§ Un inedito racconto giovanile

Le fascine di sarmenti




Ennio Bonea



A Rutano la guerra finì col ritorno dell'ultimo paesano; in ritardo, come ogni cosa che veniva dal resto del mondo che, pur con la ferrovia a cinque chilometri, viveva lontano come se fosse a mille. Non che la notizia della vittoria avesse impressionato qualcuno: la miseria, la carestia, la mancata vendita della poca uva per tre anni di seguito avevano fatto scomparire la moneta liquida e tenevano oppressi i paesani in troppi pensieri perché badassero ad una guerra che era stata sempre lontana, salvo pochi momenti, dalla loro attenzione.
A riunire tutti i soldi dei paesani non ci si sarebbe comprato un aratro nuovo; era, questa esperienza, vecchia quanto le generazioni che si erano avvicendate su quella terra, in quelle poche piccole case, rinnovate ogni tanto con una patina di calcina. Avevano sempre resistito e avevano sperato sempre nella prossima campagna, cioè raccolto; le privazioni e la fame erano abitudine segnata ai lati della bocca, anche dei più giovani; ma una carestia così tragica, così lunga, non se la ricordavano neanche i più vecchi del paese.
L'unico ricco, se così si poteva chiamare, era padron Antimo; ma costui era come se vivesse fuori dal paese. Cresciuto, fin da ragazzo, solitario, preoccupato solo dei fatti suoi, caparbio in ciò che voleva, era riuscito a comprarsi, a poco a poco, diversi fondi a prezzo di sacrifici e di rinunzie; altri glieli aveva portati in dote la moglie. Era scontroso, prepotente, restìo alle amicizie, disposto solo alle discussioni nelle quali potevano avere il predominio le sue opinioni; era temuto e rispettato, odiato ed invidiato a seconda dei momenti e delle circostanze che intorno a lui, come centro dell'attività agricola paesana, si venivano creando.
Aveva sposato, per quei capricci di cui si compiace la sorte e per quegli accoppiamenti assurdi che opera la natura, una donna bella, piccola, timida, remissiva, sempre pronta a tacere e a piangere in disparte col figlio in grembo, i figli li amava a modo suo, di un affetto chiuso e possessivo, senza tenerezze e concessioni, orgoglioso che gli somigliassero. In casa non dimenticava di essere anche lì il padrone, era la legge, pronta a punire; mai che ci fosse una lode; un brontolio era il suo segno di approvazione; tuttavia, era attaccatissimo alla moglie e ai figli, come un leone che guarda fiero, in disparte, i suoi cuccioli fare le capriole intorno alla mamma.
Padron Antimo la guerra non l'aveva fatta, non aveva l'età adatta per poterla fare, passata la cinquantina; vide partire un gruppo di giovani, una mattina di marzo, mentre stava arando la "cupa", un pezzo di terra sulla strada che portava alla stazione. La sera, seduto davanti al portone della stalla, la moglie gli disse i nomi dei partiti. Passarono quasi due mesi, e un giorno tornando da campagna dove era stato a godersi le spighe pronte per essere mietute, il farmacista, dalla soglia della farmacia, gli gridò dietro che era scoppiata la guerra.
"Ah ah" mugolò e, fatto un cenno di saluto, tirò dritto verso casa.
Venne il raccolto, la vendemmia, l'inverno, la primavera; in paese la guerra era un avvenimento lontano, che aveva perduto interesse col passare dei giorni. Tornò ad impressionare gli animi delle donnette quando giunse a Coco "Facchiacchiere" una lettera del Ministero della guerra. Gli comunicava che suo figlio Adolfo era caduto da soldato valoroso e che era stato proposto per una ricompensa. Nel paese ci fu scompiglio, e la tragedia della morte era, ironicamente, bilanciata da quella ricompensa al valore di cui tutti parlavano con ammirato bisbiglio. Il silenzio cupo delle strade arroventate dalla canicola come un incubo avvolgeva le basse case bianche, dalla calcina screpolata.
Quando la sera Antimo, seduto, al solito, dinanzi alla stalla apprese la notizia, non seppe dir di meglio che: "Eh, la guerra è fatta di cannonate e di morti. Prima invece, come ho letto nell'Ettore Fieramosca, prima c'era il valore, ora l'Adolfo di Coco "Facchiacchiere" sarà morto con una pallottola in fronte, dove sta il valore?"
Poi la guerra tornò a scomparire dalle discussioni dell'osteria tra gli uomini seduti uno accanto all'altro sulle lunghe panche di legno addossate ai muri dell'ingresso, che parlavano della siccità che ammazzava le piante, della peronospera che si mangiava la vigna, della mosca che rodeva le olive e imprecavano, a turno, contro la natura per l'anno di fame che si avanzava.
Padrone Antimo però guardava con occhi indignati gli uomini che spendevano all'osteria i venticinque soldi della giornata invece di risparmiare, come aveva fatto lui che si era fatto un piccolo palmento dove lavorava l'uva delle sue vigne per fare vino che vendeva all'osteria.
