§ Dalla telaragna al tarantismo

Il mito dell'amore precluso




Eugenio Imbriani



Quando una mattina di giugno del 1959 l'équipe di studiosi guidata da Ernesto De Martino (Napoli 1908 - Roma 1965) partì per Galatina erano già state poste le basi metodologiche, in seguito a complesse discussioni, per tentare una nuova comprensione del fenomeno del tarantismo, che rifuggiva da una lettura di tipo tradizionale, che voleva, cioè, evitare una indagine puramente demologica, di raccolta di tradizioni popolari, di Cui si erano già avuti brillantissimi esempi, per esempio con l'opera di Giuseppe Pitré: l'obiettivo diveniva quello di scrivere un capitolo "di una storia religiosa del Sud come nuova dimensione della questione meridionale e come metodica "messa in causa", attraverso lo scandalo iniziale dell'incontro etnografico, dell'Europa insegnata nelle scuole e appresa dai libri" (l).
Nel 1961 uscì La terra del rimorso che conteneva il risultato di quella ricerca, e destinato a rimanere una sorta di imprescindibile manuale per lo studio del tarantismo. Noi qui vorremmo appunto riprendere il tema della follia delle vergini, trattato da De Martino in questa sua opera, tenendo presente che, anche se è possibile una comparazione con altri fenomeni (operazione che procede per analogie), gli antecedenti che ritroviamo nella religione e nella mitologia dell'antica Grecia non vanno secondo lui intesi come sopravvivenze nelle epoche successive, perché il tarantismo ha una sua forma originale che si manifesta intorno alla metà del Medioevo, e il cui nucleo storico è costituito dal suo rapporto con il Cristianesimo.
Sono numerosissimi i gesti legati alla crisi e alla terapia del morso del ragno nel Salento che ritroviamo nel mondo religioso greco con funzioni essenzialmente analoghe; cominceremo proprio dalla puntura, per sottolineare poi le conseguenze.
Nel Prometeo di Eschilo, Io, punta dal tafano (l'oistros è raffigurato dal poeta come il pungiglione che spinge a una corsa inarrestabile) inviatole da Era, irrompe sulla scena disperata, e racconta la sua vicenda a cui vorrebbe porre fine gettandosi da una roccia; della bellissima vergine figlia di Inaco, sacerdotessa di Era, si innamorò Zeus: questi le mandò di notte delle apparizioni lusingatrici, che la esortavano alle nozze divine e ad abbandonare la verginità, quindi impose a Inaco di cacciarla di casa; la povera fanciulla divenne così facile preda del dio che, poi, per salvarla dalle ire della gelosa consorte, la trasformò in giovenca; ma Era vigilava, e per vendicarsi la tenne prigioniera sotto la custodia di Argo dai cento occhi, e infine, quando questo fu ucciso da Ermes, le mandò un tafano a pungerla: in preda al tormento lo si mette a correre affannosamente senza posa. "Io - scrive De Martino - è vittima di un amore precluso, dell'irresistibile ardore amoroso di Zeus e della implacabile gelosia di Hera, la custode delle giuste nozze: ma il tema dell'amore precluso, dell'eros irresistibile e al tempo stesso impossibile, ha grande importanza fra le motivazioni esistenziali della crisi del tarantismo, soprattutto nelle giovinette che si apprestano a liquidare l'eredità dell'infanzia e a dischiudersi al loro destino di donne" (2); inoltre c'è un'analogia tra il morso del tafano e quello della taranta e, infine, Io arresta la sua corsa in uno scenario arboreo e acquatico, esattamente come accadeva nel corso di più antiche terapie del tarantismo: e ancora nel secolo scorso il rito coreutico spesso si svolgeva nei pressi di un pozzo; Janet Ross, per fare solo un esempio, che visitò la Puglia nel 1888, scriveva: "Pel "tarantismo umido", i musicanti vanno a sedere per lo più vicino a un pozzo, dove la tarantata viene irresistibilmente attratta; e mentre la disgraziata balla, un numero straordinario di parenti e di amici la inondano d'acqua" (3). Torneremo ancora brevemente su questa sorta di annegamento controllato.
