Il
riconoscimento, da parte del Consiglio delle Comunità europee,
del ruolo delle piccole e medie aziende come elemento essenziale per
il rafforzamento dell'economia della Cee e ai fini di un concreto sviluppo
industriale delle zone depresse e della creazione di posti di lavoro
induce ad alcune considerazioni su quanto sta avvenendo per il Mezzogiorno.
La prima considerazione sorge dalla constatazione del perdurare della
fase di stallo che, ormai da almeno otto anni, subisce l'Intervento
straordinario; una seconda, dal senso di impotenza a spezzare l'assedio,
anche psicologico, che rischia di immobilizzare le imprese del Meridione,
impedendone la crescita; una terza, dalla impossibilità di allargare
la base produttiva mediante nuovi insediamenti; una quarta, dalla domanda
di come il Mezzogiorno potrà entrare a pieno titolo nell'Europa
del '93; una quinta, dalla domanda di come tutta l'economia italiana
potrà competere con il resto d'Europa se dovrà trascinarsi
il peso di un Mezzogiorno che consuma più di quanto produce.
E potremmo continuare all'infinito.
Lo stallo dell'Intervento straordinario ebbe inizio nella metà
degli anni '70 e ha consentito il permanere di un insufficiente capitale
produttivo a fronte delle forze di lavoro esistenti nelle aree meridionali.
Ciò ha determinato quel tasso di disoccupazione che oggi sfiora
il 20% della forza di lavoro, rappresentando il 50% di tutta la disoccupazione
nazionale, Sarebbe stato necessario, difatti, dotare il territorio di
strutture fisiche, di Istituti di ricerca, di scuole di formazione,
volti a realizzare quella parità di opportunità fra Centro-Nord
e Sud, che rendesse indifferente la localizzazione di unità produttive
nell'una o nell'altra delle aree del Paese. Ma non si è fatto
nulla, o quasi. Occorreva anche rimuovere gli ostacoli rappresentati
dalla incapacità delle istituzioni pubbliche ad affrontare la
straordinarietà dell'Intervento. Ma non si è fatto nulla.
Sarebbe stato indispensabile, poi, guardare alle nuove frontiere, che
propongono la completa attuazione dell'unificazione europea, impegnarsi
ed affrettarsi a rendere agevole e generalizzata l'auspicata crescita
delle piccole e medie imprese che costituiscono l'unico vero tessuto
produttivo del Sud. Occorreva intervenire su tutti gli aspetti gestionali
della formazione, del credito, della finanza, fiscali, contributivi,
sindacali, della prestazione di servizi alle imprese. E non si è
fatto che poco o nulla. Si è giunti, semmai, a sottrarre all'Intervento
straordinario migliaia di miliardi, giustificando questo scippo con
l'incapacità dei meridionali a spenderli. Si sarebbe dovuto,
invece, magari con leggi speciali, costringere le amministrazioni pubbliche
all'obbligo di investire, per realizzare con ogni fretta sufficienti
presupposti allo sviluppo.
Si dice che il sistema industriale italiano è preparato alla
sfida degli anni successivi al '93. Ma nessuno ha indicato come si potrà
affrontare questa sfida tirandosi dietro il Sud, un terzo cioè
del territorio nazionale, con oltre un terzo della popolazione italiana,
economicamente e socialmente disarticolato, tutt'ora Sottosviluppato
e con un pauroso e costante tasso di disoccupazione. E questo nonostante,
come ha sostenuto tempo fa Gianni De Michelis, siano stati spesi - tra
il '72 e l'87 - ben 102 mila miliardi: cioè, preciso io, 6.800
miliardi in media all'anno. Ma De Michelis non ha detto, forse per non
ridurre l'effetto della sua precisazione anti-meridionalistica, quanti
di questi miliardi abbia bruciato l'industria di Stato e di quanto all'anno,
per tale via, si sia ridotta nello stesso arco di tempo la spesa ordinaria.
Il nostro Paese non può quindi esimersi - come invece sta avvenendo
- dal realizzare quelle condizioni ottimali, volte alla loro complessiva
modernizzazione del sistema economico. Né può sottrarsi
all'imperativo di creare oggi, e non nel '92, l'ambiente necessario
per favorire il processo spontaneo di creazione di nuove imprese. C'è
da augurarsi, nelle condizioni attuali, che i pubblici amministratori
e gli imprenditori tutti compiano un atto di fede nella politica di
sostegno allo sviluppo voluta dalla Comunità europea e che sappiano
guardare con lungimiranza alle possibilità loro offerte, come
fino ad oggi non hanno fatto.
