§ Artigianato & servizi

Mezzogiorno lillipuziano




M.C.M., F.A., A.F.



Lo scarto è nettissimo: più di quattro quinti da una parte, meno di un quinto dall'altra. Anche nell'artigianato, come e più che negli altri settori dell'economia, la più gran parte del reddito si produce nel Centro-Nord; e il Mezzogiorno si limita a contribuire alla formazione della ricchezza nazionale con una quota più che modesta. E' quanto risulta da un'indagine dell'Unioncamere, commissionata dall'Istituto Guglielmo Tagliacarne.
Premesso che in Italia il peso dell'artigianato è più elevato rispetto ad altri Paesi della Comunità europea, (da noi rappresenta il 12 per cento del prodotto interno lordo; in Germania il 9 per cento; in Francia il 5,3 per cento), e che negli ultimi anni ha continuato a crescere ad un ritmo sostenuto (fra il 1985 e il 1988 il valore aggiunto del comparto si è incrementato del 29,5 per cento), l'indagine sottolinea quel dualismo territoriale che è reso drammaticamente evidente da due cifre: nel 1988 (che è l'anno sul quale è stata condotta la ricerca), le regioni settentrionali e quelle centrali hanno contribuito per l'82 per cento al reddito prodotto dall'artigianato in tutta Italia, mentre quelle meridionali vi hanno contribuito per il 18 per cento.
Un'analisi più approfondita smorza un poco l'impatto di uno squilibrio di tali dimensioni, ma non riesce ad annullarlo. L'artigianato di produzione, che è quello che rende di più in termini di reddito, è più concentrato nel Centro-Nord rispetto a quello dei servizi (si tratta rispettivamente dell'85 e dell'80 per cento sul totale nazionale), mentre nelle regioni meridionali è il secondo ad avere una presenza più intensa (il 20 contro il 15 per cento).
Nonostante questo svantaggio, però, negli ultimi anni il reddito prodotto dall'artigianato nel Mezzogiorno è cresciuto un po' più rapidamente che nel resto del Paese (del 9,6 per cento fra l'87 e l'88, contro il 9,2 per cento nel Centro-Nord). Un pallido segnale positivo per il Sud, dunque; che tuttavia ha un valore soprattutto simbolico, dal momento che in termini assoluti lo scarto di partenza è enorme.
Tanto per fare un esempio: in Lombardia, nell'anno considerato, il reddito dell'artigianato ha superato i 27 mila miliardi di lire; in Puglia (che sotto questo profilo è la regione più avanzata del Mezzogiorno) si è fermato a 5.500 miliardi; in Campania ha sfiorato i 5.000 miliardi; per non parlare poi della Basilicata e del Molise, dove è rimasto abbondantemente sotto i 1.000 miliardi.
E però, se si considera che il prodotto interno lordo complessivo cresce nel Mezzogiorno a un ritmo molto più lento che nel resto del Paese (fra l'87 e l'88 l'incremento, non depurato dall'inflazione, è stato dell'8,5 per cento, mentre nelle regioni del Centro-Nord è arrivato al 10,2 per cento) la conclusione è, come osserva l'Istituto Tagliacarne, che nel Sud "la microimpresa ha rafforzato il proprio ruolo". Anche se restano i problemi di "tenuta complessiva di questo sistema di fronte all'allargamento dei mercati".
Se questo è il quadro che si delinea dal confronto fra le due grandi aree del Paese, una lettura attenta dei dati contenuti nell'indagine consente di individuare alcune particolarità che aiutano a completare il ritratto più dettagliato del comparto. Un ritratto che conferma alcune indicazioni già note. Come, ad esempio, quella della vitalità della dorsale adriatica. Con Ascoli Piceno che si colloca al primo posto fra le province italiane per incidenza del valore aggiunto dell'artigianato su quello complessivo (21,5 per cento); e con, al Sud, due province in buona posizione di classifica (Teramo è al settimo posto con il 18,8 per cento, e Pescara al 23esimo con un buon 15,8 per cento).
Ma nella stragrande maggioranza delle province meridionali (ventotto su trentaquattro) l'incidenza del valore aggiunto artigiano su quello totale è più bassa della media italiana. Oltre a Teramo e a Pescara, infatti, superano il valore medio soltanto Nuoro, Lecce, Potenza e Bari; mentre tutte le altre restano al di sotto, con Napoli che regge il fanalino di coda, con appena il 5,7 per cento.
Quest'ultimo è un dato che l'indagine si limita a registrare senza chiedersene la ragione. Gli esperti però abbozzano un'interpretazione che ha due facce: una positiva e una negativa. Il punto di partenza di questa analisi è che in realtà, a Napoli, esiste un tessuto abbastanza ricco di imprese artigianali, ma che esso non compare nell'indagine perché è in un modo o nell'altro "sommerso". E la conclusione positiva è che nella più grande città del Mezzogiorno comunque l'artigianato prospera; mentre quella negativa è che questa vitalità si esprime al di fuori di ogni regola e di ogni garanzia: non è vero forse che Napoli, insieme con il suo hinterland, è una delle capitali mondiali della falsificazione?