De Martino lega, quindi, la crisi del tarantismo al tema dell'amore nel periodo della pubertà e all'oistros e cita in proposito un trattatello pseudoippocrateo sulle malattie delle donne: si tratta del Peri parthenion, su cui ha scritto recentemente V. Andò (4), in cui gli stati di follia che si manifestano nel periodo della pubertà vengono spiegati con il protrarsi della verginità, per cui il matrimonio e la maternità ne costituiscono la terapia; lo, con il suo tormento, la fuga, il desiderio di gettarsi dall'alto è solo una delle eroine che paga lo scotto di un eros precluso; conosciamo testimonianze di crisi collettive di
suicidi di fanciulle che si sono verificate in città dell'antica Grecia. Ma veniamo al mito di Erigone che di tutto ciò rappresenta forse la sintesi più interessante: "la vicenda di Erigone: si impicca - scrive la Andò - per il dolore in seguito alla morte del padre Icario, che aveva introdotto l'uso del vino in Attica; quindi l'intera regione è colpita da carestia e da una sorta di epidemia di suicidi delle fanciulle. In memoria di Erigone e della sua morte viene istituita la festa attica dell'Aiora, celebrata all'interno delle primaverili Anthesteria, in cui si appendono delle bambole ai rami degli alberi, mimesi dell'altalena rituale. Proprio il motivo dell'altalena, riplasmazione simbolica della morte per impiccagione, è stato definito, in magistrali pagine di Ernesto De Martino sul tarantismo pugliese, nella sua valenza di deflusso rituale dell'impulso suicida, che si manifesta nella pubertà femminile: le crisi puberali, testimoniate anche dal nostro testo, troverebbero così, nella istituzione comunitaria della festività, un sistema protettivo ed un orizzonte di risoluzione" (5).
Veniamo, adesso, alla pagina demartiniana, perché c'è qualche altro elemento da considerare; noi sappiamo dal Baglivi e da Epifanio Ferdinando che nel XVII secolo le tarantate amavano lasciarsi pendere, legate a delle funi, dai rami degli alberi: questa pratica ha il suo antecedente, quindi, nell'aioresis, il rito dell'altalena. Nel mondo greco femminile la fuga e il rischio del suicidio erano motivati dalle crisi esistenziali: Erigone cerca (ella è aletis, errante, come Io) il padre Icario ucciso dai vignaioli ubriachi; trovato il cadavere, ella si impicca; le vergini attiche corrono folli a seguirne l'esempio, finché l'oracolo di Apollo dice che la collera del Dio si placherà quando saranno istituite le Aiora, cioè la festa dell'altalena delle vergini. Questa festa prevedeva anche la ripetizione della ricerca del padre e veniva celebrata durante le Antesterie, la festa dei germogli. "L'altalena delle vergini - o l'oscillare delle pupattole appese ai rami degli alberi - realizzava in forma alienata e attenuata l'impulso suicida, mentre il canto aletis forniva l'hieros logos rischiaratore" (Tr: 210-211). Nella festa si ritualizza l'angoscia per la perdita del padre e il rifiuto di accettare fino in fondo la propria condizione di donna, il cui destino si concretizzava fondamentalmente nel matrimonio e nella maternità.