Economie assistite
Ma il Nord
si fa più ricco
L'andamento sempre
più in rosso dei conti pubblici nel nostro Paese e l'incapacità
fino ad ora dimostrata dai governi di porre sotto controllo l'andamento
dei disavanzo inducono tutti ad interrogarsi sui mali della nostra
finanza pubblica e a ricercarne le cause. Una di queste viene individuata
nella politica che lo Stato persegue per il Mezzogiorno, con un consistente
drenaggio di risorse finanziarie a favore dei territori meridionali
attraverso l'intervento straordinario. Va ricordato, ammesso che ce
ne fosse ancora bisogno, che questa politica pubblica straordinaria
e aggiuntiva avrebbe dovuto perseguire l'obiettivo di colmare, o per
lo meno di attenuare, il divario di sviluppo tra il Sud e il resto
dei Paese, misurato attraverso un indicatore tuttora ritenuto valido,
e che è il reddito per abitante. Ma è fin troppo noto
che questo divario non solo non è diminuito, ma da alcuni anni
ha ripreso ad aumentare, con buona pace per la politica pubblica a
favore dei Mezzogiorno.
Di fronte a questi non positivi risultati sono in molti che cominciano
a chiedersi se, al di là delle disposizioni legislative e programmatiche,
ci sia stata effettivamente una quota relativamente più elevata
di spesa pubblica per il Sud ed eventualmente dove questa spesa sia
andata a finire.
Un fatto certo è che questa spesa pubblica non è andata
a vantaggio delle popolazioni meridionali, almeno in termini di quantità
e qualità dei servizi pubblici erogati. Poiché mancano
dati sulle erogazioni effettive dei settore pubblico per regioni e
poiché la legislazione di spesa ha sempre mirato a favorire
il Mezzogiorno, almeno nelle intenzioni, è opinione diffusa
che al Sud ci sia stato uno spreco enorme di risorse pubbliche, che
la spesa nel Mezzogiorno sia stata solo di tipo assistenziale, che
essa abbia alimentato fenomeni malavitosi, e così via. Indipendentemente
da questa e altre affrettate conclusioni, poiché lo Stato si
"dibatte" tuttora nel ricercare le vere cause della voragine
dei conti pubblici, è opportuno fare chiarezza e cercare di
capire come effettivamente il settore pubblico ha operato per le regioni
meridionali. Va premesso che si tratta di un compito non facile. I
conti pubblici nel nostro Paese sono un labirinto e il filo di Arianna
per poterne uscire non è stato ancora trovato.
Una serie di ricerche condotte in questi anni da Formez, in collaborazione
con l'Istat e col ministero dei Tesoro, finalizzate a promuovere una
conoscenza sistematica dei conti pubblici su base regionale e un miglioramento
dei flussi informativi di finanza pubblica relativi al Meridione,
consente di fare sufficiente luce su questi aspetti e per certi versi
di fare giustizia di troppi luoghi comuni spesso adoperati in maniera
inadeguata. Esse infatti, oltre a mettere a punto una base conoscitiva
inedita sulla quantità e qualità della spesa erogata
dallo Stato nelle venti regioni italiane, forniscono dettagliate indicazioni
sugli effetti economici e sociali prodotti dalla spesa pubblica in
ogni regione. Risulta uno scenario dei ruolo svolto dalla politica
di bilancio dello Stato per il Sud diverso da quello che per anni
si è stati portati a credere. Queste informazioni possono servire
di base per un ripensamento dell'intervento pubblico realmente finalizzato
al recupero dei divario economico dei Sud.
Prima questione. Come spende lo Stato nelle varie regioni italiane
e se spende mediamente di più in quelle meridionali.
Si può affermare con tranquillità che si è ribaltata
una situazione che vedeva nettamente sfavorite le regioni meridionali
nei decenni immediatamente successivi all'Unità. Fatta pari
a 100 la spesa pro capite media nazionale, dalla fine dei secolo scorso
al 1986 il Nord è passato da 131,5 a 72,4, mentre il Sud è
passato da 95,4 a 96,9. Tuttavia, il beneficiario più forte
delle trasformazioni avvenute è stato il Centro, sostanzialmente
Roma. Ma questo spostamento di risorse a favore dei Sud non è
stato così rilevante come si era portati a credere. Non si
notano, infatti, differenze regionali significative nella spesa per
abitante. Le uniche differenze si riscontrano per le regioni di piccole
dimensioni, dove giocano in maniera anche pesante fattori di indivisibilità
degli interventi che spostano verso l'alto i livelli di spesa (Umbria,
Marche, Basilicata e Molise) e per le regioni a statuto speciale.
Per queste ultime, siano localizzate al Sud o al Nord, i livelli di
spesa pro capite sono notevolmente più elevati di quelli delle
altre regioni. Nel dipanare la matassa dei dati a disposizione, si
è a lungo cercata l'esistenza di una politica discriminatoria
attuata dallo Stato nella gestione della spesa. Non è invece
risultata una netta discriminazione tra Nord e Sud. L'unica discriminazione
netta e decisa è tra regioni ordinarie e speciali, quindi di
natura essenzialmente istituzionale. Lo Stato tratta, quindi, Nord
e Sud alla stessa stregua, avendo la sola dimensione demografica come
elemento di differenziazione fra le regioni.
