§ Cronache di fine millennio

L'arte dei guerrieri




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta
Collab. Bruno Cordero, Carlo Mastria



Quelli che si scandalizzano per il cosiddetto "revisionismo storico" ci lasciano perplessi. Preoccuparsi perché un certo personaggio potrebbe venire "rivalutato" o un certo evento "ridimensionato" significa avere una ben povera e catechistica concezione della storia. La quale, appunto, o è"revisionistica" - nel senso che ripercorre e riesplora di continuo le strade fatte, e rilegge e approfondisce, corregge e supera - oppure non è nulla. E questo vale in modo particolare per quegli oggetti di storia ancora incandescenti, quelli che hanno provocato ferite non ancora rimarginate: ad esempio, il nazionalsocialismo e lo stalinismo, Ma c'è anche chi si scandalizza per il revisionismo relativo a personaggi e argomenti antichi.
In Italia c'è molta gente che si picca di essere appassionata di storia, ma che della storia ha, nel suo complesso, l'immagine che si è costruita sui manuali della scuola media. E allora guai a mettere in dubbio, ad esempio, che Caligola fosse un matto o che Alessandro VI Borgia fosse un papa corrotto. Questo tipo di personaggio sa benissimo, fra l'altro, che il Saladino era "feroce" e che Attila era "flagello di Dio" e che dove lo zoccolo del suo cavallo calpestava la terra non cresceva più erba. Ci volle un santo come Leone Magno per fermarlo: perché Attila, oltre che un barbaro e sanguinario tiranno, era anche superstizioso.
Chi ragiona in questo modo raramente viene scosso da ricerche scientifiche serie che dimostrano esattamente il contrario di quanto egli sostiene: perché, di solito, di ricerche del genere non viene nemmeno a conoscenza. Al massimo, potrà scandalizzarsi per uno scopo massmediale che in qualche modo infici le sue inossidabili certezze.
E' quanto è accaduto con la pubblicazione di un libro di Wess Roberts su Attila, un americano il quale ha scoperto, nientemeno, che Attila "fu un brillante leader capace di offrire oggi una straordinaria lezione in materia di strategie". Questa "novità" vecchia come il cucco ci vieta di perder tempo: di questo volume si possono scorrere alcune pagine per scoprirvi il compito in casa di un "traduttor del traduttor d'Omero". Ben altro spessore hanno la ricerca sugli Unni (quelli che le fonti cinesi chiamavano Hsiung-Nu) del Gumilev, e i libri dedicati ad Attila dal Thompson, dall'Altheim, dal Bussagli. E lì - soprattutto nei lavori di quel grande studioso che fu Franz Altheim e di quell'orientalista di straordinario genio che era Mario Bussagli - c'era davvero di che sobbalzare.
Non solo Attila vi veniva dipinto come un politico duro e astuto, ma anche raffinatissimo; e la sua celebre corte-accampamento nella pianura pannonica risultava una specie di Bisanzio della steppa, dove si parlavano mille lingue, giungevano ambascerie da tutto l'universo euroasiatico, si convogliavano tesori d'arte e di cultura. E Attila era un grande capo che regnava su una federazione di popoli uralo-altaici, nord-iranici, germanici, slavi, e su un'estensione di terre che dal Danubio giungeva al Caucaso e al Lago d'Aral.
Buon conoscitore del greco e forse del latino, capace di valutare con finezza e tempestività il mutare dello scenario politico, Attila aveva fondato il suo impero nomade alle porte del due imperi sedentari, quelli romani d'Oriente e d'Occidente: alternativamente mercenario oppure nemico dell'uno e dell'altro, sapeva guardare lontano. Per lui, né l'impero persiano né quello cinese erano realtà remote. Si alleò nel 436 con il potente padrone dell'impero d'Occidente, il generale Ezio, e insieme con lui l'anno successivo batté e sgominò i Germani Burgundi, che stavano premendo sui confini della Gallia Belgica: così facendo, sarebbe entrato nei canti epici germanici (è uno degli eroi del Nibelungenlied, che narra appunto la tragedia dei Burgundi), ma al tempo stesso si sarebbe confermato come l'unico sovrano al quale i popoli delle steppe potevano guardare mentre miravano a impadronirsi del brandelli dell'impero romano in crisi.
