§ Favolerie

Nell'ora silenziosa di Maria




Antonio Errico



In quest'ora che l'urlo del furore travolge Gerusalemme come piena di fiume, io, Giacomo, fratello del Signore, prendo cominciamento di questa scrittura. Per che ragione non so. Non saprei dire se scrivo per sollievo o se per dare a quel che racconto una vita che duri più della vita mia, più della vita del tempo che a me appartiene ma che da me in ogni istante si fa più distante e straniero.
Di tutte le cose che dirò io stesso fui testimoni oppure ebbi novella da altri che le vide e d'averle vedute mi giurò, dentro il tempio. Non mentirono, non mento. E a voi non chiedo il discernimento di ciò che appare o non appare vero perché non a voi né a me né a nessun altro spetta di giudicare.
Questa è la storia del mistero di Maria, figlia di Gioacchino e di Anna della tribù di Giudea, madre delle madri, specchio d'ogni luce; storia di miraggi e confusioni, di trasognanze, forse di deliri, forse di sensi accesi da un sorriso di sembianza immaginata o da un'estasi, forse, voluttuosa, tenebrosa solitudine di bambina destinata ad esser vergine per voto di donna a lungo sterile. Poi il lamento di Anna si addolcì in un sospiro quando l'angelo scese a parlare e il suo grembo fiorì come ciliegio in novembre. E Gioacchino ritornò dal deserto. Non chiese mai nulla, non volle sapere come fosse accaduto così all'improvviso, così all'improvviso.
E' impossibile dire con parole di uomo il miracolo della parola di Dio, pronunciare l'indicibile, scrivere l'eco di una voce infinita.
Signore, Tu lo sai, sono nato per pregare; anima cieca che cerca la Tua luce, questo sono, Signore.
Non mi seduce la gloria dello scriba. Griderei questa storia se il mio grido potesse durare per quanto dureranno le lettere impresse sul papiro.
Guida la mano del Tuo servo, Signore. Trafiggi il mio cuore con la Tua carità.
A Te siano ogni lode ed ogni onore; la pace a colui che scrive, a colui che leggerà.
Nel nome Tuo, in eterno. Così sia.
Un lucore di ceri l'avvolse, rilesse sul volto bianco di latte e di neve, la tristezza mutò il suo sorriso in preghiera. La sera odorava d'incenso, leggera carezzò i suoi capelli una mano di uomo che non riconobbe. Non era Gioacchino. Sono pochi tre anni per capire il destino. Lei non capì.
Ma non si volse.
Le volte che le avevano detto della moglie di Lot erano tante.
Una statua di sale.
Lei conosceva fiabe più belle.
Ma non si volse.
- Non dovrai mai voltarti, non dovrai mai guardare chi è fuori del tempio. Saranno loro a guardarti in eterno.
Questo sapeva Maria. Lei sapeva che avrebbe dovuto servire il Signore. Per sempre. Aveva paura di quella parola; sempre dura più di molto, pensava, di più di una notte di febbre, un inverno, di più di un gioco nel cortile al tramonto. Quanto dura per sempre? Era grande il tempio, silenzioso. Pensò che era forse così il paradiso. E che gli angeli erano come le fanciulle vestite di bianco che le si strinsero intorno allargando le braccia. In silenzio.
- A quale di loro somiglia quell'angelo che ha parlato a mia madre una sera, a chi di loro, a Sefora, a Rebecca, ad Abigea, a Zahel, a Susanna?
Si voltò verso la porta, un istante.
Fuori le figlie degli ebrei scongiuravano con le fiaccole accese i pensieri funesti.
Andò verso l'altare come falena che va verso la luce ma non sa che fiamma sia la fiamma che accende quella luce; se lucerna di casa o se brace, se incendio, se lampo di tempesta o se focora che avvampano, se torcia che rischiara, se rogo che divora.
Lei non sapeva. E non seppe.
Il sacerdote le parlò di qualcosa che era scritto nei libri del cielo.
- La verità è solo nel presagio, - le disse. - Tu attendi il presagio, Maria -.
E le fanciulle più vecchie del tempio le insegnarono a scordarsi, a celare la sua ombra tra le ombre lì dentro.
Per ore ogni sera restava ad ascoltare i canti dei ciechi.
Una volta aveva chiesto a Gioacchino perché i ciechi cantassero di sera.
- Padre, perché i ciechi cantano, di sera?
- Perché al buio hanno più paura - le aveva risposto Gioacchino -, perché sanno che noi non li vediamo, che al buio siamo ciechi come loro; e allora cantano per dire che ci sono, che sono ancora lì.
