§ Calvinismo e capitalismo

Un figlio dei mercatores del '300




Gianni Vigevani



Da qualche tempo si stanno sviluppando critiche demolitrici della teoria marxiana dell'accumulazione originaria e della teoria weberiana del calvinismo quale progenitore dello spirito capitalistico. Le due teorie, tuttavia, continuano a dominare il dibattito sulle origini del capitalismo, anche se sono ritenute tanto celebri quanto inadeguate. Perché? Perché, si dice, non solo non aiutano minimamente a chiarire il mistero delle origini del capitalismo, ma mettono addirittura fuori strada. Per esempio, se si accetta l'ipotesi dell'accumulazione originaria, si deve per forza di cose concludere che le società a più alta concentrazione dei mezzi di produzione sono quelle meglio attrezzate per imboccare la via dello sviluppo capitalistico. Infatti, per accumulazione originaria Marx intende l'espropriazione dei liberi produttori e la dicotomizzazione della struttura di classe; quindi, l'accumulazione originaria non è un processo economico, ma un processo politico caratterizzato dall'intervento violento dello Stato e finalizzato alla creazione delle condizioni dell'accumulazione vera e propria. Ma tutto ciò è manifestamente contrario all'evidenza storica. I Paesi che si sono messi alla testa del convoglio capitalistico sono stati quelli nei quali la distribuzione della proprietà era abbastanza diffusa. La comparazione fra la Spagna e l'Inghilterra del '500 dimostra ciò in maniera palmare, così come lo mostra il confronto fra le colonie ispano-americane e quelle anglo-americane.
L'obiezione che si può fare è questa: l'Inghilterra, proprio nel XVI secolo, non fu il teatro di quel processo di espropriazione che va sotto il nome di enclosures? In effetti, queste ci furono, ma oggi si scopre che ebbero ben poco a che vedere con l'accumulazione originaria. Prima di tutto, non avvennero attraverso l'intervento violento dello Stato; anzi, lo Stato cercò di proteggere i contadini poveri e di combattere gli abusi. Poi, non generarono una società polarizzata, ma un'ampia classe media. E si aggiunga che, sebbene da oltre un secolo i marxisti giurino sulla centralità del processo di accumulazione originaria nella formazione storica del modo di produzione capitalistico, non esiste una sola monografia che corrobori la loro convinzione. L'accumulazione originaria è un vero e proprio oggetto misterioso, come i buchi neri: ci dovrebbe essere -perché così postula il marxismo, col preciso intento di dimostrare che le mani della borghesia sono sporche - ma nessuno è riuscito a mostrarla. Né Dobb, né Mandel, né Wallerstein. il che spiega perché alcuni studiosi marxisti l'hanno surrettiziamente sostituita con il saccheggio del Terzo Mondo. La loro tesi è che il decollo economico dell'Europa è stato reso possibile dallo sfruttamento delle colonie. Una tesi assurda, che confonde l'effetto con la causa. L'imperialismo coloniale europeo non spiega il capitalismo, bensì, tutto il contrario, è il capitalismo che spiega lo straripamento planetario dell'Europa. il Vecchio Continente ha soggiogato il mondo intero perché, prima della creazione dei grandi imperi coloniali, aveva ideato un modo di produzione dinamico e autopropulsivo e aveva accumulato uno stock di risorse tecniche, scientifiche ed economiche tale da conferirgli una netta superiorità in tutti i campi.
D'altra parte, se si riuscisse a dimostrare che il capitalismo fu generato dalla violenza di Stato, si dovrà per forza di cose giungere alla conclusione che non è affatto vero che - come credevano Marx ed Engels e come continuano a reiterare i marxisti - i fattori economici sono quelli determinanti in ultima istanza; determinanti sono i fattori politici. Ed è proprio quest'ultima proposizione l'ipotesi di metodo sulla quale si costruisce il nuovo discorso sulla genesi del capitalismo.
