§ Storia di un sogno nella storia

Notturno per Irene




Fernando Cezzi



Era la prima volta che prendevo il mare e quell'alba di maggio a Otranto è la più bella, certamente la più indelebile nella memoria. Trovarsi discreto in silenzio al risveglio dei muschi sul molo, della superficie a poco a poco più trasparente del mare, delle vele e delle gomene impregnate di umido; sentire gli umori della notte dissolversi alle prime voci dei pescatori distinte nel grido concitato degli scaricatori, il chiacchierio degli uccelli più mattinieri al vento ancora incerto della pineta, l'odore del mare pulito... Erano immagini ed emozioni tutte nuove per me, amalgamate nel respiro con la gioia e il desiderio di vedere e toccare finalmente la terra dei miei padri e guardare sulla faccia dei cefalleni i nostri volti di greci italiani.
Ci si imbarcava per Cefalonia. Così aveva deciso la Signora, che voleva pregare sulla tomba della sorella Militza e ricordare i luoghi della sua ultima adolescenza.
Le nostre vetture erano giunte poco prima di mezzanotte e subito i servi avevano trasportato casse e borse presso la nave noleggiata dal duca, mentre Irene e noi del seguito ci fermavamo nel posto di guardia, messo a disposizione dall'ufficiale della guarnigione veneziana che allora reggeva la cittadina da quasi un decennio.
Vi era Maria, figliola di Irene, accompagnata da Eudossia di Clarenza, la vecchia balia e governante della duchessa; Ipazio Lezio, l'erudito di Melpignano precettore dei giovani Castriota, con la moglie Lucia e il figlio Baldassarre; felice e timorosa la mia Celestina oramai intima della Signora. Eravamo in otto, non computando la servitù e i quattro soldati delle milizie del duca che questi aveva voluto si aggiungessero di scorta al nostro viaggio.
All'alba tutto si colorò di una luce gialla e radente. Prendemmo il largo subito dopo. Il vento di maestrale leggero gonfiò le vele rosse della nave e furono molto bravi i marinai che manovrarono per uscire dal porto, tirando funi tendendo mollando sciogliendo vele e canapi. L'orizzonte si apriva ora infinito e mentre dall'altra parte la costa italiana si delineava e si allontanava i brividi miei, e del mare docile sotto lo scafo, si quietavano cullati dalla luce che da ogni parte riempiva la mia vista e dal tepore che mi fasciava tutto.
C'è un grande silenzio a quest'ora in casa mia. La lampada sul tavolo, la sola che ancora arde in tutta la casa, disegna ombre sul pavimento e sul dorso dei libri schierati nei ripiani della parete.
Mi sento a mio agio la notte a casa: la penombra e la quiete mi avvolgono e me ne sento protetto; la solitudine che è al termine di una giornata affannosa dipana pensieri chiari e ben connessi fra loro. Mi capita spesso a quest'ora di notte di avere più coraggio. Vago con passi sicuri per lo studio nel corridoio in cucina e mi lascio colpire dagli odori delle stanze; mi piace guardare le volte a stella, i muri bianchi, gli oggetti negli armadi, gli arredi della cucina. Sembrano più belle le cose al chiarore tremolante della lucerna. L'architettura di questo piccolo atrio è forse il dettaglio che più mi affascina della casa: racchiude per me un pezzo di universo, è come se lo spazio infinito mi si offrisse qui alla contemplazione. Nelle ore della notte le sue colonne lisce un po' tozze, le finestrelle ricamate, i balconcini e le lesene che lo adornano mi sembrano che stiano lì per sfidare con ingenua sicurezza il tempo e il deteriorarsi delle cose. Ma le sue pietre sono vive mentre mi rimandano sul viso l'aria tiepida che trapela dai loro muschi, l'acqua del pozzo distillata nei pori del loro tufo.
Da molto tempo le occupazioni a palazzo mi impediscono di seguire nel cielo del mio atrio le evoluzioni delle rondini al tramonto e lo spicchio di luna nascente troppo velocemente è passato questo mese nel rettangolo azzurro fra le stelle.
Donna Irene sedette per quasi tutta la navigazione presso il castello di poppa in compagnia di Maria Celestina e Lucia; Eudossia divideva i suoi servizi fra le signore. L'anziano precettore, che Maria aveva voluto con noi in questo viaggio "alle sorgenti della storia", ebbe inizialmente delle difficoltà con lo stomaco ma poi si riprese e trovò un equilibrio standosene quieto quieto seduto all'interno della nave in un posto ben ventilato, qui estraendo ogni tanto dalla sacca un libro che sfogliava senza riuscire a leggere e sonnecchiando abbondantemente. Anch'io per lunghi tratti di traversata mi assopii, altrimenti ero con i soldati stranamente taciturni o con Baldassarre, complice delle sue curiosità marinare.
