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§
La contestazione
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Il "coccio" non fa "testo" |
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Luigi
A. Santoro
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Che
la natura del testo teatrale sia diversa da quella del testo letterario
è uno dei dati acquisiti dalla cultura del nostro secolo: ricordo
ciò, non per affermare l'esclusiva competenza degli studiosi
di teatro in rapporto a tutti gli oggetti che entrano nel meccanismo
di produzione dell'evento teatrale, ma solamente per dire che non è
più possibile sottovalutare la coerenza fra l'oggetto di studio
e gli strumenti dispiegati nel corso del lavoro di ricerca.
Il rischio più grande che corre chi usa un testo teatrale come limite della sua ricerca è quello di scambiare la parte per il tutto, di considerare il testo scritto come mondo autosufficiente in grado di contenere lo spettacolo, l'evento teatrale. E' questo un campo di problemi che, forse, possono anche essere ignorati da chi si occupa di storia della letteratura, ma non da chi si occupa di storia del teatro. Quando un testo nasce per diventare uno degli elementi che entrano nel complesso meccanismo di produzione dell'evento teatrale accetta, fin dal momento della sua ideazione, la condanna all'instabilità. Deve poter sopportare interventi di mutilazione, dilatazione, integrazione, scarti pur conservando una sua riconoscibile identità. Lo studioso che invece di rispettare questa instabilità, questa natura plastica volesse puntare a fissare il testo, a pacificarlo come prodotto letterario, a sganciarlo dal fare, dall'agire degli attori si troverebbe nelle condizioni di chi, volendo calcolare la traiettoria di un oggetto in movimento, si servisse delle formule della statica invece che di quelle della dinamica. Sarebbe come, per fare un altro esempio, se un restauratore di quadri o di vasi tenesse conto dell'iconografia e dello stile ignorando le tecniche di composizione e le condizioni materiali di produzione. Il coccio non fa il testo. Appunto. C'è qualcosa del mito dionisiaco, replicato nello smembramento di Penteo, nella vita del testo teatrale: un sistema unitario che viene smembrato nelle singole parti per poi ricomporsi in un'unità diversa sulla scena. Il testo/tessuto che si offre alle lacerazioni di ciascun attore per rendere vivo il fantasma del personaggio. Occhi e mani e braccia e respiro e smorfie: la materialità dell'accadere del teatro non lascia segni nei magazzini della memoria e se li lascia sono freddi. Geroglifici gessati che i posteri interrogano con risposte preconfezionate. Eppure può far venire i brividi il capire che interroghiamo la vita in quella zona dolente in cui la vita si sogna, si crea di nuovo. La conoscenza in questa zona si conquista a frammenti, attimi, tagli di sguardi. Non c'è la scrittura geometrica; c'è un vortice all'interno del quale l'impalcatura si torce, si ripiega, si dissolve, si ricompone. Le parole slittano sui gesti, si rompono al di qua e al di là del ritmo del respiro, scavano silenzi che dicono il dolore o s'addensano in croste di discorsi senza senso. E' possibile entrare in questo mondo armati di ipermetri e ipometri, recuperi di rime e ottonari crescenti? Credo di sì; a patto però di non illudersi che su questa strada è possibile incontrare l'evento teatrale. Accade di frequente che il filologo, frastornato dalla forza di autodistruzione dei testo teatrale, dall'insopprimibile cupio dissolvi, di una creatura che sembra nata nella fissità dei segni e che, allo stesso tempo, si tende verso la fugacità dell'evento scenico, trasformi ipotesi morfologiche in sicurezze semantiche e ipotesi semantiche in sicurezze morfologiche. Per tentare di sfuggire a queste trappole la critica testuale ha elaborato numerose strategie e strumenti che possiamo racchiudere nel programma, proposto da Segre, di "prendere in esame, insieme col testo, il contesto pragmatico in cui esso è stato prodotto". Ora, è sufficiente prendere in considerazione il fatto che l'azione di composizione di un testo teatrale s'inscrive statutariamente in una sequenza di azioni finalizzate alla realizzazione dell'evento teatrale per comprendere che un lavoro di filologia teatrale, per essere realmente tale, deve attraversare un territorio che. comprende anche il testo teatrale. In altre parole, se l'oggetto da analizzare è l'evento teatrale, il testo fa parte, insieme a tutti gli altri elementi che contribuiscono a creare quell'evento, del contesto e in tale contesto solo eccezionalmente occupa