Questa esperienza catartica del dondolamento ha grande diffusione e credibilità nel mondo greco antico, se è vero che Platone fa riferimento al movimento ritmico imposto per ristabilire una regola ai moti interni resi disordinati a causa delle paure, delle angosce, delle agitazioni infantili oppure ricorrenti nell'adolescenza come fanno le madri quando cullano i bambini, o come anche avviene nei riti bacchici. Così nel tarantismo la dimensione culturale del rito riesce a ricondurre artificialmente l'ammalato alla realtà umana che ha rischiato di perdere; l'acqua è l'annegamento, la morte, il lanciarsi (come avviene anche nell'impiccagione), è la rinfrescante e pericolosa naturalità che bisogna fuggire dopo la breve immersione terapeutica, o dopo l'abbandono di sé al dondolio scomposto; e la musica, fornendo una sorta di ritmo giusto, guida la povera anima spaventata in questo viaggio. "L'aioresis - afferma De Martino - ha la sua figura inaugurale nell'esser cullati dalle braccia materne" (Tr: 212).
A questo punto si può fare una breve digressione, dettata tuttavia proprio da quest'ultima citazione; Edoardo il Confessore, l'ultimo re inglese prima dell'invasione normanna, un giorno di Pasqua fu rapito in spirito durante la messa e si mise a ridere, e, tornato in sé, spiegò di aver visto, a Efeso, Dio che rivoltava i Sette Dormienti sul fianco; la narrazione del fatto appartiene a Jacopo da Varagine, l'interpretazione che segue a CI. Gaignebet e J. D. Lajoux: la leggenda dei sette dormienti si trova nel Corano e nelle narrazioni agiografiche; essi sono cullati da Dio secondo il ritmo che egli conosce e che è quello del tempo; in alcuni periodi dell'anno il ritmo del tempo si modifica, e questo va nella direzione opposta: il suo andamento non è, quindi, né lineare né circolare, ma segue il ritmo della culla, e le varie sovrapposizioni calendariali comunque non riescono del tutto a cancellare quei periodi di inversione di cui abbiamo qualche esempio residuo in credenze sull'eccezionalità di particolari giorni dell'anno. La porta a due battenti che consente l'accesso al mondo dell'aldilà nella tradizione celtica è la porta del tempo: "Nella notte di Natale, quando il campanile suona mezzanotte, essa si apre lentamente durante i primi sei colpi, si ferma un istante, poi si richiude, inesorabilmente, durante i sei ultimi colpi. Alcuni problemi calendariali si possono risolvere nel quadro di questa alternanza. Così le dodici notti sante o notti madri dell'anno, che separano Natale dall'Epifania, chiamate i dodici piccoli mesi, permettono di tirare su il peso dei dodici mesi trascorsi e di raccordare l'anno solare e l'anno lunare. Vi si ripetono tutte le condizioni del tempo di Crono, i bambini comandano (festa degli Innocenti il 28 dicembre), vengono vissuti i giorni come notti e le notti come giorni, le vigilie prendono la dignità delle feste, si va a letto la mattina, l'est e l'ovest sono invertiti e trascinano nel loro movimento l'epistola e il vangelo della messa dei folli" (6); tutto ciò finché il ritmo è come sospeso, in un momento di inversione, di cambiamento radicale: è un periodo di follia, anche in questo caso ritualizzata, controllata, affinché sia garantito il ritorno al tempo normale, al suo scorrere ondeggiante, a quella normalità salvifica. Abbiamo in questo modo allargato il campo del ricorso all'analogia (ovviamente bisogna stare molto attenti all'uso di questi procedimenti: non possono, per esempio, non venire in mente le Quaremme appese a Settuagesima per le strade; penso anche all'Appeso, dodicesimo Arcano dei tarocchi), ma torniamo adesso al tarantismo.
Oltre a tutto ciò che abbiamo detto sull'appendersi, c'è poi da sottolineare la somiglianza, per le tarantate, col dondolarsi del ragno nella sua ragnatela. E questo ci conduce al mito di Aracne: la superba tessitrice sfida Atena a una gara, e riesce a realizzare una tela meravigliosa nella quale con grande sfacciataggine rappresenta alcune avventure extraconiugali di Zeus; punita dalla dea vuole impiccarsi, ma questa la trasforma in ragno e la costringe a vivere, e, come dice Ovidio, a pendere.
