo di forzata assenza dall'Italia risalì sulla sua cattedra di Storia a Firenze. Il più celebre del suoi maestri di Storia, all'Istituto di Studi Superiori, era stato Pasquale Villari, un conservatore illuminato tra i più grandi dell'Italia unita. Salvemini, tutti lo sanno, fin dagli anni universitari, era diventato socialista, verso la fine del secolo. E un giorno, quando raccontò all'amato maestro che l'ultima spinta a diventar socialista gliel'aveva data proprio lui, facendo leggere agli allievi un'opera di Laveleye sulla proprietà privata, Villari mormorò, trasecolato: "Seminiamo malve, e nascono rosolacci": cioè papaveri di un bel rosso vivo.
E' ovvio che io non oserei mai paragonarmi a uno storico della statura di Villari (e credo, senza tema di offenderlo, che Messori non osi paragonarsi a un uomo come Salvemini); ma mi vien da sorridere se penso che in questo caso - con inversione del color dei fiori - il seminatore di rosolacci sarei io, e Messori la malva tendente al nerastro...
Aggiungo, senza abbandonare il tema semischerzoso - che se oggi, in un ipotetico esame o discussione di laurea avessi ancora da discutere con lui, e mi tirasse fuori gli argomenti sfoggiati al Meeting riminese di CI, dovrei sonoramente bocciarlo. E questo, sia ben chiaro, non già certamente per l'abissale differenza di idee, di credenze, di fede tra me e lui. Ho sempre rispettato gli allievi diversamente pensanti e credenti, li ho sempre incitati a espormi i loro dubbi e dissensi, a interrompere le mie lezioni per parlarne con loro di fronte a tutti. Ho assegnato e discusso non poche tesi di laurea su argomenti di storia della Chiesa, avendo spesso, da correlatori, insigni colleghi di fede cattolica. Ma una cosa è dibattere su temi di cultura, un'altra cosa prendere sul serio scempiaggini come quelle incautamente profferite a Rimini, davanti a quell'assise di scalmanati (Messori non incolpi i giornalisti a suo dire infedeli. Mi è bastato - e ne avanza! - sentire, alla tv, le sue frasi sul processo di Norimberga e gli uomini del Risorgimento, e lo scroscio di frenetici applausi che le ha accolte). Per questa sola ragione ho rifiutato a quotidiani e settimanali di rilasciare interviste per discutere le poco geniali trovate del mio allievo.
E qui il discorso non può non farsi serio. Ho parlato di scempiaggini; ma Messori scempio non è. Mi chiedo perché si sia lasciato andare a quel modo. E lo dico con una sottile vena di affettuosa malinconia. Mi rifiuto anche qui di contrapporre a miserevoli battute di quel tipo argomenti seri, che del resto sono stati già detti, perfino a sazietà. Piuttosto vorrei risalire da questo meschino episodio a una considerazione più generale. Confesso che quel che mi urta e mi addolora in questa vicenda, non è l'apostrofe - forse sfuggita a Messori, o suggeritagli lì per lì dallo storico che gli sedeva accanto: non so chi fosse - a preoccuparmi; ma è l'infimo livello a cui troppo spesso scade il dibattito storico-politico nel nostro Paese, sotto l'abbacinante imperversare delle grossolane e superficiali battute impressionistiche, soverchianti ogni meditata critica. Penso, nel dir questo, a certe artificiose ricostruzioni, negli anni passati, della Rivoluzione Francese, con Robespierre assimilato a Pol Pot; o al federalismo sbandierato dai novelli condottieri delle leghe nordiste, che evidentemente non hanno mai letto una riga e non hanno capito un'acca di Carlo Cattaneo; alle giulebbose rievocazioni del fasti sabaudi, per propiziare la rivoltante pretesa di seppellire al Pantheon gli ultimi monarchi, indegni di tanto onore; o alle ricorrenti denigrazioni della Resistenza; o al provincialismo reazionario di chi sogna una restaurazione dell'Italia lazzarona, sanfedista, violenta, proprio nel momento in cui si va faticosamente formando una nuova coscienza europea. Ciò che offende e indigna, in queste stolide polemiche, è proprio il trionfo delle contumelie al posto delle idee, della presuntuosa arroganza al posto dell'umiltà critica, dell'insulto provocatorio invece della spassionata ricerca. E', in una parola, il rifiuto di pensare. Francamente, mi rattrista vedere Messori, uno dei miei primi allievi, imbrancato con tutti questi messeri. E mi perdoni la strigliata. Gli posso concedere una sola attenuante, da lui stesso appena accennata in una lettera a un quotidiano: di avere perduto il controllo di sé per l'afa insopportabile sotto l'infuocato tendone di Rimini.

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