Quello che ha scritto Weber nella sua celebre opera L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ha anch'esso poco a che vedere con la realtà storica. La Riforma in tutte le sue manifestazioni settarie fu un violento attacco contro lo spirito acquisitivo, e un disperato tentativo di strozzare nella culla la borghesia imprenditoriale; insomma, una vera e propria chiamata alle armi contro Mammona e contro la ragione. A questa conclusione sono giunti alcuni studiosi, dopo che si sono tuffati nella lettura dei teologi protestanti. Non solo Lutero, ma anche Calvino, Bunyan, Baxter e Wesley non fecero altro che cercare di restaurare la piena vigenza dei principii etici del cristianesimo medioevale, antitetici allo spirito del capitalismo, radicalmente ostili all'accumulazione della ricchezza, al traffico del denaro e a tutti i valori mondani. Se il loro programma fondamentalistico fosse stato coronato da successo, l'Europa sarebbe stata bloccata nella sua marcia verso la moderna società di mercato.
C'è, fra l'altro, chi trova sconcertante (come Pellicani) la fama di cui gode Weber per un libro "le cui tesi contraddicono tutto ciò che sappiamo sulla Riforma, il capitalismo e le condizioni essenziali dello sviluppo economico. Tanto più che lo stesso Weber nella Storia economica e sociale dell'antichità aveva formulato una ipotesi esplicativa di diverso tenore e, precisamente, aveva avanzato l'idea che c'era incompatibilità strutturale fra lo Stato burocraticomanageriale e il capitalismo. Ma questa ipotesi, salvo rare eccezioni - per esempio, Jean Baechler, autore di una monografia importante quanto sottovalutata sulle origini del capitalismo - è stata inspiegabilmente trascurata". Allora, èsufficiente tener presente che il capitalismo, a rigore, non è altro che l'economia "liberata", messa in condizione di funzionare secondo le sue leggi interne, che sono quelle del mercato, per rendersi conto che la variabile decisiva è lo Stato: solo a condizione che questo sia debole o "permissivo", la borghesia imprenditoriale può compiere quella che Marx ha definito la "rivoluzione permanente capitalistica".
D'altra parte, è un fatto che i Paesi nei quali la Riforma ha avuto successo hanno preso il sopravvento sui Paesi cattolici e hanno dimostrato un dinamismo economico di gran lunga superiore. Come si può escludere un nesso di causalità fra la formazione di due Europe e il cristianesimo protestante? In effetti, quel nesso esiste, affermano alcuni studiosi: ma va cercato nella Controriforma, non già nello spirito della Riforma. Per soffocare le eresie protestanti, che minacciavano l'esistenza stessa della Chiesa, la Curia romana si militarizzò e adottò una politica totalitaria. Con l'appoggio della Spagna, assurta al rango di grande potenza economica grazie all'argento americano, riuscì nel suo intento, ma simultaneamente soffocò lo spirito imprenditoriale e la libera ricerca scientifica. La conseguenza fu che i Paesi sottoposti al suo controllo politico-ideologico furono come ingabbiati entro le rigide strutture di un apparato burocratico-inquisitoriale e il capitalismo deperì.