Avrebbe dovuto cantare Maria, come i ciechi, per dire che c'era ancora. Che c'era. Anche se di sé non ricordava che il nome, anche se era tutto così sconosciuto.
Piangeva ogni notte.
E non fu mai stagione che passa, mai alba o tramonto, mai sole e mai luna, mai rosa e mai spina, mai miele e mai fiele, mai più ombra di palmizi e mai guizzo di ramarro, mai più umidore di muschio sotto i piedi. Mai più.
Per nove anni, mai più.
Sentiva solo voci risuonarle nella mente, suoni che annunciavano venture inaudite ronzavano nell'ombra, turbavano il suo sonno, risonanze ansiose fievoli leggere e trasparenze lumescenti a volte tormentose graffiavano gli occhi suoi insonni e stanchi, come tremolio d'astro angeliche visioni le parlavano di grazia e di letizia e di amore a dismisura e disamore per qualsiasi gioia che sulla terra dura solamente per solo il tempo che si dice appena.
Ed era così lontana dalla vita quella vertigine che adesso la rapiva, l'oscuro brivido di felicità e di angoscia che le feriva il cuore ancora acerbo.
Giorno dopo giorno si abituò alle voci che diventavano sempre più vicine, imparò a capire gli sguardi dei volti immaginosi che invocavano il nome suo e l'incantavano e poi si dissolvevano e poi ricomparivano per rincantarla un'altra volta e un'altra.
Ahi quante volte sempre a rincantarla.
Poi quando ebbe dodici anni e fu donna e per questo doveva abbandonare il tempio per non contaminarlo, Zaccaria indossò il manto dei dodici tintinnabuli e a Te chiese, Signore, quale fosse la sorte decisa per lei, per Maria, per lei la regina soave., innocente, incosciente di passato e futuro, di sogni e passioni, di parole feconde, di consolazioni, di enigmi e prodigi, divina creatura, rifugio per viandante e simulacro per preghiere e per bestemmie nei secoli venturi. Se secoli verranno.
E Tu che sei la risposta, Signore, rispondesti.
Questo disse Zaccaria: che rispondesti.
- Chi non ha donna attenda un segno del Signore. Suonarono le trombe degli araldi per tutta la Giudea - disse Zaccaria.
Suonarono le trombe degli araldi per tutta la Giudea, ed ogni maschio che non aveva donna aspettò fuori del tempio il Tuo segno.
Aspettammo.
Non mi conforta adesso la memoria. Ma per certo posso dire che io non vidi nulla e nulla mi confessarono di aver visto o sentito molti di coloro che furono là ad aspettare, che io ho cercato per città e per villaggi, per mercati, dentro ogni bottega, uomini di ogni età e di ogni mestiere; ho interrogato pastori, venditori di sete, cestai, cordai, ladri, mendicanti, dotti, indovini, giocolieri, mercatanti.
Nessuno ricordava di aver visto, nessuno di aver udito ricordava.
Lo so, Signore, lo so che solo ai giusti concedi di capire i segni Tuoi, qualsiasi cosa che sia, soffio di vento o sfòlgore di raggio, brivido, sussulto, volo di rondone.
Non c'erano giusti quel giorno all'ora nona.
Ecco Signore forse perché scrivo: per penitenza.
Vide Zaccaria soltanto, una colomba - disse - posarsi sopra il capo di Giuseppe.
Che motivo avrei di dubitare del sommo sacerdote?
Non ricordo cosa disse Giuseppe, non ricordo neppure se disse qualcosa.
Udii però il sacerdote urlare - Ricordati Giuseppe di Abiron e di Core inghiottiti dalla terra, ricordati!
Basta.
- Sarai figlia tra le mie figlie, Maria.
- In questa casa - rispose Maria - sarò pura tra le pure e la tua saggezza sarà la mia custode, Giuseppe.
Più forte la stringevano le voci; voci gravide di desiderio sciabordavano alla riva del suo cuore - maturo ormai maturo adesso ormai - e sussurravano - bocche di viola - e crescevano - covoni di grano - ed erano canto di chiurlo, api che sciamano, draghi nel sogno, dolcezze rapinose, sussurri di preghiera nelle ore misteriose. Lasciavano ogni volta cicatrici.
Poi accadde.
Forse fu voce d'angiolo o demonio innamorato, spirito e materia infiammati nelle viscere, lama di sole che a notte la trafisse, carne che s'inquieta, midollo che impazzisce, giaciglio misterioso o desiderio che s'aggruma o amore divino che io non so capire, che io non so scrivere.