Mi trattenni a lungo anche con la Signora che mi aveva chiamato presso di sé. Il cigolio dei legni e il battere del mare sulla carena assorbirono e diffusero, con il vento che in certi momenti flagellava energicamente le vele, rievocazioni immagini scene delle vicende familiari di Irene.
Era caduta Bisanzio abbandonata da tutti, nel sangue dei suoi pochi strenui difensori e di Costantino, ultimo imperatore dei romani. Era caduta Belgrado e con essa il regno dei Brankovic Nemanja, di antiche tradizioni guerriere; Lazaro, padre di Irene, aveva trovato la morte in battaglia. Distrutta Clarenza, travolta Mistrà, rasa al suolo Trebisonda e gli ultimi Paleologhi trucidati imprigionati o fuggiti in occidente, ospiti non invitati.
Anche Kroia, testa valorosa dell'ultimo baluardo europeo contro il turco, aveva capitolato e i fieri Castriota avevano vissuto delle grazie dei sovrani di Napoli e ora di Spagna. Sì, anche l'antico regno di Ruggero Roberto e Alfonso esisteva ora solo come provincia di un impero lontano.
Tutto questo e tanti altri eventi ancora, confusi nel ricordo o svaniti e frantumati in mille colori e sensazioni impallidite, Irene aveva vissuto nei racconti della madre, Elena Paleologa, di Eudossia, del nonno Tommaso, del marito o nella sua personale esperienza. "Che pensare della vita", ci chiese la Signora a un certo punto della nostra conversazione, "dopo essere stati trapassati e stremati da tanti eventi? Tutto mi sembra involontario per ognuno di noi. Avrei voluto che Esperia fosse davvero per me la 'terra del tramonto', finalmente. Ma anche a san Pietro dovremo essere stranieri e pellegrini, sempre".
All'imbrunire i mozzi accesero le lucerne, il mare si fece ancora più dolce e ci fu molto silenzio sulla nave, come un senso di oblio. Poi mare e cielo, la nave e noi, scomparimmo nel buio della notte che si riempì improvvisamente di stelle numerosissime e brillanti.
Il tendersi dei legni si udiva ora più lungo e cadenzato, come il friggere fresco e bianco dell'acqua sotto la galea.
Lo scalpellino cui affiderò di incidere le lettere sul marmo, epitaffio a Irene, si porrà davanti al testo indifferente e freddo come il suo marmo. Scheggierà raschierà levigherà parole di cui forse comprenderà il significato ma che non lo raggiungeranno nell'anima. Così il visitatore che fra qualche secolo cercherà di leggere le mie linee erose e indecifrabili...
Mi figuro già il marmo in frantumi nella chiesa di famiglia diroccata e il palazzo in rovina. Si salveranno forse solo minuzzoli delle nostre storie. E il curioso capirà qualcosa chiederà si informerà e sguscierà avanti soddisfatto varcando altre rovine distratto. Nessuno potrà difendere Irene da tanta indiscrezione.
Mi aveva detto non molto tempo prima di morire: "Questi odori che dalla finestra sento mischiarsi nell'aria, spostati dal vento, con i colori del cielo e del maggese, mi danno una sensazione di autenticità e di intelligenza, come se tutto, i miei occhi socchiusi queste ombre questo bisbiglio sordo che senza requie tiene compagnia alle mie orecchie, sia diventato più profondo, sprofondato in un respiro più ampio e reale. Mi sembra di riuscire a pensare meglio, ora vorrei pensare tante cose, forse potrei pensare tutto adesso. E' questa la vita vera o è la vigilia della morte?".
Non le risposi, né forse donna Irene aspettava una mia risposta. Ma il suo sentire così intensamente la natura la densità del tempo e il silenzio degli spazi, il suo vivere tutto sotto il segno del meraviglioso e del melanconico, il suo vibrare fra impeto e avvilimento, tutto questo suo modo di essere l'ha sempre resa a me così vicina, così affine al mio carattere facile al turbamento e pur capace di durevole serenità, che gli incontri con lei sono stati per me occasioni stimolanti di studio e conoscenza, di me e del mondo. Conversare con lei, passeggiarle accanto nel parco, accompagnarla per le visite nello stato mi è stato senza tempo tonificante. Erano per me ore di seduzione dopo le quali mi sentivo più forte e più umile.
