Nel 1990, il commercio
internazionale si stima abbia raggiunto l'importo di 3.500 miliardi
di dollari, pari al 14 per cento del Pil mondiale; le transazioni
di attività finanziarie sono un multiplo elevato di questa
cifra.
Dalla fine della seconda guerra mondiale, l'Occidente e il Giappone
hanno costruito il loro benessere sull'applicazione crescente del
principio di libertà degli scambi. Oggi si confrontano coloro
che auspicano l'estensione di quel principio ad aree finora protette,
in particolare quelle dei prodotti agricoli e dei servizi, e coloro
che difendono interessi settoriali e regionali. Le difficoltà
della trattativa in ambito Gatt hanno riflesso questo contrasto. Esso
si è manifestato sia, all'interno del mondo sviluppato sia
nei rapporti fra questo e i Paesi in via di sviluppo.
Questi ultimi chiedono che venga loro esteso il modello di libertà
degli scambi da cui è scaturito il benessere nel mondo occidentale;
da parte dei Paesi più indebitati, una più ampia partecipazione
al commercio mondiale è ritenuta essenziale per attenuare il
peso del loro debito estero. La richiesta assume la forma di domanda
di libertà di accesso ai ricchi mercati del mondo sviluppato;
assume altresì la forma, non nuova nell'esperienza di Paesi
quali il nostro, di imponenti fenomeni migratori, con i connessi problemi
umani, sociali, economici, politici. Sull'assetto futuro del commercio
mondiale si gioca una partita che non è solo economica, ma
anche sociale, politica, di confronto di civiltà. Il corso
dei mutamenti sarà influenzato dalle tendenze demografiche
in atto, lente ma inesorabili. Esse accrescono la quota della popolazione
mondiale residente nei Paesi in via di sviluppo, e rafforzano l'aspirazione
a un maggiore benessere da parte dei popoli economicamente meno avanzati.
Di fronte a queste tendenze demografiche si configura una radicale
alternativa fra una immigrazione massiccia, difficilmente controllabile,
nei Paesi industriali, e, all'opposto, flussi di investimenti nei
Paesi in via di sviluppo e ampliamento degli sbocchi alle loro esportazioni.
Un modello di relazioni mondiali improntato alla libertà degli
scambi, di merci e di capitali, è quello che meglio può
conciliare, nel lungo periodo, la diffusione del benessere con il
'consolidamento dei rapporti pacifici fra aree, con un'ordinata migrazione
di persone, con la stessa preservazione dei connotati tipici delle
civiltà delle varie regioni della terra.
Operano nel mondo forze che tendono a creare grandi blocchi economici.
Questi si caratterizzano per la contiguità geografica e per
la presenza di una potenza economica predominante che agisce da polo
di attrazione. E' il caso della Cee nei confronti dell'Europa, inclusa
quella centro-orientale, e dell'Africa mediterranea. Che si creino
intese più strette, basate sulla vicinanza geografica, sulla
complementarietà economica, su maggiori punti di contatto delle
rispettive civiltà, non deve sorprendere, né è
fenomeno negativo. Al contrario, simili intese possono offrire una
valida opportunità di allargamento degli scambi, di intensificazione
degli investimenti dai Paesi relativamente ricchi di capitale in quelli
con abbondanza di lavoro.
Ciò che va respinto è la chiusura di ciascuno di questi
blocchi in se stesso, la tentazione di essere autosufficiente. Ne
seguirebbe, inevitabilmente, la contrapposizione tra loro. Occorre
disegnare un modello di relazioni economiche internazionali nel quale
trovino coerente sistemazione sia i progetti di intese regionali (quello
relativo all'Unione economica e monetaria europea essendo oggi il
più avanzato e ardito per finalità) sia la più
intensa partecipazione al commercio mondiale di aree finora periferiche,
sia, infine, i flussi finanziari, di aiuto e a condizioni di mercato,
che si dirigono dai Paesi sviluppati e dagli organismi internazionali
verso i Paesi in via di sviluppo e di trasformazione.
Il continente europeo sta vivendo due grandi esperienze: l'Uem e la
trasformazione dell'Est. Entrambi i processi saranno più proficui,
per i Paesi interessati e per il mondo intero, se si svolgeranno in
un clima di stabilità monetaria.
Quello della stabilità è tema su cui ritengo sia necessario
soffermarsi. Dirò subito, da banchiere centrale, che i cambiamenti
di portata storica che hanno interessato il continente europeo negli
ultimi diciotto mesi rafforzano l'esigenza di un forte impegno per
la stabilità dei prezzi, dei cambi, dei mercati dei capitali.
Questa esigenza è resa più stringente dall'attuale momento
storico. L'economia mondiale si trova in una fase di decelerazione
della crescita, mentre la guerra del Golfo ha deteriorato le aspettative
e ha impartito un impulso inflazionistico a tutti i Paesi importatori
di petrolio. Incombe di nuovo, ma èevitabile, il rischio della
stagflazione.