Questo "sommerso" napoletano, però, sia pure lentamente incomincia ad emergere. Nella graduatoria delle province italiane costruita sui dati di crescita (negli anni considerati) del peso del reddito prodotto dall'artigianato in rapporto a quello totale (anche qui i tassi non sono depurati dall'inflazione), Napoli occupa infatti il cinquantaduesimo posto; e si avvicina, pur rimanendone ancora al di sotto, alla media nazionale.
La sorpresa, in questa classifica, è costituita da altre province, tutte campane. Da Benevento, che, con un incremento di ben il 44,8 per cento in tre anni, occupa la prima posizione nella regione, ad Avellino, nona con il 36,7 per cento; da Salerno, decima con il 36,6 per cento, a Caserta, dodicesima con il 35,9 per cento. Valori troppo elevati per essere considerati solo ed esclusivamente frutto dell'"emersione" del cosiddetto "sommerso". Si può pensare allora, qui e altrove nel Mezzogiorno, a un tessuto imprenditoriale lillipuziano rispetto al resto del Paese, e tuttavia in fase di sviluppo fortemente accelerato? Pare di sì. Ma senza dimenticare che si parte sostanzialmente da cifre che, in valori assoluti, restano comunque molto basse.
Si è detto, infatti, del primato di Benevento, dove in tre anni il reddito artigiano è cresciuto di circa la metà. Ma partendo da 230 miliardi. Che sono poco più di un'inezia rispetto agli oltre due mila miliardi di città e hinterlands come quelli di Vicenza o di Modena, che concentrano fino a quattrocento aziende artigiane nel giro di due chilometri quadrati; o rispetto ai mille miliardi di Ascoli Piceno. Cifre che confermano quanto sia lunga, anche per quel che riguarda l'artigianato, la strada che deve ancora percorrere il Mezzogiorno.
Nelle regioni meridionali, nelle quali praticamente manca il tessuto connettivo dell'artigianato di produzione perché non ci sono le grandi aziende che lo alimentino, la strada maestra è in primo luogo quella dello sviluppo del turismo che, a sua volta, genera l'artigianato dei servizi: solo così - secondo il presidente della Confartigianato, Ivano Spallanzani - sarà possibile ridurre l'enorme divario fra il Mezzogiorno e il Centro-Nord anche in questo comparto dell'economia. Secondo Spallanzani, c'è da premettere che l'indagine dell'Istituto Tagliacarne tiene conto del reddito: e si sa che l'artigianato di produzione (che si è attestato in modo particolare nel Centro e nel Nord) genera più ricchezza di quello dei servizi (più diffuso nelle aree meridionali). Questo significa che quel divario, se si guarda invece al numero di aziende e a quello degli occupati, è meno elevato di quello che emerge se ci si riferisce al reddito prodotto. Il quale reddito può anche essere stato calcolato in funzione delle cifre ufficiali, alle quali sfuggono, ad esempio, evasioni ed elusioni fiscali. Certo, lo scarto esiste, nessuno può negarlo. Lo squilibrio sottolineato dall'indagine non è che una delle tante facce del ritardo delle regioni meridionali. Non va dimenticato che l'artigianato, soprattutto quello di produzione, si sviluppa velocemente e cresce là dove esiste un sistema industriale forte: esso è, nei fatti, un sistema indotto. Ed è noto a chiunque che il sistema industriale del Mezzogiorno è tutt'altro che forte. Si rafforzerà nei prossimi anni con la "sfida Fiat", che porterà due nuovi impianti nel Sud, e che produrrà indotto e occupazione in Campania e in Basilicata. Ma crescerà, soprattutto, se si prenderanno iniziative locali. Del resto, la stessa indagine rileva che il reddito prodotto nel Mezzogiorno sta crescendo, sia pure di poco, più velocemente che nel resto del Paese. Però non possiamo non tener presente l'handicap storico delle regioni meridionali: la carenza di infrastrutture, la distanza non solo dai mercati di vendita ma anche dalle aziende che forniscono gli strumenti e i semilavorati indispensabili per la produzione, il costo più elevato del credito, l'inefficienza della pubblica amministrazione, il peso del degrado sociale e quello - micidiale e condizionante - della criminalità organizzata.
Secondo Spallanzani, sembra inutile inseguire i vecchi sogni dell'industrializzazione; né si può fare esclusivo affidamento sulla politica dell'intervento straordinario, che già tante storture ha creato nelle regioni meridionali. Bisogna prendere atto, allora, del fatto che al Sud non si può puntare sull'artigianato di produzione tout court. Ma si può e si deve tendere principalmente allo sviluppo di quello dei servizi. Non con politiche assistenziali, ma con politiche di agevolazioni. E soprattutto scommettendo seriamente su un turismo di qualità, che può costituire il volano per il rilancio dell'artigianato meridionale.