Abbandonami Signore.
Non avrei dovuto cominciare mai questo racconto.
Ti ho ingannato. Mi sono ingannato. Quello che ho scritto non è quello che pensavo.
Qualcosa, solo qualcosa: un luogo, un nome.
Il resto è tutto frutto del peccato più grave: la fantasia.
Io so che la fantasia nasce dalla vanità, che la fantasia genera menzogna. Eppure non ho saputo sottrarmi alla sua seduzione, al suo incantamento diabolico, né ancora so sottrarmi. Anche se adesso sono mezzo cane e mezzo lupo, falso testimone e falso scriba, non ho saputo rivelare e non ho saputo nascondere.
Avrei dovuto avere parole eterne per raccontare di una storia eterna. Ma le parole degli uomini, Signore, lo sai bene, sono scheletri, lampade spente, arazzi consunti, vessilli del nulla.
Solo che a volte allontanano la morte, è stato questo a tradirmi, lo sgomento per questa mia esausta età, per questo gelo.
La fantasia, Signore.Damasco lucentissimo, spezia saporosa, gorgo di ogni palpito e pensiero, cane vagabondo, mare tumultuoso, metamorfosi dell'anima così rapida e silenziosa.
Mi perdonerai la fantasia, Signore, nel giorno che cancellerà ogni altro giorno?
Ma se non fosse un peccato, se invece fosse malattia maravigliosa?
Di questo forse, chissà, lei si ammalò, di fantasia, si innamorò di fughe, del profumo della luna, della solitudine da cui nascono i fantasmi favolosi che ordiscono sortilegi di parole per incantare e per ingannare i giorni, si innamorò delle lusioni, delle girandole che la mente fa ruotare vorticose, delle inquietudini che corrono dentro di noi uomini, Signore. Molto tempo è passato da quando avvennero i fatti che avrei dovuto raccontare. Molto è avvenuto, molte cose da allora sono mutate. Sono state pronunciate sentenze atroci di belve e di iene. Era tutto scritto, il luogo e l'ora, la tragedia, la congiura, la furia, la ferocia.
Vidi Maria un'altra volta dentro il tempio, bere davanti ai sacerdoti le acque amare, difendere Giuseppe dall'infamia, proclamare la volontà di Dio sopra ogni cosa.
Poi, l'ultima volta, da lontano, udii il suo urlo che mordeva il cielo, forse provò dolore in quell'istante il cielo.
Da quel giorno per me è immagine scavata nella mia vita come pozzo fondo. E di questa immagine soltanto posso dire, di un'ombra disperata che nessun bagliore di santità avvolge, nessuna azzurra aureola, ma nero di lutto e luce di pallore.
Posso dire dell'amarezza del sorriso, della sua solitudine, e della mia, dei labirinti dove l'ho cercata, dei sotterranei in cui si nascondeva, delle fortezze dov'era imprigionata. Ho visto Maria lì dove non c'era, dentro ogni luogo d'incanto e di rimorso, nelle battaglie, sulla sponda dei dannati, nel volo sfinito delle anatre ferite, sulle soglie dei poveri, ai piedi di ogni croce.
L'ho sentita cantare nella notte con i ciechi.
A questo punto, alla fine del racconto, mi accorgo che di esso non ci fu mai principio. Dovrei cominciare daccapo e cercarli, un principio, una fine.
Ma il principio e la fine delle storie del mondo sono già scritte nel libro Tuo, Signore. Qualsiasi altra scrittura che non sia quella verrà da falsità e da vanagloria, dalla superbia, dall'arroganza, dal delirio, dalla follia, dalla paura o da stupore così ingenuo, Signore, così amaro.
Mi perdonerai, Signore, il mio stupore senza chiedermi però che me ne penta?
E' vero, io posso inabissare quel che ho scritto, nasconderlo negli antri più profondi, ma non riuscirò mai più a cancellarlo.
Tu sei la verità eterna, l'infinito. Maria è tutto ciò che muta: la passione, la luna che cangia forma, la memoria, il colore delle nuvole, è il fiume che si secca, il bimbo che poi invecchia, il gelo che si scioglie, la vita, Signore, nient'altro che questo: la vita raccontano gli uomini. Maria.
Verranno altri giorni di altre parole che racconteranno la storia di Maria. Parole che resteranno per sempre più chiare, più degne, più vere. Forse più vere di queste. Io adesso ho finito. Nulla di quel che ho detto fino a questo istante si salverà dal silenzio del deserto in cui seppellirò questo papiro perché nessuno mai possa scoprire la menzogna mia incantata che racchiude.

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