In particolare, l'Italia, che per secoli era stata all'avanguardia nella marcia verso la modernità, scivolò nella famiglia dei Paesi sottosviluppati. Fu una catastrofe di proporzioni storiche, l'inizio di secoli di decadenza e di paralisi della creatività in tutti i campi, da quello economico a quello scientifico e tecnologico. Per contro, Paesi come l'Olanda e l'Inghilterra, grazie all'istituzionalizzazione del principio di tolleranza, crearono un'economia molto dinamica o, più precisamente, continuarono nella loro marcia verso la moderna società industriale. Oltretutto, c'è un altro mito che resiste con tenacia: il calvinismo non fu progenitore del liberalismo, come fra gli altri pensava Rodolfo Omodeo. Al contrario fu una religione ferocemente intollerante. Calvino fece di Ginevra un convento militarizzato, dove non c'era alcuno spazio per la libertà di pensiero come per la libertà imprenditoriale. Non meno intolleranti furono, di regola, i suoi seguaci olandesi, scozzesi e inglesi. Se la tolleranza alla fine trionfò in Olanda e in Inghilterra, fu per ragioni che non erano inerenti al credo calvinista. Accadde che i seguaci di Calvino non riuscirono ad imporre il loro credo come religione di Stato, in quanto erano privi di adeguato apparato burocratico e, quindi, non poterono impedire la proliferazione delle sette. In una tale situazione, solo una politica di tolleranza poteva impedire lo scatenamento delle guerre di religione. insomma, la tolleranza nei Paesi protestanti fu istituita non per ragioni di principio, ma per ragioni di opportunità pratica e per l'impossibilità materiale che una delle sette riformate potesse liquidare le concorrenti ricorrendo, come fece la Chiesa cattolica, alla violenza di Stato. Il caso delle colonie angloamericane, al riguardo, è esemplare. L'america liberale e capitalista perché puritana non è nient'altro che un mito costruito da una storiografia disattenta o eccessivamente dominata da preoccupazioni ideologiche; l'America fu liberale e capitalista perché visse per secoli senza uno Stato, in una situazione molto simile a quella in cui avevano operato i Comuni medioevali.
Le conseguenze della Riforma, dunque, furono dei tutto diverse dalle intenzioni dei teologi riformati. In effetti, ci troviamo di fronte a uno dei più spettacolari esempi di "paradosso delle conseguenze". La Riforma, nata per restaurare lo spirito originario del Cristianesimo (corrotto dall'invadente spirito capitalistico e dall'incipiente secolarizzazione culturale) e per sottoporre la vita economica ai precetti evangelici, essendosi frantumata in una serie di sette in permanente conflitto fra di loro, fin, per creare una situazione caratterizzata da un ampio pluralismo ideologico e, quindi, per agevolare le forze contro le quali era scesa in campo: anziché uccidere Mammona e la ragione, come era sua intenzione, essa ne rese possibile l'ulteriore sviluppo, indebolendo il carattere confessionale dello Stato.
Nello stesso tempo, la Controriforma costrinse gli intellettuali e gli imprenditori ad emigrare dal Sud verso il Nord e, così operando, arricchì i Paesi protestanti di un prezioso capitale umano che molto contribuì all'ulteriore sviluppo economico di questi ultimi. Uno sguardo alle vicende che interessarono il Belgio e i Paesi Bassi mostra con chiarezza solare il ruolo distruttivo del capitalismo svolto dalla Controriforma: il Belgio, che per secoli era stato una delle regioni economicamente più sviluppate d'Europa, sotto la cappa totalitaria della chiesa controriformistica deperì, nello stesso momento in cui I' Olanda diventava la "scuola d'Europa" in tutti i campi. E' interessante notare che buona parte degli imprenditori che nel Seicento operarono in Olanda erano belgi costretti all'emigrazione per sfuggire all'Inquisizione.