C'è evidentemente anche un legame tra il dondolio del ragno appeso alla sua tela e il movimento di Aracne nel suo lavoro al telaio. G. Durand, poi, mette in relazione il movimento del tessitore e il viaggio: a noi preme soprattutto sottolineare la dimensione di uno spostamento dialetticamente stabile, cioè di una oscillazione entro il cui raggio si consuma e si risolve la crisi; altrimenti la fine del viaggio, per così dire, lineare, non è che la morte. "Gli strumenti e i prodotti della tessitura e della filatura sono universalmente simboli del divenire. V'è d'altronde costante contaminazione tra il tema della filatrice e quello della tessitrice, quest'ultimo ripercuotendosi d'altra parte nei simboli del vestito, del Velo" (7); allo stesso modo sono legati anche fuso e conocchia e filatoio. Lo stesso mestiere delle tessitrici - ricorda De Martino - nel Medioevo e nelle filande inglesi fino al XVIII secolo era motivo di crisi isteriche generalizzate dovute all'esercizio di attività lavorative caratterizzate da un movimento automatico e spersonalizzante.
La follia legata a crisi adolescenziali trova una soluzione, dunque, all'interno di uno schema abbastanza preciso che prevede la fuga e il lanciarsi dall'alto. "Con ciò - conclude De Martino - risulta confermato e chiarito che il simbolismo del morso, della vergine errante, delle eroine e delle dee impiccate nel mito e dell'altalena rituale in uno scenario acquatico e vegetale - tutti elementi così importanti del più antico tarantismo - appaiono nel mondo greco in contesti mitico-rituali destinati visibilmente a dare orizzonte di deflusso e di soluzione a reali disordini psichici di adolescenti e di spose a vario titolo infelici, di fanciulle rimaste impigliate nella situazione infantile e recalcitranti davanti alla scelta di uno sposo possibile, e infine di donne percosse da conflitti scatenati da una passione per un impossibile amante" (Tr: 215-216).
Le pene dell'amore precluso trovano la loro più drammatica espressione nell'Ippolito di Euripide; Ippolito è figlio di Teseo e dell'amazzone Ippolita, vuol dedicare la sua vita alla caccia e alla venerazione per Artemide, trascurando una dea potente come Afrodite; questa, infatti, quasi a mostrare tutto il suo potere, scatena in Fedra, sposa di Teseo, una fortissima passione amorosa per il figliastro; l'eroina vorrebbe liberarsi da un tormento che la prostra, e racconta alla nutrice la sua voglia di liberazione: vorrebbe bere da una fonte di acqua pura, riposare su un prato. "Portatemi sul monte", grida, vuoi correre nei boschi, oppure cavalcare puledre sulla riva del mare fino a sfiancarle. La nutrice decide allora di raccontare tutto a Ippolito, ottenendo un effetto disastroso, perché questi prorompe in una serie di improperi contro le donne e insulta la matrigna che casualmente ascolta tutto; per la vergogna Fedra decide di suicidarsi ma allo stesso tempo si vendica del figliastro scrivendo su un foglio che egli ha attentato al suo onore; Teseo, allora, chiede al padre Posidone di uccidergli il figlio, il quale, in punto di morte, viene riabilitato da Artemide. Fedra si uccide, come c'è da aspettarsi, impiccandosi. Anche in questo caso ritornano quelle tappe fondamentali del percorso che va dalla sofferenza amorosa alla soluzione, non rituale, ma definitiva, in questo caso, attraverso l'impiccagione, e, prima ancora, al ricorso, solo ventilato, alla fuga e al ristoro in un ambiente agreste. Il dramma di Fedra ridisegna drammaticamente il procedimento rituale di risoluzione di una crisi di follia femminile determinata da un amore impossibile, e costituisce una rappresentazione di situazioni che, come abbiamo già detto, ritroviamo nel tarantismo.