Al tempo stesso, il sistema monetario e finanziario internazionale
patisce le incertezze che derivano da irrisolti squilibri nelle finanze
pubbliche e nei pagamenti internazionali all'interno del mondo industrializzato,
dalla fragilità dei sistemi finanziari in alcuni degli stessi
maggiori Paesi, dalla perdurante crisi delle economie più indebitate
del Terzo Mondo. Tutto ciò si traduce in instabilità
dei cambi e tassi d'interesse reali storicamente elevati.
Gli alti tassi dell'interesse gravano sui bilanci dei Paesi in cui
si è accumulato il debito pubblico e limitano le già
scarse risorse disponibili in molte delle economie meno sviluppate
con elevato indebitamento estero; soprattutto ostacolano gli investimenti
nelle economie, segnatamente dell'Est, che necessitano di una profonda
trasformazione. Una maggiore stabilità dei prezzi ridurrebbe
l'incertezza che l'inflazione trasmette all'economia reale e, unita
a politiche economiche tese a sollevare il governo della moneta dai
troppi compiti ad esso attribuiti, porterebbe alla riduzione dei tassi
d'interesse reali, oltre che di quelli nominali.
La risposta non illusoria alle sfide a cui chiamano le modificazioni
strutturali e le vicende congiunturali dell'economia internazionale
sta nel favorire la formazione di risparmio. Ciò significa
politiche economiche volte alla stabilità dei prezzi, e quindi
tali da sollecitare la formazione del risparmio privato e il suo avvio
verso l'investimento, e in particolare di politiche fiscali miranti
al contenimento dei disavanzi pubblici. Questa prescrizione da tempo
ci viene implicitamente proposta dalla tendenza declinante della propensione
al risparmio. Nel complesso dei Paesi industriali, il rapporto risparmio
netto-Pil è disceso dal 17 per cento del 1973 al 10 per cento
di questi ultimi anni. Nella presente situazione economica, la prescrizione
appare appropriata per la quasi totalità dei Paesi. Lo è
anche per la Germania, dove le risorse necessarie alla riunificazione
debbono essere reperite senza gravare eccessivamente sul disavanzo
del bilancio pubblico. Le conseguenze economiche della riunificazione
non possono essere interamente gestite dalla politica monetaria.
Come ho detto, nella generalità delle economie non vi sono
alternative a politiche che contengano i disavanzi pubblici, cessino
di distruggere risparmio, contribuiscano a generarlo, rimuovano i
fattori di squilibrio e di instabilità. E' ingente il fabbisogno
di risorse finanziarie dei Paesi dell'Europa centro-orientale e dell'Unione
Sovietica in particolare, che si aggiunge a quello cronico dei Paesi
in via di sviluppo. Salvo qualche eccezione, le banche internazionali
esitano a far fronte a tale domanda in assenza di precise garanzie
da parte dei governi e delle loro agenzie di assicurazione dei crediti.
Questo atteggiamento non stupisce: è ancora viva l'esperienza
dei crediti immobilizzati con la crisi debitoria internazionale del
1982. Ad essa si aggiungono le incertezze per la presente congiuntura
economica.
Nell'attività del Gruppo dei Sette il coordinamento si è
incentrato sulla politica del cambio e della moneta. Non si è
voluto, o non si è potuto, includere tra le politiche da armonizzare
quella di bilancio.
Per il futuro è auspicabile che il Gruppo dei Sette, oltre
a rafforzare la gestione coordinata della moneta e del cambio, affronti
il problema del coordinamento internazionale delle politiche di bilancio,
coniugando gli obiettivi di riequilibrio macro-economico con quelli
di incentivazione del risparmio, pubblico e privato.
Il progetto di Unione economica e monetaria si inserisce nelle più
vaste esigenze che si manifestano per il continente europeo nel complesso.
Nelle conclusioni raggiunte a livello politico nelle ultime riunioni
del Consiglio europeo, come nei lavori tecnici svolti dal Comitato
dei Governatori, è emerso un ampio consenso in favore di un
insieme di regole e di istituzioni mirate al conseguimento della stabilità
dei prezzi e all'eliminazione degli squilibri di bilancio, in un contesto
di piena libertà per gli operatori e di forte integrazione
dei mercati.
La realizzazione del progetto comunitario accresce la possibilità
di sostenere lo sforzo di trasformazione delle economie dell'Est d'Europa.

L'esigenza politica
di cooperare con quei Paesi in forme nuove è ineludibile per
la Cee e per l'intero mondo occidentale. Il problema è già
stato posto, correttamente, nelle sedi della cooperazione politica,
quale la Conferenza di Helsinki, e nei trattati bilaterali che molti
Paesi europei hanno già concluso con quelli dell'ex Patto di
Varsavia.
L'esigenza economica, del pari, travalica il contesto comunitario.