Sotto il profilo militare, non riuscì nel suo intento. Egli contava di sfruttare al massimo il sospetto reciproco con il quale i due imperi romani, orientale e occidentale, si guardavano: ma essi capirono che il pericolo effettivo era proprio lui, e così nel 451, ai Campi Catalaunici presso Troyes il suo antico alleato Ezio poté sconfiggerlo. Non dovette essere una grave sconfitta, se l'anno successivo gli Unni si rovesciarono nella penisola italica, spianarono Aquileia e giunsero fino alle sponde del Mincio. Ma lì, a fermare Attila, più che papa Leone i e la visione degli apostoli Pietro e Paolo, fu la sensazione che addentrarsi ulteriormente nella penisola poteva essere un errore strategico grave, perché l'imperatore d'Oriente, Marciano, avrebbe potuto sbarrargli la strada. Il suo vero obiettivo, mettere i due imperi l'un contro l'altro armato, agendo come un cuneo fra essi, era naufragato. Mori l'anno successivo: si raccontò per il veleno propinatogli dall'ultima delle sue tante spose, la giovanissima burgunda Gudrun-Crimilde della saga. Ma fu, anche questa, una delle tante leggende che fiorirono attorno a lui. E che egli del resto incoraggiava, sapendo che tale era una delle basi del suo carisma: come la leggenda della spada che gli sarebbe stata donata dagli dei e che riprendeva forse un antico mito sciito-sarmatico.
Fu il mediocre storico Prisco ad accreditare di lui l'immagine, tanto stereotipa quanto tendenziosa, del barbaro feroce e crudele. Essa venne ripresa da Jordanes e, nel Settecento, da Edward Gibbon, che ne consacrò la fama.
Esiste però in Europa un'altra visione di Attila: quella del capo fiero e animato da un arcaico senso di giustizia, quale lo ritrae il Nibelungenlied e quale ispirò la tragedia di Corneille nel 1667 e quella di Zacharias Werner nel 1808. Le leggende medioevali che favoleggiavano di un suo aspetto mostruoso e che mettevano in rapporto gli Unni con il popolo apocalittico di Gog e Magog, avanguardia dell'Anticristo, più che riprendere Prisco seguivano la logica delle preoccupazioni escatologiche, vive nel mondo romanocristiano, per il quale la fine dell'impero apriva la porta alla fine del mondo.
Ma in una prospettiva euroasiatica Attila, insieme con Gengis Khan e con Timur (il Gran Tamerlano), appartiene al novero delle figure di sovrani che hanno saputo regnare su composite federazioni di nomadi e presiedere con intelligente spregiudicatezza a un mischiarsi di lingue, di tradizioni, di culture. E in ciò consiste la loro modernità, ora che l'Eurasia - non più congelata - si riaffaccia alla ribalta della storia.
Tutta colpa di Voltaire se la parola "vandalo" èdiventata sinonimo di predone iconoclasta. il filosofo illuminista francese, il quale cercava un epiteto infamante per stigmatizzare i suoi contemporanei che distruggevano gli antichi monumenti, aveva avuto, chissà perché, l'idea di andare a riesumare il nome della tribù germanica che, all'inizio del V secolo della nostra èra, aveva fatto tremare l'intera Europa. La "trovata" di Voltaire entrò subito nell'uso corrente, anche nel linguaggio ufficiale.
I Vandali, però, non meritarono affatto la sinistra nomea affibbiata loro nel Settecento: storia e vocabolario sono stati particolarmente ingiusti con un popolo che aveva più qualità che difetti, e che comunque non era né peggiore né migliore delle tantissime altre orde "barbare" che all'epoca scorrazzavano per il Vecchio Continente. Non erano, certamente, degli stinchi di santi; ma neanche quei mostri assetati di sangue che distruggevano tutto al loro passaggio, di cui storia e tradizioni popolari ci hanno tramandato l'immagine, con un netto marchio d'infamia.
Chi erano, dunque? Un piccolo popolo che, partito dalla Scandinavia, aveva lasciato le sponde del Mar Baltico e si era dapprima diretto verso Sud; aveva poi tentato di stabilirsi sulle rive del Mar Nero e del Mar Caspio; quindi, respinto dalle popolazioni locali, si era accampato sul territorio dell'attuale Ungheria. Incalzati dalle scorribande e dalle invasioni successive di altre tribù germaniche venute da Est (e respinte, a loro volta, dalle grandi ondate migratorie "gialle" dell'Asia centrale), i Vandali si erano rimessi in viaggio, puntando questa volta verso Ovest. Attraversato il Reno nel 406 d.C., speravano di poter mettere radici nella Gallia, ma ne erano stati cacciati dai Visigoti e dagli Svevi, che li avevano spinti al di là del Pirenei e inseguiti fino in Andalusia.