Ma allora, quali sono state le determinanti del processo di formazione dell'economia capitalistica? La risposta a questo interrogativo si può trovare, per quanto la cosa possa apparire strana, proprio negli scritti di Marx e di Weber. Ad essi si deve la geniale intuizione che la genesi del capitalismo non può essere spiegata fino a quando non si compie un'analisi storico-sociologica in chiave comparata. Occorre fare un confronto sistematico fra le strutture della civiltà europea e quelle delle civiltà orientali. Allora risulterà trasparente la causa fondamentale del diversificarsi dei rispettivi sviluppi storici. Decisiva, una volta che si compie una tale analisi - cosa che Marx e Weber fecero in maniera efficace, anche se senza la dovuta sistematicità e senza trarne le dovute conseguenze - risulta essere la struttura del Potere. In Oriente l'economia di mercato non poté svilupparsi perché era prigioniera dello Stato dispotico, una forma di dominio che l'Europa ebbe la fortuna di sperimentare solo per un paio di secoli, all'epoca del tardo Impero Romano. Il dispotismo orientale, proprio in quanto era una forma di dominio arbitrario con una spiccata vocazione al dirigismo economico, distrusse sistematicamente le condizioni dello sviluppo capitalistico attraverso l'istituzione di monopoli strategici, di controllo burocratico del commercio e della produzione, i prestiti forzosi e le requisizioni. La proprietà privata, base indispensabile del capitalismo, era estremamente insicura e la borghesia era priva di potere politico. La certezza del diritto era cosa completamente sconosciuta e la discrezionalità del governo assoluta. Mancavano contro-poteri, vale a dire forze sociali, economiche o religiose organizzate e per ciò capaci di contrastare la volontà dispotica dei governanti. Per tutte queste ragioni i Paesi orientali, con la sola eccezione del Giappone, conobbero solo un'economia di mercato asfittica. Il dispotismo creò una "gabbia burocratica" e in essa imprigionò le economie dei Paesi orientali, le quali non poterono svilupparsi liberamente. Il capitalismo è - si è detto - economia "liberata", che cresce su se stessa fino a diventare autopropulsiva. La Megamacchina burocratico-manageriale impedì la crescita autonoma dell'economia di mercato e la sua metamorfosi espansiva. In particolare, il dispotismo impedì la formazione di città autonome. Le città, in Oriente, furono sempre e quasi esclusivamente l'espressione del Potere burocratico, sicché la società civile non poté crescere e creare quel robusto sistema di fortezze e casematte in cui Gramsci ha giustamente visto lo specifico sociologico della civiltà euro-occidentale.
Furono, per l'appunto, le città autonome, i liberi Comuni medioevali che dinamizzarono l'economia europea, iniettando in essa gli elementi essenziali del capitalismo: la libera iniziativa, la ricerca professionale del profitto, l'accumulazione del capitale, la dilatazione progressiva del commercio e della produzione manifatturiera. Tutto ciò poté avvenire proprio in quanto le città europee si sottrassero, armi in pugno, al dominio feudale; e lo poterono fare perché tale dominio, a differenza del dispotismo orientale, non aveva le risorse per controllare la società e impedire la sua autonomizzazione.
L'Europa feudale fu una società senza Stato, nella quale le giurisdizioni potestative erano numerosissime e incredibilmente frammentate; una società nella quale, in aggiunta, il potere temporale e il potere spirituale duellarono per secoli, con il risultato di paralizzarsi reciprocamente e di offrire ai borghigiani la chance di conquistare, attraverso lotte accanite durate decenni, la libertas. Accadde così che l'Europa feudale si riempì di oasi non-feudali, di centri politico-economici - i liberi Comuni - nei quali la protoborghesia poté sperimentare forme di vita, istituzioni e tecniche di produzione e di commercio che contenevano i germi del capitalismo industriale.
Occorre, quindi, retrodatare la genesi del capitalismo. Tutti i grandi medievisti del nostro secolo, da Pirenne a Le Goff, da Sapori a Melis, hanno minuziosamente documentato che già nel Trecento, in Europa, e in particolare nell'Italia centro-settentrionale, si era formato il primo abbozzo di una economia-mondo con caratteri nettamente capitalistici. Coloro che negano ciò, chiudono gli occhi di fronte all'evidenza storica. Alcuni dei principali strumenti del capitalismo moderno - la banca, la partita doppia, l'impresa, la lettera di cambio, la società a responsabilità limitata e quella a responsabilità illimitata, e via dicendo -erano stati creati dai mercatores: essi sono stati i progenitori del capitalismo quale noi lo conosciamo e del suo specifico spirito, uno spirito che non è stato generato dal calvinismo, come riteneva Weber (al quale si deve uno dei più grandi equivoci dell'intera letteratura storico-sociologica), bensì del capitalismo medesimo, che è sistema capace di autogenerarsi spontaneamente, purché non sia paralizzato dal Potere e sia messo in condizioni di operare secondo la sua intima logica.