Mancava poco alle quattro ore del tramonto quando si intravidero le lanterne del porto di san Giorgio. Fu emozionante distinguere mano a mano il molo i muraglioni, i gozzi le barche e le galeazze, lo stendardo rosso con il leone di san Marco. Ipazio si stava esibendo in alcuni dotti cenni sulla storia dell'isola, ma a causa dell'uditorio distratto si trattenne limitandosi come gli altri a lasciarsi andare in osservazioni più alla buona, in esclamazioni di scoperta e stupore. Tutti passammo dei momenti di ingenua loquacità.
All'entrata nel porto il mare divenne torpido, come morto, e la nave vi penetrò mollemente guidata con perizia dal nocchiero che aveva fatto calare le vele e dirigeva i rematori verso il molo per l'attracco; poi fu srotolata la catena e sprofondò nel mare. Alcuni nostri marinai si erano già salutati con i loro compagni cefalleni; noi scorgemmo subito, riconoscendoli dagli abiti, gli ufficiali veneziani mandati ad accoglierci. Per la duchessa Irene, consorte del patrizio Giovanni, il Provveditore aveva disposto la scorta d'onore fino alla rocca e qui l'alloggio nell'ala del palazzo già residenza dei Tocco.
Immagino soltanto, non ero sulla vettura della Signora, i turbamenti e il turbinio dei ricordi nell'animo di Irene mentre dopo un breve percorso su una strada alquanto dissestata varcammo il portone del castello cupamente illuminato dalle fiaccole. Ma quando scese dalla vettura e si volse attorno furtivamente mi parve di vederle negli occhi la tipica espressione di nostalgia e dispetto, di stupore sgomento e ribellione repressa, che oramai conoscevo molto bene. Non parlò.
Dopo le brevi cortesie d'uso ci ritirammo nelle abitazioni assegnateci e io trascorsi la prima notte sulla terra dei padri in un sonno leggero e pieno di attesa.
Vestiva quel giorno un semplice abito color rosso sul viola, lungo e stretto su in vita, di velluto, mi pare; le stava bene addosso e le modellava la figura slanciata, le spalle scoperte, alla quale gli occhi verdi come il mare in certi meriggi di agosto conferivano grandi e pazienti un tono di lontananza ed estraneità fragilità fastidio. Il viso ovale e piccolo, la carnagione bianca ma non rosea, le labbra sottili rivelavano trent'anni di vita densa e dura forse già stanca.
Mentre esprimeva le sue intenzioni nei miei confronti e illustrava il fermo proposito di un governo forte ed efficiente, mi sembrava di leggere nelle sue parole, e un po' anche nella modulazione del suo incerto ma chiaro periodare italiano, un senso di inutilità di quel che diceva e andava con me programmando: come se il suo interesse per gli affari pubblici che le incombevano, il duca Giovanni era quasi sempre trattenuto da incarichi militari presso il principe Federico, fosse secondario e i contenuti veri e costanti dei suoi pensieri e delle sue emozioni fossero altri, non evidenti ma più pressanti.
Non fu quindi solo per captare la mia benevolenza che la Signora, a conoscenza dell'origine greca della mia famiglia, mi chiese quello stesso mattino di parlarle dei greci residenti nella nostra regione, ricordandomi con fierezza di avere nel suo sangue sangue ellenico e porfirogenito.
"Noi ora potremo", mi illustrava Irene, "dar pace ai nostri connazionali, immiseriti da impari lotte secolari, trasfondere loro linfa vitale dopo tanto affanno. Potremo anzi far convergere qui nel nostro palazzo le idee e la cultura di tutti i popoli del nostro stato: scuole discussioni feste per tutti sotto la nostra signoria. Epidauro Illirico, o Ragusa come dicono qui in Italia, è la mia ispirazione e offriremo anche noi libertà di asilo e cultura, di traffici e industrie. Abbiamo vissuto circa dieci anni in quella città ospitale ricca e fiera del suo equilibrio delicato ma vitale e generoso... Si può dar voce alla cultura salentina, ne si libererà l'originalità e la si potrà accordare con quella della capitale e di altri centri dotti della penisola".