Avrebbe potuto venderlo in casa sua, nella stanza affianco della stalla; lui dietro il banco a mescere dal boccale di creta nei bicchieri o nelle bottiglie, la moglie all'altro capo del banco a intascare i soldi, i tre-figli grandetti avrebbero passato a vicenda i boccali vuoti, riempendoli dal tino, ma non gli piaceva la confusione e non voleva servire nessuno. La sera, quando erano andati a letto i ragazzi, Antimo con la moglie si lasciava andare, talvolta, a moralistiche considerazioni, con valore di autocompiacimento.
"Peppina, serba la farina quando il granaio è pieno" diceva quasi soddisfatto; la moglie abbozzava un timido sorriso, ma, pensando a Chicco della Immacolata e a tanti come lui, che a quell'ora stavano forse battendo la moglie, ubriachi per disperazione, si sentiva in colpa, come se fosse lei la causa della carestia e della ubriachezza dei paesani. Una sera si fece coraggio e lo disse al suo uomo.
"Donna," rispose Antimo "se gli uomini sono pazzi non ne abbiamo colpa né io né te. Vogliono bere? io dò il vino. Gettano i soldi? io li raccolgo. Tempi infami verranno, ricordati che ti dico stasera, tempi brutti; io ci penso, con la guerra e la carestia chissà dove andremo a finire. Ho lavorato tutta la giovinezza, lavorerò fino a quando non mi porteranno fuori di casa con i piedi rivolti alla porta, ma non getterò mai un soldo in mezzo alla strada; magari mi piego per prendere quelli che trovo, se ne trovo, se no, a casa mia un pezzo di pane ed un bicchiere di vino non mi mancano. Che colpa hai tu, o io, se gli altri non riescono a limitarsi?"
L'inverno passò umido e ventoso; in primavera i seminati erano radi e gracili come un gregge sterminato dalla moria; gli uomini con gli occhi infossati e le guance scavate dalle privazioni e dalla pena di giorni inoperosi e senza guadagno, dopo aver guardato malinconicamente durante il giorno quelle gracili spighe, come se i loro sguardi imploranti alla terra le potessero proteggere da altri malanni, si raccoglievano la sera sullo spiazzo dinanzi alla farmacia, come luogo d'incontro e di informazioni quotidiano. Stavano silenziosi, con gli occhi bassi, con una pena comune, tenuta segreta, ma in tutti impressa nel viso e nello scarso interesse ai discorsi smozzicati sulla guerra; anche i nuovi morti non suscitavano più impressione, salvo che ai parenti.
"E' morto Tatu della Monica."
"Meglio per lui, s'è liberato" diceva qualcuno. "E' morto Pati Settecapo."
"Ha finito di penare" aggiungeva una voce stanca.
Pure gli altri morti: Tore Manno, Gicco Sasso, Vito dell'Andata, pianti dai parenti, non fecero colpo sui paesani; forse invidia.
La guerra che si combatteva lassù sulle Alpi, la disfatta di Caporetto, l'invasione bloccata sul Piave, erano lontane da Rutano, molto lontane e il dottore, don Filippo, che continuava a leggere il giornale davanti alla farmacia, non era ascoltato da molti. Pensavano piuttosto, i paesani, a come pagare a padrone Antimo qualche lira di debito in sospeso e a come procurarsi qualche lira in prestito.
Era il secondo anno di fame, nelle strade infuocate dal solleone erano scomparsi i cani randagi; i carrettieri lasciavano andare passo passo i loro muli e i cavalli, senza i gridi urlati che accompagnavano gli schiocchi delle scuriate, distesi bocconi sui carichi di paglia, coi cappellacci calati sugli occhi contro il dardeggiare del sole. Sull'aia i cavalli giravano lenti sulle spighe povere che gli uomini alzavano in aria a forcate per sciorinarle al vento, non scosse da un filo d'aria. L'acqua cominciò a scarseggiare nei pozzi e nel paese gravava il fetore del "carro" che nel giro pomeridiano raccoglieva il contenuto dei grandi vasi di creta tenuti durante il giorno sotto i letti. Il dottore andava mormorando che continuando così sarebbe scoppiato il colera. La terra si andava spaccando in crepe minacciose, pareva dovesse spalancarsi da un momento all'altro; le mosche e le zanzare avevano campo libero. In chiesa le donnette, vestite di nero coi fazzolettoni sul capo legati a nocca sotto la gola, non pregavano quasi più per i morti e per i vivi, pregavano per la terra malata e assetata, per le vigne vizze, per gli ulivi scheletrici, pregavano per le bestie e per i bambini; per sé chiedevano a Dio che se le portasse presto in purgatorio "a 'ddefriscu", per rinfrescarsi.
L'estate finì a settembre. Un acquazzone tremendo si rovesciò dal cielo aperto sulle piccole case; al principio tutti erano sugli usci a guardare sorridenti al cielo; le sferzò sino a farle tremare, le sommerse salendo fino al livello degli usci, le strade parevano torrenti, la terra riarsa beveva come a saziarsi. Nella notte la furia del vento e dei tuoni ai paesani parve una sinfonia suonata dalla banda che veniva per la festa del patrono e pensavano che erano tre anni che non si faceva la festa.