un posto particolare. Dovrebbero essere considerazioni scontate, ma evidentemente non lo sono se uno studioso dei valore di Marti, in un articolo apparso nel giugno scorso sul periodico "Sudpuglia", torna a proporre la questione in una prospettiva rovesciata. Non intendo discutere qui i risultati del lavoro di Marti - rischierei di prestarmi ad una polemica che può provocare solo disagio e incomprensioni - ma non mi sembra giusto lasciar cadere un'occasione, forse unica, per verificare la correttezza della metodologia sopra esposta. L'unicità della situazione è data dal fatto che nel mese di ottobre dell'anno passato è apparso il mio libro dal titolo: La Rassa a bute. Spettacoli, feste e teatri nel Salento tra medio evo e illuminismo, Capone editore e, a distanza di qualche giorno è apparso il volume La rassa a bute. Dramma in lingua leccese, edizione critica, traduzione e commento, a cura di Mario Marti, Congedo editore. Due lavori sullo stesso argomento che escono praticamente in contemporanea non è cosa che capiti tutti i giorni. Nessuna sorpresa per gli autori: sia io che Marti sapevamo che da almeno un anno ci occupavamo dello stesso argomento e avevamo evitato di scambiarci informazioni sul lavoro proprio perché c'intrigava molto l'idea di due percorsi diversi in direzione del medesimo campo di studio. La diversità dei due lavori emergeva chiaramente già dai titoli, ma era stata, per così dire, consacrata ufficialmente in occasione della presentazione del mio libro. Nessuno, infatti, aveva percepito la presenza di Marti e del suo libro, in quella occasione, come una forma d'indelicatezza. Semmai come testimonianza delle possibilità di approfondimento dei problemi teorici e metodologici che l'uscita contemporanea dei due libri offriva. Coll'intervento del giugno scorso Marti, inspiegabilmente (almeno per me), riporta il confronto al livello meno pertinente e sceglie come terreno di confronto tra i due lavori quello della traduzione. Non discuto la scelta di Marti, tuttavia credo che alcune cose vadano esplicitate in modo che risulti chiaro, e perciò utilizzabile, l'oggetto del contendere. Cominciamo col descrivere i dati di partenza. Nel volume 3 dei manoscritti conservati presso la Biblioteca Provinciale di Lecce sono raccolti testi di natura diversa: sonetti, ottave, canzoni, documenti morali e politici, odi, una cronologia di papi e due testi teatrali. La rassa a bute. Dramma in lingua leccese e L'Adelaide, un dramma musicale. Due sole date a disposizione dello studioso: 25 agosto 1667, data di pubblicazione dei documenti morali e politici di Mutio Scevola d'Aquisgrana e 3 luglio 1698, data della rappresentazione de L'Adelaide. Nel codice, però, il testo dell'Adelaide è collocato prima dei documenti morali e politici. Di conseguenza, l'ordine in cui sono raccolti i diversi testi non ha alcun rapporto con la loro datazione. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che i testi contenuti nel codice risultano trascritti da almeno tre mani diverse;. che, a parte i documenti morali e politici, L'Adelaide, tre sonetti e due ottave non troviamo alcuna indicazione del nome degli autori; che non conosciamo il nome di coloro che hanno realizzato le copie; che non è possibile, allo stato dell'arte, delineare il percorso compiuto dal codice per arrivare alla Biblioteca Provinciale; che non esiste alcuna indicazione sui criteri seguiti per raccogliere insieme quei testi. Conseguenza di questa situazione è che se prendiamo la Rassa a bute, o qualsiasi altro testo contenuto nel codice, come oggetto di studio il suo contesto più immediato, costituito dal resto del codice può essere esplorato solo costruendo una teoria infinita d'ipotesi. E ciò mi sembra che non costituisca certamente un buon avvio per una ricerca filologica. Notevolmente diversa risulta invece la situazione se la Rassa a bute viene considerata non il testo, ma una piccola parte del contesto dello spettacolo, dell'evento teatrale che addita. Un relitto; alla lettera: quello che è rimasto dell'evento teatrale. Ma anche intraprendendo questa via la prudenza non è mai troppa. Ammesso che la Rassa a bute intrattiene un rapporto privilegiato con l'evento teatrale cui rimanda, tale rapporto non può essere illuminato dall'interno, in quanto un testo d'uso, un testo cioè costruito per entrare nel complesso meccanismo di produzione dello spettacolo, costituendo un blocco unico con la situazione pragmatica, con le condizioni materiali che determinano l'evento teatrale può essere illuminato solo a partire da queste. E' necessario, allora, uscire dalla Rassa a bute e