Solo alla fine dei suoi giorni Irene avrebbe abbandonato oramai disanimata questa sua utopia. Non vi è altro nome per indicare il piano che la duchessa mi illustrò quel giorno e intorno al quale avrebbe costantemente lavorato pur fra esitazioni e pentimenti.
La Signora doveva credere a questa sua costruzione: solo così tutto il peso della realtà, la politica i tradimenti le ingratitudini il disgusto la noia l'orrore del vuoto della vita e la morte, poteva diventare meno opprimente e l'umanesimo di cui parlava risultare l'interesse stimolante e dialettico capace di sorreggere la vita e lasciare il desiderio padrone del campo.
Quel mattino io accettai l'ufficio di segretario che mi veniva offerto. La mia vita si incamminò così per la sua strada in quel 1485 che correva verso l'inverno.
Non era molto grande san Giorgio ma spiccava sull'acropoli come una solida cittadella ben accordata nelle sue parti, ricostruite e fortificate dai veneziani dopo la distruzione turca di una ventina di anni prima. Più elegante direi dei nostri fortilizi, sembrava all'apparenza più fragile forse per le sue mura alte e merlate o la posizione isolata e strategicamente dominante una vasta area montuosa e impervia; le pietre giallognole e i mattoni cotti con i quali era costruita ne accentuavano la diversità.
Un'impressione di compostezza e gravità ebbi dal monastero di santa Teodora, dove ci recammo nella tarda mattinata del giorno dopo il nostro arrivo. Quattro miglia circa da san Giorgio verso oriente, sorge su una collinetta brulla circondato da cipressi e radi piccoli olivi e felci; la chiesetta, con l'abside la facciata e il modesto nartece a mattonelle smaltate, è a un angolo del cortile quadrangolare dove si affacciano le celle delle monache. Tepore acre odore di incenso e fumo di mille gialle candele sottilissime accolsero la nostra entrata nella cappella, insieme all'igumena della comunità venuta con le consorelle a ossequiare la Signora. Nel silenzio dorato delle icone e dei candelabri si udiva soltanto il sussurro, quasi un pigolio, delle orazioni delle monache avvolte di nero e curve, con Irene Maria e le nostre donne intorno al sarcofago della giovane duchessa di Cefalonia. Per la Signora fu solo il primo di vari pellegrinaggi alla piccola tomba nuda e spoglia di Militza.
Per quel che i sentieri me lo permisero io visitai, spesso in compagnia del Provveditore talvolta con Maria e la Signora, torri e villaggi dell'isola. Il litorale è abbastanza alto sul mare, con baie e approdi e ciuffi di canne e giunchi, frangiato di molte graziose isolette. Presso il porto di san Giorgio, all'inizio della lunga insenatura del lato meridionale dell'isola, c'è un punto in cui le acque del mare inghiottite da fenditure della roccia producono un ritorno d'acqua, lì alquanto dolce, così forte da dar movimento alle ruote di due mulini. Fu per me uno spettacolo insolito quando l'osservai la prima volta un mattino in cui, ricordo, sul porto l'aria era ancora quasi bianca di latte e frizzante come il mare a quell'ora.
La Signora voleva che gli incontri iniziassero prima del tramonto. Le piaceva ascoltare e guardare il sole nascondersi dietro i pini del parco lasciando il cielo ora rosso ora violetto ora livido e giallo. Poi i servi accendevano le lucerne e i candelabri sul tavolo e sull'architrave del camino e si continuava fino al momento della cena che ancora insieme si consumava nella sala da pranzo.
La duchessa sedeva sullo scanno collocato sopra un gradino accanto al camino. Noi eravamo seduti, raramente in più di dieci, lungo le pareti, a cerchio quasi, mentre Ipazio Lezio restava in piedi presso il leggio e annotava sui suoi fogli le idee e le espressioni più pregnanti che si andavano dicendo.
Certamente l'aura delle nostre sedute non era quella di Napoli, che la Signora aveva respirato nella sua giovinezza, perché la nostra regione solo allora incominciava ad allacciarsi alla nuova cultura italiana. E tuttavia la tradizione letteraria di Terra d'Otranto per quanto eclettica poteva ben accogliere le novità del tempo e il recupero fecondo dell'antico, come avveniva in altri centri.