La Comunità economica europea sta svolgendo un ruolo di propulsore
sia con l'affrontare programmi di assistenza immediata, sia con il
creare nuove istituzioni, quali la Banca europea per la ricostruzione
e lo sviluppo. Tuttavia, il problema economico a est della Comunità
è tale da coinvolgere tutti i Paesi industrializzati e tutte
le istituzioni economiche internazionali, dal Fondo monetario internazionale
alla Banca mondiale, all'Ocse.
Esso ha una dimensione finanziaria che dovrà essere soddisfatta
con apporto di risorse sia dalle fonti ufficiali, bilaterali e multilaterali,
sia dalle fonti private. Esso ha anche una dimensione istituzionale,
rappresentata dall'esigenza di dar vita alle strutture-cardine dell'economia
di mercato, nella produzione e nel commercio, come nel settore monetario,
del credito e della valuta: occorre restituire al sistema dei prezzi
e dei tassi d'interesse la funzione di strumento fondamentale della
politica economica, di meccanismo di allocazione delle risorse.

In questo processo di trasformazione, straordinario per dimensione
e complessità, che investe, con le strutture e istituzioni,
i modelli culturali dei singoli e delle collettività, la funzione
della Cee, quale naturale polo di riferimento, è fondamentale.
Non gioverebbe agli stessi Paesi dell'Europa centro-orientale il rallentamento
della realizzazione dell'Uem, quasi fosse possibile, ritardandola,
coinvolgervi fin d'ora quelle economie. Limitando l'esame agli aspetti
valutari e monetari, le condizioni di quei Paesi sono ben lontane
anche dalla possibilità di aderire allo Sme nella sua originaria
configurazione. Le loro valute non sono convertibili, non hanno un
mercato che ne determini il valore esterno. Anche allorché
saranno riusciti a creare un'economia di mercato, quei Paesi non potranno
in tempi brevi credibilmente rinunciare alle variabilità del
cambio come strumento di correzione degli squilibri di competitività.
Ciò non significa che non debbano studiarsi e attuarsi sin
d'ora forme di cooperazione tra l'arca monetaria della Cee e i Paesi
dell'Est europeo.
Nel concludere, vorrei richiamare il trinomio posto alla base di questo
intervento: libertà di scambi di merci e di capitali, stabilità
monetaria, risparmio. Da esso trae origine la convinzione che la Cee
debba restar fedele, anche nei rapporti con le aree esterne, al modello
aperto e libero-scambista che ha avuto tanta parte nello sviluppo
dei suoi Paesi membri. La costruzione dell'Uem apporterà coesione
e dinamismo al coordinamento internazionale delle politiche economiche;
fungerà da àncora della stabilità monetaria nei
confronti dei Paesi europei extracomunitari. Per queste ragioni, è
necessario che la Cee riprenda ogni iniziativa di trattative. Al tempo
stesso è essenziale che i tempi dell'Uem non siano allungati,
e che la sostanza del progetto non sia alterata. Le decisioni prese
dal Consiglio europeo di Roma nell'ottobre dell'anno scorso vanno
nella giusta direzione per quanto riguarda i contenuti e le scadenze.
La bozza di statuto della Banca centrale europea, predisposta dal
Comitato dei Governatori, e quella del Trattato dell'Uem approntata
dalla Commissione, sono al vaglio della Conferenza intergovernativa.
Si tratta di documenti che rappresentano assai più di una base
tecnica di lavoro. La bozza di statuto del Sistema europeo di Banche
Centrali è il frutto di un forte impegno, espresso dai Governatori
già nell'ambito del Comitato Delors, continuato poi all'interno
del loro Comitato, fino ad analizzare nei dettagli gli obiettivi,
i compiti, le modalità operative e organizzative della nuova
istituzione. L'accordo raggiunto sulla costruzione finale dell'Uem
permette di applicarsi alle analisi necessarie, di completare il disegno
della transizione, di dare concretezza di modalità operative
per la conduzione di una politica monetaria oggi coordinata, domani
comune.
La parola è ora ai governi e ai Parlamenti. Nel marzo 1979,
quando si decise di dar vita allo Sme, le istituzioni politiche dettero
prova di coraggio e di senso della storia. Dopo pochi mesi scoppiò
il secondo shock petrolifero, e si disse che forse lo Sme non sarebbe
mai nato se lo shock fosse avvenuto qualche mese prima. Fu invece
un bene che lo Sme fosse già operativo, consentendo di orientare,
nella convergenza e nella cooperazione, le reazioni dei Paesi comunitari
alla crisi che seguì.
L'augurio di oggi, proprio alla luce di quell'esperienza, è
che anche nel caso deprecabile di una crisi di qualsivoglia natura,
non si rinvii, per timore di essa, la realizzazione di iniziative
da tempo concepite e di progetti già ben definiti. Sul piano
istituzionale e su quello operativo, quelle iniziative consentiranno
di meglio governare i problemi di fondo dell'economia europea, entro
e fuori la Comunità, e di contribuire più efficacemente
all'ordinato progresso delle relazioni economiche mondiali.