Qui una buona parte del Vandali venne annientata. Ma i superstiti, guidati da un re di tempra eccezionale, Genserico, ebbero il coraggio di attraversare il mare, di sbarcare in Africa, di puntare su Cartagine che riuscirono a conquistare, cacciando i Romani che l'occupavano. Insediati nella loro capitale, i Vandali ritrovarono forza, ricchezza, splendore; e per un secolo controllarono il Mediterraneo occidentale fino a quando, sconfitti da Bisanzio, scomparvero senza lasciar tracce.
Ma prima, erano passati anche per il Marocco: ebbero dunque anche un'"epopea maghrebina". Genserico e i suoi approdarono qui nel 429, forse nell'area nella quale oggi sorge Tangeri. Da lì proseguirono a marce forzate verso Est. Tentarono, senza riuscirvi, di conquistare la città di Ippona (oggi Annaba, in Algeria): la popolazione oppose una resistenza accanita, guidata dal suo vescovo, famoso teologo, pensatore e filosofo berbero-latino, poi canonizzato dalla Chiesa e passato alla posterità come Sant'Agostino.
I Vandali riuscirono invece ad espugnare e occupare Cartagine, che fu dapprima la Capua dei loro ozii, e infine, dopo la sconfitta, la loro tomba.
A dispetto della pessima - e ben postuma -reputazione, Genserico e la sua tribù non rasero al suolo la città punico-romana; al contrario, la abbellirono e la amministrarono saggiamente, la trasformarono in una sorta di quartier generale dal quale controllarono il Mediterraneo. Protagonisti di un'avventura tumultuosa, straordinaria e geniale, come hanno scritto, in epoche successive, Gautier, Courtois, Jobert (un ministro francese contemporaneo) e Saudray, i Vandali dovrebbero essere ricordati con simpatia e compassione: avevano capito che il destino altro non è che lo spazio che separa la rassegnazione dall'ostinazione, e come tale appartiene soltanto agli uomini.
Ci pensarono le figurine Perugina a sintetizzare il giudizio espresso dalla tradizione sul Saladino: vi era definito solo e tout court "feroce" Salah ad-Din (1138-1193) è senza dubbio un paradigma lusinghiero per chi, ai nostri giorni, aspira a una grande unità araba. Egli riuscì a impossessarsi di Egitto, Siria e Mesopotamia, estendendo poi i suoi dominii soprattutto ai danni dell'impero d'Oriente. Dopo aver preso Gerusalemme nel 1187 e fatto prigioniero il suo re, Guido di Lusignano, divenne il principale bersaglio dei cristiani della terza crociata. Partecipò alla lunga guerra per la difesa di Acri (1191), chiusa da una tregua decennale, dopo la cui stipula morì. E' persino ovvio che un personaggio di tanto rilievo storico sia stato oggetto di cronache e di narrazioni presso tutte e due le parti in conflitto (le ha studiate con la consueta sapienza Francesco Gabrieli). E certo gli europei non avrebbero dovuto essere tanto teneri con questo acerrimo nemico, che secondo loro aveva conquistato il potere con delitti e con adulteri. Invece, a partire dal XIII secolo, l'attitudine occidentale verso il Saladino si capovolge, sino a farne un paradigma di virtù etiche e un rappresentante insuperato di cavalleria; ed ècurioso che questa idealizzazione sia stata precipuamente cristiana, mentre ben poco vi collaborarono gli scrittori arabi.
Che abbia agito il gusto di mostrarsi generosi col nemico, è possibile; ma il caso sarebbe tanto raro, nella grande lotta di religione allora in corso, che vien da credere che il comportamento del Saladino sia stato veramente tale da favorire la nascita del suo mito.