Erano conversazioni di poesia e di storia, di scienza e di filosofia; e anche di musica, nel periodo in cui fu ospite a san Pietro Ottaviano Donato che ci fece ascoltare nuove armonie vaghe come un giardino fiorito, che egli amava accompagnare con figure e coreografie, come usano nella sua Toscana. Si esaminavano passandoli piano piano di mano in mano i codici che Lezio per incarico della duchessa raccoglieva per i cadenti monasteri greci e nelle famiglie di antichi papas cadute in difficoltà finanziarie: occasioni di fierezza e rimpianto per i nostri avi così pronti al sapere. Furono con noi più volte Antonio il Galateo e Rogeri de Pacienza, intrinseco di Adriana Acquaviva nuora di donna Irene. Si leggeva Petrarca soprattutto ma anche Boccaccio Sannazaro e Pontano, gli "Amores" del quale ci tennero a lungo un anno; e si recitavano anche i versi che inviavano gli amici in volgare in dialetto o in latino, e i nostri. Non costituivamo un'accademia, non avevamo gerarchie o norme o consuetudini da rispettare.
Io ascoltavo idee, mi si illuminavano pensieri taglienti e lucidi che sembravano risolvermi in quei momenti tutte le attese della vita, dare finalmente un'unità alla mia esistenza. Ma devo dire anche questo: provavo a volte un'impressione di fastidio e imbarazzo davanti a certuni che si prendevano troppo sul serio, dico di alcuni certo non di tutti, davanti al loro esaltarsi nel parlare di sé; Ariosto e il Magnifico sembravano loro compagni di piatto di scuola di letto... Con Celestina si sorrideva spesso del loro non saper ridere di sé.
Mi piaceva la musicalità della lingua dei miei ciceroni veneziani ma volevo parlare e parlavo soprattutto greco. Cercavo memorie comuni, poche e confuse ne riscontravo ahimé, e scoprivo atmosfere immaginate nei racconti dei vecchi di Soleto.
Un giorno visitai con Lezio le rovine di Crane. Calpestando le pietre muschiate delle mura dell'antica città ellenica ci lasciammo andare in tristi considerazioni sul decadimento del nostro popolo. Dimentichi della gravità del nostro passato perdevamo dignità e robustezza morale ogni giorno di più, mentre nuovi barbari dall'oriente e dal nord ci avevano confusi e avevano sommerso la piccola e la grande Grecia e tutta l'Italia. Non c'è pace per il mare nostro.
Era un mattino tiepido di maggio e noi cavalcavamo adagio parlando melanconici e sentendoci impotenti e insicuri. Il sole era alto quando superammo una collinetta di canne e si apri luminosa alla nostra vista una lunga spiaggia di sabbia finissima lambita silenziosamente dal mare. Quell'acqua che lasciava trasparire limpida un fondale ondulato e basso percorso da centinaia di pesci guizzanti veloci fra levigati sassi grigi e più al largo rispecchiava l'azzurro del cielo, mi risvegliò un sentimento di attesa, di serenità nel dolore senza speranza; decisi di essere paziente, volli decidere di non essere triste.
Forse il nostro mondo deve farsi più vasto, tornavo a pensare, forse è giusto che ci sia un'unità più grande delle nostre regioni, del nostro antico regno, più unità capaci in sé di molteplicità e confronto, dove l'uomo si senta più piccolo e respiri più umanità.
"Nessuno mi tocchi quando sarò morta; non mi si lavi, non mi si rivesta; voglio essere sepolta con l'abito che indosso ora". Lo aveva detto Irene pochi giorni prima di morire. Se toccare vuol dire impadronirsi...
C'ero anch'io in camera con don Ferrante quando la Signora proferì queste parole. Costantemente mantenuta in penombra, la stanza aveva la finestra rivolta a oriente aperta sul piazzale esterno del palazzo. Con l'aggravarsi della malattia aveva voluto trasferirsi lì per le sue notti insonni e le interminabili giornate. Sentire al mattino le ruote dei carri sul selciato, destarsi dal torpore dell'ultimo buio della notte con l'abbaiare dei cani e le voci dei contadini e dei servi, era diventata per lei una necessità quotidiana come bagnarsi le mani e umettarsi il viso e le labbra al primo riversarsi della luce dell'alba nella stanza. Nei lenti crepuscoli della sua ultima primavera quel tramestio le confortava l'inedia l'attesa di niente il non essere più ricercata da alcuno, il suo sopravvivere troppo a lungo dimenticata.
La vera malattia della Signora era la stanchezza e la noia. Forzata dal destino a essere pubblica nella macchina del mondo, Irene aveva dovuto combattere con gli uomini, sopruso al suo spirito mite e riservato. I suoi lutti erano stati lacrime dissimulate, il suo pianto era esploso soffocato nel cuore. Non aveva potuto scegliere e la Fortuna le era straripata addosso e l'aveva travolta.