La mattina verso le dieci, l'acqua cessò di cadere, improvvisamente; la terra ubriaca aveva smesso di succhiare; un pantano enorme, che circondava l'isoletta di Rutano, si presentò agli occhi stralunati dei paesani corsi verso i campi delle loro speranze. Sull'acqua si levavano contorti e spettrali gli ulivi; spuntavano timidi come colpevoli i ceppi della vite, con le foglie dimesse, i grappoli disfatti. Nella melma rimasta dopo alcuni giorni, furono sepolte le illusioni dei poveri paesani, affranti come i grappoli spappolati delle loro vigne. Ora era finita davvero.
"Eh, va male, va male" bofonchiava padrone Antimo costretto a restare in paese, dinanzi alla farmacia.
"Padrone Antimo, non vi lamentate voi, padrone Antimo," - dissero due tre voci insieme, stizzite - che dobbiamo dire noi che avevamo la sola speranza dell'uva e degli ulivi per lavorare?" "Mannaggia la vita! Sempre così è stato, il cane mozzica sempre lo straccione" aggiunse un altro.
"Già, che i raccolti miei me li sono presi io, no?" - tuonò padrone Antimo - "Il vino me lo faccio con l'acqua che cade dal cielo."
"Ce li avete i soldi per comprarvelo da fuori" fece Ciccio dell'Immacolata. ,E a chi lo vendo, me lo dite voi a chi lo vendo?" gridò Antimo.
Su questa considerazione, piombò un silenzio pesante; ognuno pensava a se stesso, alla famiglia, a questa condanna senza possibilità di rivolta, contro chi? contro che cosa? Meglio scomparire che lasciarsi consumare come i vecchi cani; meglio farla finita subito, pensavano. Ma era soltanto un modo di dire; il suicidio era lontano dalla loro povera cultura e dalla loro religione di paura dell'inferno e di speranza del purgatorio, il paradiso era per gli innocenti e i santi.
La disperazione era sprofondata allo stremo, al punto che nessun discorso o notizia poteva interessarli. E la vita continuava solo come fatto biologico.
Pure maestro Emilio barbiere e il farmacista, don Carmine Rufo, che prima tenevano circolo, avevano anch'essi smesso di parlare. A chi parlare? Nessuno più si curava di sentire se il tale fosse vivo o morto, se un treno era precipitato da un ponte e se la guerra era finita.
Anche la fine della guerra, anche la vittoria, il ritorno all'Italia di Trento e Trieste, non scossero quei fantasmi che raccolsero i reduci con lo sgomento di chi non può offrire nulla alla persona cara che ritorna, con la mortificazione di non poter mettere sul fuoco una gallina a bollire; le galline erano scomparse da tempo.
Cheli era partito con quel gruppo di giovanotti che padron Antimo aveva visto allegri e spensierati. Ora tornava a casa a tre mesi dalla fine della guerra; una dannata scheggia lo aveva ferito proprio nell'ultima settimana di guerra.
Appena il treno rallentò prima di entrare in stazione, Cheli aveva aperto lo sportello, aveva cacciato fuori la testa per vedere quella casupola gialla con le tegole rosse e il nome Rutano scritto in nero; il cuore gli batteva in gola. Saltò via dal treno di slancio che quasi era caduto; veniva giù un'acquerugiola fina, fitta, puntuta; ma non se ne curava; s'avvicinò alla porta della stazione per salutare don Fiorino, ma il capostazione era cambiato. Disse un "buongiorno" distratto e imboccò il cancello che dava sulla strada dritta che portava a Rutano; incontrò Giacinto, il manovale-deviatore.
"Ohilà Cheli, bravo, bravo, ben tornato, come stai?" e Giacinto gli andò incontro, se lo tirò tra le braccia, perché Cheli era rimasto fermo, inchiodato. Non ebbe il tempo di rispondere; il vecchio conoscente, battendogli sulla spalla manate di saluto che lo scuotevano tutto, continuò a parlare.
"Sai che sei l'ultimo a tornare, Cheli? Eh, per via della ferita, vero? La devi aver passata brutta, ma ora tutto è finito, non ci pensare più. Non stai bene? Sì, sì, si vede, beh, un po' magro, ma ti rimetterai presto. Allora Cheli, fatti vivo qualche volta se arrivi da queste parti, passa dalla stazione, un salto e via."
Così rimase solo, senza aver avuto il tempo di dire una parola, senza aver avuto un minimo accenno dei suoi familiari che l'aspettavano; vide Giacinto allontanarsi e prese a camminare. Aveva fatto pochi passi appena, e si sentì chiamare:
"Cheli, ehi Cheli"; si fermò, era la voce di Giacinto, non si volse, se lo sentì venire addosso di corsa, tutto affannato, gli si mise di fronte, lo guardò fisso e non disse nulla. Taceva, taceva e Cheli si sentiva dannare, voleva gridargli: "Parla, parla, dì che sono diventato storpio, ma non stare lì a guardarmi con occhi che mi fanno tremare."
Voleva gridare, voleva urlare che smettesse di tacere, voleva, voleva... Si gettò tra le braccia del primo paesano che aveva incontrato e pianse le lacrime della sua disperazione, del suo sconforto. I suoi singhiozzi si soffocavano sul petto di Giacinto che lo teneva abbracciato senza parlare, con un nodo alla gola anche lui. Dintorno la campagna era triste e spoglia, il cielo grigio e basso sembrava circondare quel dolore quasi con partecipazione e, con quell'acqua che veniva giù sottile e fastidiosa, pareva piangere anch'esso su quel simbolo del dolore umano.