Troppi soldi al Sud?

Non è vero che il Sud succhia allo Stato più denaro del dovuto. Anzi, le risorse che gli sono inviate risultano insufficienti per mettere in moto lo sviluppo. Una prima risposta alla polemica sollevata dalle Leghe viene dalla Corte dei Conti (trecento pagine documentate), su richiesta della Commissione Bilancio del Senato.
Da quarant'anni lo Stato cerca di ridurre il divario tra il Nord e il Sud attraverso interventi speciali: prima con la Cassa per il Mezzogiorno, dal 1950 al 1984; poi con la legge 64, dal 1986 ad oggi. L'obiettivo non è stato raggiunto: il prodotto pro capite, cioè la ricchezza nazionale prodotta annualmente da un abitante, è al Sud del 56,4% rispetto al Centro-Nord. il reddito di una famiglia meridionale è in media uguale al 63,5% di quello di una famiglia del resto del Paese, e il consumo pro capite al 75,3%. Numeri che fanno concludere, come ha scritto il Censis, che nel Meridione "c'è ricchezza senza sviluppo": il benessere si è diffuso anche da Roma in giù, ma l'apparato produttivo va a rilento.
Perché la politica meridionalistica è fallito? La verità della Corte dei Conti Farà discutere. I magistrati contabili dovevano stabilire se le risorse "ordinarie" sono distribuite in maniera proporzionata tra Centro-Nord e Sud. Se così fosse, l'intervento "straordinario", quello per il quale nell'86 furono stanziati 120 mila miliardi, potrebbe veramente servire a far recuperare terreno al Sud. Ma così non è.
La Corte ha concluso che appena il 30% dei pagamenti complessivi dello Stato sono destinati alle regioni meridionali. Troppo poco, tanto che spesso i soldi assegnati per lo sviluppo vengono dirottati alle esigenze ordinarie di bilancio. Infatti, parte dei 120 mila miliardi assegnati alla legge 64 sono andati in fumo per interventi non direttamente collegati allo sviluppo. Insomma, l'intervento straordinario (quattrini per recuperare lo squilibrio Nord-Sud) non si somma a quello ordinario (normali spese di bilancio, dagli stipendi ai servizi), ma finisce col sostituirlo.
Ha scritto Manin Carabba, uno degli autori della relazione: "Lo sforzo per guidare e orientare, nel Mezzogiorno, il potenziamento delle dotazioni infrastrutturali e l'allargamento della struttura produttivo appare sostenuto dalla spesa ordinaria in modo insufficiente, con un divario notevole fra risultati effettivi e obiettivi posti dalle leggi e dai documenti programmatici. Ne segue che, per la spesa in conto capitale, e segnatamente per quello destinata alla produzione, sembra indubitabile il ruolo in largo misura sostitutivo, di fatto assegnato all'intervento straordinario". La spesa dirottato, come si voleva dimostrare.
I giudici hanno analizzato i bilanci dello stato dal 1987 al 1989 in generale e sotto punti di vista particolari: gli aiuti alle imprese, la spesa sociale; i trasferimenti alle regioni, province e comuni. E hanno anche messo a fuoco il ruolo svolto dagli Enti delle Partecipazioni Statali e dalle Ferrovie dello Stato. La legge stabilisce che almeno il 40% delle spese che lo Stato fa per investimenti deve andare nel Mezzogiorno. Questa "riserva" non è applicato. Al Sud va, infatti, solo il 30% e la quota diventa "molto inferiore" per le "spese concernenti investimenti ad alta tecnologia". Bassi anche i sostegni alle attività produttive: 23,2% del totale nell'87; 22,2% nell'88; 14,8%, addirittura, nell'89. La spesa sociale, in particolare pensioni sociali e assegni di invalidità e a favore delle categorie protette, raggiunge invece nel Sud circa il 40%.
E la Corte sottolinea che i soldi non si spendono per lo sviluppo, ma per "fini di integrazione dei redditi delle famiglie o di assistenza". I trasferimenti agli Enti locali sono pari al 35-40%, nel triennio '87-'89.
Delle Partecipazioni Statali abbiamo già trattato. Le Ferrovie: destineranno al "potenziamento e ammodernamento" delle disastrate linee meridionali meno di 5.000 miliardi, mentre 6.671 andranno al solo Nord. La Corte dà un suggerimento al governo: crei un "codice" da mettere vicino ad ogni spesa iscritta in Bilancio. Il numeretto dovrebbe servire a identificare a quale regione finisce quella spesa. Sarebbe tutto più facile. E più chiaro.


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