tentare di mettere a fuoco i tratti più significativi dell'universo dello spettacolo entro il quale il nostro relitto può assumere senso e svelare le condizioni materiali della trasformazione in evento teatrale. Si badi bene: questo è un percorso auspicabile per tutte le ricerche teatrali, ma nel nostro caso è sicuramente un percorso obbligato per almeno tre ragioni. Abbiamo già descritto la situazione oggettiva del codice; a questa dobbiamo affiancare il fatto che la Rassa a bute è scritto in dialetto, che abbiamo una sola versione, per di più apocrifa e che non esiste un corpus di testi coevi della stessa natura. Qui non è in gioco il significato di una parola o la struttura di un verso, qui è in gioco la legittimità stessa di un tipo di ricerca. Desta meraviglia la disinvoltura con cui Marti afferma che la Rassa a bute non è un relitto teatrale "ma è una componente significativa del teatro dialettale salentino, nel quadro della coeva produzione, anche dialettale, che non è né impalpabile di quantità, né insignificante di qualità;. tutto da ristudiare sulla linea della analoga produzione in lingua, che è ben tracciata e tracciabile nella panoramica nazionale: da Secondo Tarentino a Bonaventura Morone; da Cataldantonio Mannarino a Daniele Geofilo Piccigallo; da Ottaviano Argentino a Scipione Sambiasi, ed altri ancora. In varietà di generi e di interessi". Al di là dell'apprezzabile artificio retorico, l'accostamento operato da Marti tra la Rassa a bute e gli autori citati non può aprire alcuna seria ipotesi di lavoro; tantomeno può costituire un campo da indicare "a chi intenda occuparsi di storia del teatro qui nel Salento". Infatti, a parte il fatto che lo studio dei testi, da recuperare e restaurare, può configurarsi al massimo come contributo alla storia della letteratura drammatica e non della storia del teatro, è sufficiente aggiungere agli autori citati da Marti le opere e le date per rendersi conto che quell'accostamento è privo di qualsiasi pertinenza. Quale contesto possono costituire per la Rassa a bute Secondo Tarentino che pubblica il suo Capitan Bizzarro a Venezia nel 1567; o Bonaventura Morone che pubblica il suo Mortorio di Cristo a Cremona nel 1612 e La Giustina a Venezia nel 1617; o Cataldo Antonio Mannarino, autore di una favola boschereccia, Il pastor costante e una tragedia sacra, Susanna e così per gli altri? Le uniche opere teatrali in dialetto, più o meno coeve, che si conoscono sono: Pernia e Cola di anonimo mesagnese, Il calabrese fortunato di anonimo di Martina Franca (ma i personaggi interloquiscono in italiano, napoletano, calabrese e martinese) e Nniccu Furcedda di Girolamo Bax. E' sufficiente uno sguardo superficiale per rendersi conto che non è possibile stabilire alcun rapporto tra la Rassa a bute e queste opere, né a livello linguistico, né a livello di contenuti. Qualche riscontro sul piano linguistico e dei contenuti è, invece, possibile tra la Rassa a bute e La Juneide, ma si tratta di forme espressive e di fruizioni molto distanti, anche se, come indicavo nel mio libro, è un discorso che può essere ripreso. A puro titolo di curiosità segnalo alcune interessanti coincidenze tra la Rassa a bute e La Juneide: Quisti facenu
moi lu recemientu Stu tenemientu Lu sindecu
nu penza allu puerieddu, Vainu li pueriddi
pe la fame Mmoddanu li
rassieri lu stuppieddu Sindecu visciu
e li Rassieri uniti Picca ni mporta
poi se Lecce cade, L'amici de
la rassa mandecara Cussibbi lusengandu
scia la gente, E nserti Artisti
muerti de la fame Midd'anni li
paria cu se nde fua Ca midd'anni
me pare cu lu ncurtu E biddi ca
tenianu cuncrusione Ficera concrusione Ma il fatto che
la Rassa a bute sia scritto in dialetto pone in modo forte anche il
problema della sua realizzazione/dissoluzione sulla scena in rapporto
ad una recitazione articolata intorno ai moduli della tradizione orale
ed obbliga ad allargare il campo d'indagine a quello che Lotman definisce
"L'orizzonte d'attesa" del pubblico. E non è tutto. Un dibattito concluso a. b. Il professor Santoro
mi ha spedito una lettera, nella quale - fra l'altro - si dice sorpreso
perché, ricevuto il saggio di Mario Marti ( Il restauro della
Rassa a bute, pubblicato su questa Rassegna nel n. 2/giugno 1990),
non ho colto l'opportunità di contattarlo, per una replica,
per un'autodifesa o, comunque, per una sua risposta immediata. Non
so in nome di quale consuetudine parli il professor Santoro. Se dovessimo
interpellare tutti coloro che, nel bene o nel male, sono citati in
Sudpuglia, redigeremmo solo una rassegna di dibattiti. |
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