Il piangere solleva la pena del cuore e dà una triste dolcezza all'innocente; così Cheli si andava saziando e i singhiozzi non faceva sforzo a soffocarli sul petto di Giacinto; il pianto divenne un sospiro più forte del normale; un pianto quasi sorridente, si era finalmente sfogato.
Si sciolse dall'abbraccio, guardò negli occhi Giacinto, gli strinse forte le mani, disse un "grazie" Che gli veniva dal cuore e lo lasciò deciso. Voleva arrivare presto a casa, ora. Dei due che si allontanavano sempre di più, il più curvo, il più triste, era Giacinto, che si era mosso per consolare.
Cheli sembrava trotterellare con quel suo incedere a ranocchio sulla strada infangata che conduceva al paese, a casa sua. Andava veloce senza badare alle pozzanghere, alle pacche di mota; un solo assillo lo animava, giungere presto.
Allo sgomento, dopo il benefico pianto, era subentrato un senso di fiducia e di orgoglio. Certo era zoppo, ebbene? era un mutilato, aveva combattuto per la patria, gli era scoppiata una bomba a quattro passi; poteva anche morire; gli avevano dato una medaglia di bronzo, era quasi un eroe. Man mano che si avvicinava, questi pensieri ingigantivano; quando superò la piccola salitella, una gobba della strada in verità, a sinistra della quale c'era il cimitero, salutò marzialmente i suoi morti, sussurrò a mezza voce un abituale "reque meterna", vide la prima casa del suo paese. Tirò fuori il petto, cercò, per quanto poteva, di camminare dritto, voleva fare un ingresso trionfale, si sentiva un eroe e si prendeva quella pioggerella fina, puntuta, come un consapevole sacrificio che pretendeva un riconoscimento dal prossimo; sì, sì, era un eroe, il capitano medico glielo aveva detto prima di accorciargli la gamba, gli aveva detto: "Beh, eroe, non griderai mica eh?" e lui non aveva gridato; veramente non aveva gridato forte, qualche strillo l'aveva pur dato, chi non l'avrebbe dato? voleva vedere un altro al suo posto, altro che urla, sarebbe morto dal dolore.
Poi ... poi... e il pensiero ora gli diventava pesante e il cuore gli si stringeva; quando lo riportarono in corsia, andò il cappellano a trovarlo; ebbe paura lì per lì di morire e che il prete lo venisse a confessare e magari fosse morto! Invece cominciò a parlargli, gli disse tante cose; tante cose che ora non ricordava più perché si mise a piangere immobilizzato com'era dalle funi e dai tiranti; ricordava solo benissimo: "Figliolo, non ti abbattere, potrai sempre lavorare, avrai la tua pensione mensile."
Il ricordo di queste parole, il pensiero del lavoro, della pensione, gli spensero ogni orgoglio e lo riportarono alla realtà.
Le case del paese si avvicinavano ad ogni passo; aveva raggiunto le "colonne", due pilastri sul fianco della strada, rosi dal tempo, uno più alto dell'altro, segni antichi di chissà quale costruzione iniziata e non finita o limite di una proprietà andata in rovina. L'andatura rallentò, il petto tornò a poggiare, quasi stanco, sulla pancia,- la testa assecondava il dondolio della gamba zoppa e la pioggia, uff, quella pioggia noiosa e snervante gli metteva un freddo... Pensò ai paesani che avrebbe incontrato fra pochi passi, meno male che pioveva, forse non ne avrebbe incontrati, meglio. Pensò a sua moglie: quanto l'aveva desiderata, ritornava a lei ogni sera quando era in trincea; la vedeva bambina, fidanzata, la prima notte di nozze, l'ultima notte prima della partenza. Ora tornava inatteso, zoppo, senza averlo confessato nelle sue ultime lettere, invecchiato, deluso. Aveva vinto, ma non aveva avuto niente lui, aveva cantato e combattuto per Trento e Trieste, ma non le aveva neanche viste, solo monti e paesi.
Venezia l'aveva vista, ma Rutano gli sembrava più bello di tutto, le sue campagne più ricche; ora, era lì il suo paese, vi stava entrando; gli pareva brutto e triste, triste e piccolo, troppo piccolo, troppo silenzioso, troppo deserto; le porte chiuse, le finestre chiuse e nessuno ad attenderlo, e la sua casa era alla fine del paese. Pensò che quella notte sarebbe stato con sua moglie, coi suoi figli: che cosa avrebbe detto? Cosa avrebbe fatto? E vide la farmacia, sempre là, con la targa di smalto bianco e con la scritta nera; la bottega di vino della Fedela, vuota, con la porta aperta, e la bottega di mastro Emilio barbiere, vuota con la porta chiusa. Dove erano andati tutti? Sembrava un paese morto. Andava avanti più in fretta. Che fango che c'era nella sua strada. Si fermò. Il cuore gli batteva forte in petto, le gambe gli tremavano, spinse la porta piano, dette un'occhiata in giro per la stanza: il tavolo rotondo, il lume sul tavolo, il letto grande in un angolo, il letto dei ragazzi nell'altro. In un attimo tutta la vita passata gli fu dinanzi agli occhi e gridò, gridò, con quanta forza aveva in corpo, con strazio, gioia, rabbia, terrore: Gina, Ginaa, Ginaaa.