Dal punto di vista rituale, il tarantismo si inserisce in un quadro generale che sinteticamente è stato delineato in un recente saggio da I. M. Lewis. In molte culture, si afferma nel saggio, le donne sono soggette a malattie che sono attribuite alla possessione da parte di uno spirito: la terapia prevede due modalità fondamentali di intervento: una è quella dell'esorcismo che consiste nell'espulsione dello spirito, l'altra è stata definita da De Heusch adorcismo e consiste nell'addomesticamento dello spirito, nel controllo di esso; ora, secondo Lewis, l'adorcismo e concepito, in quelle religioni che hanno un esclusivo dominio maschile, come una forma superstiziosa grazie a cui le donne riescono a sottrarsi alle modalità ufficiali del culto e per ciò stesso alla gestione maschile di esso: "Dal punto di vista dell'establishment religioso maschile, nel migliore dei casi, le donne sono qui coinvolte in oscure attività terapeutiche: nel peggiore, in un pericoloso traffico superstizioso con forze occulte che minacciano l'ordine religioso stabilito" (8). Questo fatto è una costante nel mondo religioso; esorcismo e adorcismo si presentano come due processi dialetticamente opposti, ma bisogna considerare che lo schema non è immodificabile, visto che dove le donne hanno acquisito un ruolo maggiormente riconosciuto nella pratica religiosa scompaiono le forme di adorcismo a vantaggio di quelle di esorcismo.
Ora, è evidente che nel tarantismo, dunque, tecnicamente non si può parlare di esorcismo ma di adorcismo, poiché il rito terapeutico consiste in un addomesticamento del ragno possessore, e i vari momenti che lo costituiscono - la fuga, l'altalena, il bagno, la danza - hanno la funzione di ottenere il controllo dell'agitazione interiore che risorge periodicamente. A questo punto possiamo considerare il tarantismo dal punto di vista esposto da Lewis: l'adorcismo è una pratica prevalentemente femminile che risolve queste crisi che possiamo definire di afflizione, e si contrappone alla pratica ufficiale dell'esorcismo nella religione cristiana e cattolica in particolare; l'aspetto di opposizione del tarantismo era stato notato e sottolineato da De Martino. D'altronde, vai la pena ricordare il carattere femminile del menadismo dionisiaco nell'antica Grecia e come questo fosse un culto subalterno rispetto alla religione delle città; ancora Euripide, nella tragedia Le baccanti, mostra in che modo (almeno estremamente sospettoso) venisse accolto ufficialmente il culto di Dioniso.
Proprio la distinzione tra esorcismo e adorcismo troviamo esemplificata nella vita di Anna, l'anziana tarantata di un paese del Salento meridionale che tenne una corrispondenza con Annabella Rossi tra il 1959 e il 1965. Anna, nome fittizio, era nata nel 1898; la studiosa ebbe modo di conoscerla proprio nel corso della ricerca condotta da De Martino nel 1959, a cui ella partecipava. Tra i gesti terapeutici di Anna non troveremo tutti quelli che sono stati oggetto di questo lavoro; restano il morso e il ballo, e poi le visioni salvifiche e nello stesso tempo dolorose di San Paolo. Ma vediamone la storia, che la Rossi definisce paradigmatica di una situazione diffusa. La prima cosa che colpisce è una giovinezza povera, caratterizzata dalla fatica e dalla fame e dal difficile rapporto con il padre: un uomo molto severo, cattivo, che riserva l'eredità ai figli maschi. Anna non si vuole sposare: "Cara signorina, - scrive - senza che lei se la prendesse a male, il sesso maschile per conto mio, assolutamente non lo posso tollerare" (9); è una decisione che prende quando è adolescente; un giorno, in campagna, si sente pizzicare al ginocchio, e si accorge di essere stata punta da un ragno: da qui comincia la sua lunga vicenda di tarantata; è affetta anche dal male di San Donato, per cui sarà costretta per tutta la sua vita a una duplice sofferenza e al duplice pellegrinaggio a Galatina per la festa di San Paolo e al santuario di San Donato a Montesano Salentino (il 7 e l'8 agosto). il padre muore, dicevamo, senza averle lasciato qualcosa in eredità; lei, che già è sofferente, lo sogna per alcune notti successivamente nell'atto di indicarle un posto dove è sepolto un tesoro (l'acchiatura), ma la povera donna non trova niente, e si rende conto di aver avuto a che fare con il diavolo, di esserne stata tentata; dopo un bel po' cede alle preghiere della madre e decide di andarsi a confessare: "e sono andata a fare la mia buona santa cofesione miso inginochiata vicino al Padre Comfessore e mi sono posta a dire i miei peccati un attimo mi sono tesa la gola negata e io non poteva più rispondere come voleva e hò detto Padre sono tentata dal Demonio couna voce in focata allora il Santo Padre prese un libro e lo cominciò a scongiurare per tantti minuti mentre il Padre loscogioro io non più me sentiva male nella gola e pricipiai a fare la mia cofesione buona meglio di prima" (Ld: 83).