Forse per la sua matrice figurativa greca dai tocchi minuti e sottili o forse per la sensibilità tenera e appassionata, raffinata a bottega a Venezia, Angelo Bizamano aveva ricevuto l'incarico dal Provveditore di comporre per la cappella del castello il polittico della Vergine con i santi Giovanni e Giorgio.
La pittura mi aveva sempre colpito per certi toni di colore che mi piacciono molto, per i temi rappresentati e certe associazioni che la mia mente mi suggeriva. Osservavo una tela e meditavo, passavo dalle immagini dipinte a fantasie immaginate; la pittura era per me una provocazione al sogno. Sin da bambino sognavo sui demoni della controfacciata di santo Stefano, sui volti foschi e languidi della chiesa di santa Caterina.
Fu nei mesi in cui ebbi dimestichezza con Angelo a Cefalonia che mi resi conto di aspetti più materiali di questo mestiere, ugualmente affascinanti, tutto il travaglio, che Angelo paragonava volentieri a un esercizio ascetico, che dalla preparazione a gesso e colla della tavola giungeva alla verniciatura con sandracca e olio di lino, fatta ben asciugare la pittura.
Angelo aveva personalmente disposto le tende chiare di canapa sulle pareti al fine di attutire e meglio indirizzare i raggi del sole, che quasi in verticale scendevano dagli alti finestroni dello studio: "Il colore", diceva, "parla più dell'immagine, io lo amo più della forma, lo voglio vero e insieme fantastico. La luce su ogni figura è molto importante". Sempre all'alba o al tramonto egli trovava sellato il cavallo per le sue passeggiate all'inseguimento dei colori, alla ricerca di sensazioni spirituali, come diceva...
Donna Irene visitava spesso lo studio e a volte partecipava ai nostri discorsi. Trascorreva con intensità i suoi giorni di Cefalonia, gustandoli in tutta la loro varietà di colori rumori luci silenzi; voleva fissarli nei pensieri, accumularli nel cuore, dipingerseli sull'icona incompiuta della vita. Angelo capiva bene le confessioni della duchessa mediante il suo simbolismo e sosteneva che l'artista l'opera lo spettatore si scompongono nella trascendenza senza senso dell'uomo, per ritrovare proprio in essa una loro ricomposizione naturale in un fremito, in un'idea. Quando il nostro ragionare tornava su questo tema, ogni volta si restava poi a lungo in silenzio quasi a voler aspettare un breve momento di batticuore. La Signora contemplava l'azzurrino della campagna che Angelo andava creando alle spalle dei santi sulla tavola, irraggiungibile nella sua purezza come la trasparenza splendente di certi tramonti salentini. Le lontananze celesti che egli solcava di nubi diafane erano, per usare un'espressione di Irene, un'occasione al traboccare del desiderio.
Sono stanco ora. Mi sento nella condizione di chi ha consumato tutti i suoi pensieri e non ha voglia o capacità di pensare e sentire più nulla. Avrei voluto ripresentarmi alla mente e agli occhi tanti volti e tante voci ancora di quelle antiche stagioni, di quell'indimenticato viaggio a Cefalonia. Mi sento sfinito saturo e insieme svuotato. Forse la ragione che stanotte ha rincorso il passato mi ha guastato l'illusione che si conservava in quei ricordi, il fascino compiacente e impostore del fluido sottilissimo del tempo. Anche in quei ricordi ho inseguito il vento.
Ora spegnerò la lampada e prenderò dalla parete la lucerna che mi condurrà in camera; poi smorzerò anche la candela sul cassettone e il vuoto e il buio, forse prima mi vedrò fugacemente nello specchio, mi getteranno nel sonno.
La vita è un cammino verso un termine sconosciuto e mai realmente finale o un ciclico tornare lì da dove si viene, sempre? Devo aspettare o contemplare?
Questo pomeriggio ho fatto una lunga cavalcata a tutta corsa in campagna; andavo verso il querceto della serra e il cielo che mi veniva incontro diventava sempre più rosso. Mi sono fermato fuori del bosco, la fronte e gli occhi freddi di vento, il cavallo ardente e scalpitante sul tufo, in quel breve spazio del tramonto quando prima del cader delle tenebre il sole illumina di più il mondo e dà un'ultima dimostrazione della sua potenza con un prodigioso chiarore sulle cose.
La Signora ora avrebbe chiuso gli occhi e respirato in segreto.

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