Si strinsero furiosi come due gatti, mugolando, piangendo, palpandosi, guardandosi, avvinghiati disperatamente come se dovessero staccarsi per sempre.
"E i ragazzi?" chiese Cheli sfilandosi il tascapane e lasciandolo scivolare a terra mentre si sedeva su una sedia.
"Sono andati ad Erbantano a fare legna" rispose la Gina abbassando gli occhi; poi sedette di fronte al marito, gli cercò le mani, se le tennero unite sul tavolo.
Era giunto il momento delle confessioni e Cheli provò a parlare di quella gamba più corta, ma non ebbe il coraggio, rimandò tutto a più tardi. Dopo qualche minuto fu la Gina che parlò: "Sai Cheli, non c'è né lavoro né pane, mi sono salvata con quei pochi soldi guadagnati andando a raccogliere ulive; i ragazzi non me li prendevano e quasi ogni giorno si fanno otto chilometri per fare un po' di legna nel bosco."
Cheli per la prima volta da che era entrato posò l'occhio sul camino al centro del muro in fondo alla stanza: l'arola era linda e pulita e la cappa bianca quasi senza tracce di fumo; sui muri erano appesi il calderotto di rame lucida, le mollette dei carboni, il treppiede.
Da quanto tempo non accendono il fuoco? E che vanno a fare legna? pensava; lo sguardo si posò sul tarallo di legno dove c'era incastrato un vecchio bacile che faceva da braciere, lì c'era un mucchio di cenere nera, la cenere di sterpi e di rami che accesi puzzano di umido, fischiano e fanno fumo: "Freddo e fame" pensò e un brivido gli percorse la schiena per scendergli sulla gamba più corta.
"Maledetta gamba" disse tra sé.
"A che pensi? dimmi della ferita" gli chiese la moglie.
"Dopo, dopo," rispose e si chinò sul tascapane "oggi dobbiamo fare festa" e tirò fuori due pagnotte militari; "carne in scatola" e poggiò sulla tavola, "salmone" e la mise a fianco di quella già poggiata; "sono dell'ultima razione per il viaggio, le ho conservate perché in treno non avevo fame, mi sono mangiata una pagnotta e sto bene."
Gli occhi della Gina brillarono: "la carne" disse. Si alzò e correndo uscì nella strada. Cheli rimase solo, ripensò alle parole del cappellano: "Tornerai a lavorare e poi avrai la pensione."
"Lavorare? e dove? chi mi prenderà sciancato come sono? e la pensione! sì, la pensione, chi sa quando arriva."
La porta si spalancò e una voce lo fece girare: "Compare Cheli, ben tornato grazie a Dio, ben tornato! Eh, questa povera commare Gina come ha penato! ma ora grazie a Dio tutto si mette a posto."
Cheli rimase seduto e rispose: "Ah commare Immacolata, come state? il compare sta bene?"
"La commare Immacolata ci ha dato queste frise e una pendola di pomodori" disse la Gina alle spalle della commare, che si scherniva: "Niente, niente, non ci pensate, con questi tempi non posso fare di più, e poi che bisogno c'è di ringraziare, pure la regina ha bisogno della vicina" e si andava tormentando il grembiale con le dita. "Me ne torno a casa, voi avete bisogno di stare soli" e si girò verso la porta.
"Grazie, commare, Dio ve ne renda merito" - sussurrò Cheli - "salutatemi il compare" fece a voce più forte.
"Non ci badate, sono i tempi, non posso fare di meglio" gridò la donna quasi allegramente, tirandosi la porta dietro.
La Gina cominciò a metter tavola, Cheli seduto la guardava muoversi e sentì il sangue bollirgli ma non si mosse, a una girata di tavola le afferrò un braccio e la tirò a sedere sulle gambe; la donna si abbandonò su di lui.
"Gina, la guerra è brutta, è brutta assai, ti vedi morire a fianco i compagni e non puoi fare nulla. Grazie a Dio io sono salvo. Parti e non sai se torni; parti in un modo e torni in un altro, non sai quello che ti succede."
La donna taceva e gli carezzava i capelli.
"Uno parte con due braccia e torna con uno, gli danno una medaglia, mbeh? La medaglia vale il braccio che manca?"
La donna taceva e continuava a carezzarlo.
"Uno parte con due gambe e se ne torna con una di meno, magari se ne torna con due, ma ... "
La porta si spalancò di schianto spinta dal di fuori, Cheli si girò: sull'uscio i suoi tre figli, immersi in giacche che arrivavano oltre le ginocchia, coi capelli zuppi sulla fronte. i ragazzi rimasero imbambolati a fissare quel soldato seduto presso il tavolo e non si scossero quando la madre disse: "E' tornato papà."