Possiamo partire da Dante. Tutti conoscono il trattamento impietoso che riserva al fondatore dell'Islam. Realizzando espressionisticamente il livore dei cristiani per Maometto, egli immagina di incontrarlo in Malebolge, sventrato, con i visceri in vista e le budella pendenti tra le gambe. Logica vorrebbe che uno dei principali difensori della sua religione, il Saladino, appunto, non fosse trattato meglio. Eccolo, invece, nel nobile castello del Limbo (Inferno, IV), assieme ad altri personaggi "con occhi radi e gravi, / Di grande autorità ne' lor sembianti". Tra gli "spiriti magni" ivi raccolti il Saladino sta, un po' in disparte, in compagnia del principali eroi della storia romana. Non basta. Nel Convivio è citato tra i più alti esempi di liberalità, insieme con Alessandro Magno e con Alfonso VIII di Castiglia. Altrettanto solenni e ammirate sono le apparizioni del Saladino nel Trionfo della Fama di Petrarca e nell'Amorosa visione di Boccaccio.
I tramiti letterari che hanno fatto di un infedele quale il Saladino uno dei magnanimi proverbiali sono stati indicati già un secolo fa dal grande filosofo francese Gaston Paris. Del quale non possiamo riferire tutte le indicazioni e le riflessioni, anche perché spesso cita testi pochissimo noti, come l'Ordene de Chevalerie, un trattato sulle virtù cavalleresche in cui il docente è un personaggio storico, Ugo di Tabarie (Tiberiade), e il discente lo stesso Saladino. Ricorderemo solo che gli scrittori italiani sono in prima fila in questo coro di lodi, specialmente gli autori di novelle; e che ai loro racconti vanno aggiunti quelli del nobile spagnolo Juan Manuel, che ben due volte, e in posizione strategica (al centro e alla fine della sequenza di novelle del Conde Lucanor), fa protagonista il Saladino, esattamente come Boccaccio nel Decameron (giornata I e X, quelle della libertà e della magnanimità). La tipologia di queste novelle si riconduce a pochi temi qualificanti. Uno è religioso-morale. Il Saladino, che viene rappresentato come un grande viaggiatore, anche (in incognito) attraverso la Francia e l'Italia, esprime spesso giudizi ammonitori sui costumi occidentali: perché i poveri postulanti, considerati dal Cristianesimo i più vicini a Dio, alla corte francese devono sedere per terra, mentre i signori sono sistemati a tavola con tutti gli agi? Altre volte biasima gli sprechi del nobili e l'avarizia degli ecclesiastici; oppure quella che a lui sembra indebita adorazione di un uomo come il papa. Ma non ci si trattiene nemmeno dall'attribuirgli come madre una contessa di Pontieu o dall'immaginare una sua postrema conversione al Cristianesimo, dopo le prediche e i miracoli di due frati.
C'è poi il tema della generosità ("fu in donare magnifico, e delle sue magnificenze se ne raccontano assai", dice Boccaccio) e della giustizia. Così in varie narrazioni i suoi doni superano persino la misura già stabilita, e la sua sentenza risolve con sagace equilibrio quesiti intricati; nella novella boccacciana di Melchisedec, il Saladino apprezza e premia la parabola dei tre anelli pronunciata, da un suo suddito ebreo messo dapprima pericolosamente alle strette. Così diventa un precursore di quella tolleranza religiosa praticata per un certo tempo nella Spagna araba.
Infine, la cavalleria. Il Saladino è rappresentato come un cavaliere cortese, che una volta mette l'assedio alla città della donna che ama per la fama -delle sue virtù; ma, indotto dalle preghiere di questa, si ritira come prova ancora più grande d'amore. Un'altra volta, invaghitosi d'una signora, interrompe il pressante corteggiamento perché richiamato da costei all'obbligo della verecondia. La sua cavalleria ha particolare rilievo nelle evenienze belliche: prigionieri vengono liberati e caricati di doni: l'idea di usare ostaggi come scudo umano avrebbe suscitato lo sdegno non solo del Saladino mitico, ma anche di quello storico.
Ed ecco, da ultimo, un elemento che certo la propaganda del mediocri despoti orientali dei nostri giorni taceranno. il Saladino era curdo: apparteneva dunque a quella popolazione in questo secolo destinata al massacro e al genocidio, senza più patria, divisa dalla Turchia all'Iraq e all'Iran, con una diaspora favorita dalle distrazioni dell'Occidente. Così, nel limbo dove Dante lo ha posto, il Saladino deve essere passato dalla serena malinconia al furore, vedendo la sua gente senza terra e sentendo se stesso paragonato al gran ladro di Baghdad, Saddam Hussein, tiranno iracheno.

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