Seconda questione. Come contribuiscono le singole regioni italiane
al finanziamento della spesa pubblica.
In altri termini, qual è l'ammontare di imposte che lo Stato
incassa in ciascuna regione. La distribuzione dei carico fiscale per
regioni non si presta ad equivoci di interpretazione: il peso delle
entrate tributarie e contributive è proporzionale al reddito,
né ci si poteva aspettare diversamente, considerato che il
nostro sistema tributario è progressivo e fondamentalmente
agganciato al reddito. Le regioni più ricche pagano quindi
un importo per abitante di imposte più elevato delle regioni
povere. Le entrate tributarie e contributive pro capite delle regioni
meridionali sono pertanto più basse di quelle delle altre regioni
italiane. Ma sono proporzionali anche le evasioni e le elusioni fiscali.
Terza questione. Quali sono le regioni che beneficiano della politica
di bilancio dello Stato attraverso le operazioni di prelievo e di
spesa pubblica.
La differenza tra entrate prelevate e spese erogate fornisce una misura
di questo beneficio netto regionale. I valori di questo indice per
regione testimoniano che nel complesso il bilancio pubblico opera
in Italia un processo di redistribuzione a livello territoriale abbastanza
elevato, ma non molto incisivo. E' elevato perché la distribuzione
netta dei trasferimento di ricchezza tra le regioni che danno e quelle
che ricevono è rilevante. Diventa non molto incisivo quando
si esaminano invece le direzioni dei trasferimenti. Infatti, sono
solo quattro regioni a finanziare la redistribuzione: la Lombardia,
con un residuo positivo di oltre due milioni di lire per abitante;
il Veneto, con 665 mila lire; l'Emilia-Romagna, con 569 mila lire;
e il Piemonte, con 375 mila lire. Di questo trasferimento di ricchezza
beneficiano però tutte le altre regioni, comprese quelle meridionali
con un più basso livello di reddito, ma comprese anche regioni
come la Valle d'Aosta, il Trentino e il Friuli-Venezia Giulia, che
si collocano ai vertici della graduatoria dei reddito pro capite.
Quarta questione. Quali sono i benefici economici prodotti dalla spesa
pubblica su base regionale.
Questi benefici, calcolati in termini di valore aggiunto e di occupazione,
sono quelli che riservano le più grosse sorprese. Tutte le
regioni meridionali presentano una struttura economica con un elevato
grado di dipendenza dall'esterno; il livello delle importazioni assume
addirittura valori fortemente preoccupanti per la Calabria e per la
Basilicata. La fragilità dell'apparato produttivo locale delle
regioni meridionali finisce in parte per neutralizzare gli effetti,
moltiplicativi prodotti dalla spesa pubblica erogata a livello, appunto,
locale. Questa fragilità è fra l'altro confermata dalla
maggiore dipendenza dei sistemi economici regionali meridionali dal
settore pubblico, tanto che il valore aggiunto della Pubblica amministrazione
supera anche le soglie del 50 per cento contro il 30 per cento del
Centro-Nord t il 37 per cento della media nazionale. Il risultato
di tutto ciò è che le regioni più sviluppate
dei Nord traggono maggiori vantaggi dall'attivazione della spesa pubblica,
in quanto finiscono per importare parte degli effetti da essa prodotti
nelle regioni meridionali.
Tanto per citare alcuni esempi, in Basilicata e in Calabria il valore
aggiunto attivato dalla spesa pubblica in esse erogata è solo
il 68 per cento di quello che la medesima spesa attiva nell'intero
Paese; quindi, il 32 per cento va a beneficio delle altre regioni
e presumibilmente di quelle più sviluppate dei Nord. Dati più
allarmanti si registrano per quanto riguarda l'occupazione.
Un miliardo di lire di spesa pubblica genera un numero di occupati
ad esempio pari a 33 unità in Calabria e a 29 in Basilicata,
ma solo 20 e 17 sono le unità occupazionali attivate all'interno
delle regioni stesse. Lo scarto tra occupazione interna e totale è
pertanto di 13 unità, contro valori che nelle regioni del Nord
non superano mai le 7 unità.
E' opinione di autorevoli economisti che l'economia meridionale sarà
ancora, nel decennio che si è aperto, un'economia assistita
dal settore pubblico e coloro che vorranno eliminare o diminuire il
flusso delle risorse pubbliche che sostengono i consumi dei meridionali
difficilmente riusciranno nel loro intento.
Il ruolo del settore pubblico per lo sviluppo del Mezzogiorno sardi
pertanto ancora determinante e insostituibile. Ma le conclusioni che
si traggono dai dati forniti dovrebbero servire a far sì che
l'autorità pubblica si attrezzi per predisporre gli strumenti
che sono necessari per meglio orientare i propri interventi sul territorio
e favorire una più stretta relazione tra spesa pubblica e sviluppo
economico locale.
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