Cheli li chiamò, li tirava quasi con gli occhi che si muovevano lenti, controvoglia, li chiamò ancora, se li strinse tutti e tre al petto come pesi morti che si lasciavano baciare, palpare, carezzare dal padre arrivato senza che se lo aspettassero, che conoscevano appena. Tore, il più grande, sui dieci anni, fu il primo a svincolarsi dalla stretta e andò alla porta, tirò il saliscendi della parte fissa; anche Pici, il mezzano, si liberò dal padre e aiutò il fratello a tirare dentro casa, alzandola sul gradino della soglia, una sorta di slitta, fatta di strisce di tavola inchiodate a due traversine, carica di rametti e di sterpi. La portarono, tirandola dal filo di ferro fissato ai due angoli anteriori, in mezzo alla stanza fino al tarallo di legno del braciere, uno cercava qualche legnetto meno bagnato e lo mise sulla spianata del focolare attizzando fuoco e soffiandoci sopra con tutta l'anima, l'altro con un vecchio cucchiaio cerneva la cenere togliendo quella superflua e l'altra rimasta la dispose a cratere per raccogliere al centro i tizzi accesi e fumosi che rincalzarono con un po' di cenere; sfilarono poi il bacile dal tarallo e di corsa lo portarono fuori la porta, sul gradino della soglia per fare consumare il fumo e carbonizzare i tizzi col vento. Cheli non riusciva ad ingoiare, accarezzava il capo di Pippi, il più piccolo, appoggiato su quella gamba disgraziata, che pareva dormisse, silenzioso com'era. Pensava che prima di partire il fuoco lo trovava acceso quando tornava a casa, ed ora si sentiva inutile, lì seduto a guardare i figli e la moglie che si davano da fare.
Quando la tavola fu apparecchiata, Tore e Pici portarono dentro il bacile, lo infilarono nel tarallo, lo spinsero sotto i piedi del tavolo, si sedettero; la moglie prese di peso Pippi e se lo sistemò accanto alla sedia, Cheli si tirò avanti. Nel centro della tavola, da due piatti grandi di creta coi fiorellini azzurri ai bordi, ognuno cominciò a tirarsi alla bocca con la forchetta di stagno, aiutandosi con un pezzettino di pane, il salmone e la carne. Quel giorno fecero festa. Cheli parlò e parlò: della guerra, della ferita, della pensione.
Finirono di mangiare che si era già fatto scuro.
Durante l'inverno, quando le giornate finiscono presto, in paese per risparmiare il petrolio dei lumi, si va a dormire con le galline; gli uomini magari escono e si ritrovano all'osteria della Fedela per farsi la partita a carte e giocarsi un quartino. Ma quelli erano tempi tristi e perfino la Fedela era costretta a mettere i ferri alla porta molto presto.
Quel giorno però la Gina accese il lume, era festa per lei; faticò un poco a convincere Pippi che non voleva saperne di coricarsi tra Tore e Pici; non passò mezz'ora che nella stanza si sentì il respiro profondo dei ragazzi stanchi e il tic-tac della vecchia sveglia di latta che Cheli aveva comprato proprio prima di partire per quella maledetta guerra.
"Ti vai a fare una partitella dalla Fedela?" chiese la donna.
"No, no," rispose "sparecchia tavola che io intanto mi spoglio."
Pensava che era giunto il momento di parlare. Cosa avrebbe detto la donna? come avrebbe reagito? e se non avesse voluto saperne di tenersi accanto un marito sciancato? sarebbe stato meglio per lui morire. E se avesse aspettato quando erano a letto? in fin dei conti aveva una. decina di centimetri di osso in meno, ma per tutto il resto era sano. Sì, sì, era meglio aspettare che fossero coricati, al.buio, era il momento più adatto; guardò la moglie indaffarata intorno al tavolo e ai piatti, attese il momento in cui era di spalla e d'un balzo con tutta la sedia fu accanto al letto.
"Ssst, che mo' li svegli."
Cominciò a slegare le fasce che gli serravano i polpacci, se li grattò con voluttà, si sfilò gli scarponi, posò la giacca e i calzoni ai piedi del letto e d'un salto fu sotto le coperte. Si spostò vicino al muro ed attese col cuore che gli tempestava le tempie. Chiuse gli occhi senza pensare a nulla, seguiva le palline luminose che si muovevano sotto le palpebre chiuse finché sentì il corpo della donna pesare sul saccone di foglie di granturco e il soffio sulla campana di vetro del lume. Si girò verso di lei, la tirò a sé con forza e nella stretta ebbe il coraggio di confessarle la sua tragedia, di svelarle la sua paura, di implorarle la sua preghiera. Nel pianto rabbioso che li unì trovarono la purificazione del loro desiderio di tante notti di solitudine.
Cheli stava sognando casa sua e la guerra quando si sentì scuotere e aprendo gli occhi gli parve che il sogno continuasse, vedendosi la moglie accanto; si riebbe subito quando la donna disse: "Se vuoi dormire ancora rimani a letto, perché se non piove devo andare a giornata a raccogliere ulive da padron Antimo".
"Noò, mi alzo" rispose, tirandosi a sedere sul letto.