Questo lo aveva capito perfettamente il suo più grande nemico, Lenin, il quale ideò il metodo più efficace per impedire la crescita del capitalismo: l'espropriazione totale della società civile e la creazione di uno Stato che, grazie al monopolio del potere politico, economico e spirituale, vigila affinché il capitalismo non risorga dalle sue ceneri attraverso il libero commercio. In altre parole, Lenin capì che il capitalismo tendeva ad autogenerarsi spontaneamente, e che, per impedirgli di trionfare, era imperativo instaurare una forma di dominio totalitario. In questo senso aveva perfettamente ragione Wittfogel quando definiva il comunismo una "restaurazione asiatica". C'è solo un modo per impedire la nascita o la rinascita del capitalismo: distruggere l'autonomia della società civile, radere al suolo ogni forma di libertà, da quella politica a quella economica e intellettuale.
E in ultima analisi, il più grande elogio del capitalismo lo ha fatto proprio Marx, quando lo ha definito una "rivoluzione permanente". In effetti il capitalismo ha compiuto autentici miracoli in tutti i campi e ha stimolato prodigiosamente la creatività umana. Non solo: ha reso possibile il passaggio dalla società chiusa alla società aperta, ha messo in moto la macchina della modernizzazione e ha alimentato il processo di secolarizzazione culturale. L'individualismo, il razionalismo, lo Stato di diritto, la democrazia rappresentativa, il pluralismo, sono tutte cose figlie della crescita della società civile e questa, a sua volta, della rivoluzione industriale e della sua formidabile potenza creativo-distruttiva. Ma, nello stesso tempo, il capitalismo è stato e continua ad essere un inquietante processo di mercatizzazione universale, un generatore di anomia e di alienazione, nonché di sfruttamento e di ingiustizie sociali. La sua istituzione centrale, il mercato autoregolato, è amorale: conosce solo ed esclusivamente la legge del profitto, dei più adatto a partecipare con successo al gioco della catallassi. Insomma, è il trionfo dell'egoismo e, come tale, può essere un attentato permanente alla solidarietà sociale. In aggiunta, proclama l'uguaglianza di tutti, ma poi, di fatto, può funzionare solo sulla base della distinzione fra coloro che hanno il controllo del capitale e coloro che, non avendo altre risorse, devono vendere la loro forza-lavoro sul mercato e devono sottostare al potere di comando dei primi. Su questo specifico punto l'analisi di Marx resta insuperata, anche se la terapia - la sostituzione del mercato con il piano unico di produzione e di distribuzione - è quanto di più reazionario si possa immaginare.
Le reazioni contro la "civiltà dell'avere" sono dunque scaturite da precise e insopprimibili ragioni etiche, che restano tuttora valide, anche se èindubbio che, grazie all'istituzionalizzazione del compromesso fra Stato e mercato (si veda l'esempio delle socialdemocrazie scandinave), non pochi aspetti sgradevoli del capitalismo sono stati eliminati o mitigati. In questo senso, si deve essere d'accordo con Richard Crossman, quando dice che la socialdemocrazia "ha incivilito il capitalismo"; il quale ha certamente dato molto all'umanità occidentale (l'ha fatta uscire dalla penuria. e dal duro dominio feudale), ma ha anche prodotto nuove forme di barbarie in quanto è un sistema naturalmente aggressivo, che tende spontaneamente a trasformare il mondo intero in un gigantesco sistema merceologico, dove tutto diventa oggetto di traffico e di compravendita. Tutte cose, queste, che i partigiani del laissez faire non vogliono percepire; e che rendono tuttora attuale il progetto di disciplinare la rivoluzione permanente capitalistica e di rettificare, attraverso lo Stato sociale, l'allocazione via mercato delle chances di vita.

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