Abbiamo qui, come si può facilmente vedere, il caso dell'esorcismo che allontana lo spirito malefico dalla donna; ma ciò che veramente la possiede è il ragno: la taranta ne domina la volontà, le impedisce di mangiare e di bere, la fa star male, finché non giunge il momento del pellegrinaggio e della danza riparatrice; non è possibile cacciare la taranta; si può solo, con l'aiuto del santo, renderla per un po' inefficace, placarne gli umori. Contro il rito dell'adorcismo, a Galatina, si scatena il furore verbale di un carabiniere, che però suscita la violentissima risposta delle tarantate: "e pure un Sargedote contro alle povere tarantate li dise che nonoi faciamo schifo e una di tutte le tarantate si minò di prendolo ma in tanto non lo potte prendolo perché ne lò portara via" (Ld: 127). E' evidente, quindi, il rapporto di conflittualità tra i due modi fondamentali di liberazione dalle crisi di afflizione.
Anna ha i titoli per far parte del gruppo delle eroine dei miti e delle tragedie che abbiamo sopra considerato, che subiscono il tormento dell'amore precluso, e la sua malattia, adesso che ormai siamo lontani dalle date delle sue lettere, e l'intera sua esistenza così crudelmente dominata dalla storia assumono un valore simbolico. E infatti, anche se nella terapia non sono più previsti l'altalena rituale, il tuffo dall'alto, il lasciarsi pendere in aria (a meno che non vogliamo attribuire questo senso all'arrampicarsi sull'altare della chiesa di San Paolo), dalle righe delle lettere di Anna traspare tuttavia un desiderio che ci riconduce a quei gesti: "sai checoso se sente tua Anna che sbatto i piedi per terra e dico vorrei essere uccello ma mi trovo a queste mie mali condizioni e non posso fare più niente" (Ld: 216).


NOTE
1) E. De Martino, Furore, simbolo, valore, il Saggiatore, Milano, 1962, p. 99.
2) E. De Martino, La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano, 1961, pp. 202-203 (d'ora in poi citata nel testo con Tr).
3) J. Ross, La Puglia nell'800 (La terra di Manfredi), Capone, Cavallino di Lecce, 1978, p. 164.
4) V. Andò, La verginità come follia: il "Peri parthenion" ippocratico, "Quaderni storici", Verginità, n. 3, 1990.
5) Ivi, pp. 724-725.
6) Cl. Gaignebet, J. D. Lajoux, Art profane et religion populaire au Moyen Age, Presses Universitaires de France, Paris, 1985, p. 64.
7) G. Durand, Le strutture antropologiche dell'immaginario. Introduzione all'archetipologia generale, Dedalo, Bari, 1984, p. 322.
8) I. M. Lewis, Exorcism and Male Control of Refigious Experience, "Ethnos", 1990, n. 1-2, p. 27.
9) A. Rossi, Lettera da una tarantata, De Donato, Bari, 1970, p. 154 (d'ora in poi nel testo Ld).


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