Dalle connessure della porta filtrava una incerta luce grigiastra. Cheli si infilò i vecchi pantaloni borghesi, quelli della festa e indossò la giacca militare, un po' per risparmiare quella buona e poi perché i paesani quel giorno avrebbero visto il nastrino della medaglia. Andò alla porta, tirò il chiavistello, aprì la finestrella e guardò fuori: "Non piove" disse. La moglie si avvicinò al letto dei ragazzi che cominciarono a vestirsi dopo aver mugolato un poco. Cheli si avvicinò a Pippi e lo aiutò a calarsi in quel giaccone, colle maniche troppo lunghe, che lo copriva come un cappotto; la Gina aveva intanto tirato da sotto il letto tre panieri e con due cordicelle ai capi una tela di sacco che si legò ai fianchi del lato più corto e ne infilò di sghimbescio sulla pancia una cocca per poter camminare più libera.
"Vengo pure io," - disse Cheli - "non ho proprio voglia di rimanermene a casa."
"Perché non resti con Pippi invece di lasciarlo alla commare Immacolata?" chiese la moglie. "No, vengo, voglio vedere se padron Antimo mi dà un lavoro."
La moglie mise in un paniere tre frise rimaste dalla sera prima e uscì seguita dai figli; Cheli li raggiunse, tirò la porta, dette tre girate colla chiave piatta e grossa, mentre la Gina aveva bussato alla porta della commare che era uscita e si era tirata dietro Pippi che gridava: "Voglio venire co' papà, voglio venire pure io."
Senza passare in mezzo al paese, girarono per la strada che chiamavano della "macedonia", fecero il giro del paese ed imboccarono la strada della "Scursunara", una zona tutta di oliveti che avevano avuto quel nome da chissà chi per il fatto che era una zona piena di "scursuni", bisce innocue, tutte nere, che si nutrono di erbe e di topi campagnoli. Trovarono il gruppo delle donne che stavano aspettando la Gina per arrivare tutte insieme. Appena la videro cominciarono a darle la baia come di solito fanno le contadine scherzando tra loro, ma la Gina correndo e lasciando un po' dietro il marito e i figli gridava: "E' tornato Cheli, è tornato, ieri". Intanto Cheli zoppicando era ormai giunto presso di loro e le donne si fecero tutte intorno a salutarlo, a toccarlo, stringergli la mano e la Gina rimase un po' in disparte quasi a vedere quale fosse la reazione delle sue compagne. Cheli dava retta ora ad una, ora all'altra sorridendo, facendo gli occhi meravigliati nel vedere qualche ragazzina che ora ritrovava signorina e alla fine, quasi scherzando, ma con un leggero tremolìo nella voce che forse la moglie soltanto potè notare, disse: "Guardate come mi hanno conciato", si fece largo, zittendole via via. "Ecco che cosa è la guerra e poi le donne se li debbono tenere i mariti storpi."
"Ma ci avete le medaglie" disse con un colpo di tosse come per chiarirsi la voce la 'Ndolorata, una donna già anziana, vedova, che era la capo-femmina di padron Antimo. "E poi, ce lo avessi io il marito, pure senza una gamba. Vostra moglie deve ringraziare Dio che siete tornato a casa, eh" - dette un sospiro - "quanti poveri figli di mamma sono morti! Beh, non ci pensiamo più, alziamo i piedi che padron Antimo è già passato col traino e se tardiamo chi lo sente?"
Le donne sciolsero il capannello e cominciarono a camminare, la Gina si avvicinò al marito e gli si mise sotto braccio; ormai il ghiaccio era rotto, Cheli si sentiva sollevato e la donna, pensando alle parole della vedova, sussurrò un'avemaria di ringraziamento.
Più avanti si misero in fila indiana rasente alla carreggiata, perché il fango e l'acqua non permettevano di andare in gruppo. Camminavano in silenzio, badando dove poggiare i piedi; Cheli però girava intorno gli occhi, sui campi che costeggiavano la strada nei quali le lingue verdi dei seminati parevano promettere un buon raccolto, o avanti a sé, dove si alzava un bosco di ulivi, gli ulivi della "Scursunara", il tesoro del paese, alberoni immensi che davano ognuno una macina di ulive, il cielo grigio e basso pareva si potesse toccare, con pennacchi di nuvole all'orizzonte che sembravano fumo di treno, ma minacciavano pioggia.
Quando arrivarono, padrone Antimo aveva "tolto di sotto" la mula che mangiava con la testa affondata in un sacco appeso al collo,- aveva già steso al fianco di ogni albero un sacco e con la pipa accesa stava aspettando. Appena vide le donne, senza rispondere ai vari "buongiorno" che gli rivolgevano, brontolò: "Finalmente! 'Ndolorata, la sveglia mettila mezz'ora prima domani."
La vedova, senza badargli troppo, come abituata a questo genere di complimenti, cominciò a distribuire gli alberi alle donne, tre per ogni albero su ogni filare di ulivi.
Cheli si fece coraggio e si avvicinò: "Ben trovato, padron Antimo."
"Ah, sei tornato!"
"Sì, ieri a vespro, padron Antimo; con una gamba più corta e una medaglia" disse battendosi sul petto.
Antimo lo guardò in silenzio qualche attimo, si tolse la pipa di bocca, poi soprappensieri bofonchiò: "Uhm, la guerra. La medaglia. Uhm" e riprese a fumare.
"Padron Antimo, fatemi la carità di farmi lavorare, mi pagate quanto una donna, ho bisogno di lavorare" disse Cheli tutto d'un fiato.
"E chi non ha bisogno di lavorare? C'è la fame qui caro mio, così tutti gli uomini vorrebbero fare il lavoro delle donne e le donne poi? Una rivoluzione scoppia caro mio se ti faccio lavorare come una donna."
"Ehi, voi, se chiacchierate, a giugno finiremo la raccolta" e si mosse verso le donne.
Cheli rimase solo, appoggiato al traino stanghe all'aria, col cuore sconvolto per il primo rifiuto. Avrebbe trovato da lavorare con quei chiari di luna in paese? Che cosa avrebbe dovuto fare? Guardò la mula dall'altra fiancata del traino e quasi la invidiò: essa lavorava e il sacchetto di biada non glielo levava nessuno- non aveva preoccupazioni di moglie, di figli e di carestia. Forse era meglio se fosse nato mulo, tanto il lavoro lui non l'aveva mai scansato e, uomo o mulo, lavorare doveva; ma lo avrebbe trovato il lavoro?
Si sedette e si mise a guardare le donne che lavoravano: stavano curve, spezzate in due, chine a terra a raccogliere con dita velocissime le ulive cadute nell'aia pulita sotto gli alberi, se le tenevano in pugno finché potevano, poi con un gesto abituale, senza neanche guardare, zaf, tutte nel paniere che si portavano appresso torno torno l'albero. Quando il paniere era pieno si raddrizzavano (come sembravano grandi allora) e lo svuotavano nel sacco che aveva messo padron Antimo, poi giù nuovamente e quando si piegavano Cheli vedeva dalle vesti che si alzavano le carni delle gambe delle donne con un'ansia da stallone e con la fantasia andava più sopra, dove non riusciva a vedere; allora tornava col pensiero alla Gina. La cercava tra le altre, la vedeva coi ragazzi attorno che l'aiutavano per risparmiarle lavoro, ma in effetti recando vantaggio solo a padron Antimo che non li pagava e diceva di tenerli solo per fare un favore alla Gina. Chissà se anche padron Antimo non si sedeva sotto il traino e si metteva a guardare le gambe delle donne, della Gina che le aveva più belle di tutte. Sentiva di odiarlo, quasi dimenticando che non poteva certo avere il tempo di guardare le gambe. Appena un sacco era pieno, infatti, padron Antimo lo prendeva per le due cocche delle cuciture laterali, lo smuoveva un poco da una parte e dall'altra per fare rassettare le ulive, chiudeva la bocca in una mano e poi passava in giro lo spago per chiuderla; trascinava il sacco pieno vicino al traino aiutato dalla capo-femmina e passava ad un altro albero fino ad esaurire i sacchi della giornata, poi li caricava sul traino e arrivava in paese sempre dopo le donne.
Non badò al tempo Cheli fino a quando le donne, alla voce della 'Ndolorata, si rizzarono dritte intorno al traino, chi seduta sui sacchi, chi in piedi o appoggiata ai raggi delle ruote, cominciarono a mangiare la merenda portata da casa; la Gina gli dette una frisa, la prese tra le mani, se la rigirò, volse lo sguardo a quelle femmine stanche che mangiavano affamate e senza pensieri. Provò vergogna prima, poi rabbia. Lasciò nelle mani della Gina la frisa e si allontanò quasi senza farsi notare; quando era già abbastanza lontano, sentì qualche "arrivederci" gridatogli a bocca piena.
La sera Cheli entrò nella bottega di vino della Fedela per rivedere i vecchi amici; nessuno mostrò sorpresa ed a lui non dispiacque la cosa. Le donne, tornate a casa, avevano messo al corrente i mariti ed i vicini del suo ritorno e della sua "disgrazia". Un pensiero lo aveva turbato, chissà come si erano espresse parlando di lui, se avevano detto "zoppo" o "sciancato". Tutti gli furono attorno, lo toccavano, lo salutavano; si congratularono, finché Cesario "Llarga", mettendogli un bicchiere in mano, fece silenzio per un brindisi: "Con questo vino di malvasia a nome di tutta la compagnia per il ritorno del soldato venuto a casa decorato, col vino buono che non è mai troppo, brindisi faccio a Cheli "lo zoppo"". Tra gli evviva, Cheli si sentì più sereno: quello era un battesimo, ormai anche lui aveva il suo soprannome, era 'Io zoppo", non Io sciancato". Sorrise contento, e tracannò d'un fiato il bicchiere e parlò finalmente come volle: disse della guerra, della ferita, della medaglia, del capitano medico che lo aveva chiamato eroe; li vedeva tutti attenti pendere dalle sue labbra come se fosse il farmacista quando leggeva il giornale del giorno prima. Esauriti tutti gli argomenti, dopo un attimo di silenzio chiese: "E gli altri che son partiti, sono tornati tutti?". Nessuno rispose. Fu lui a chiedere: "Ne son morti molti?". Vide delle teste assentire in silenzio: "Porca guerra," e dette un pugno sul tavolo, "chi non torna e chi torna non è più lo stesso."
Nella bottega l'allegria era scomparsa, gli uomini non pensavano a nulla, non sapevano dove cominciare a dolersi, ormai cercavano di non sfiorare neppure gli argomenti straripetuti per tanto tempo, avevano nausea di parlare di carestia e di miseria, se mai, ognuno in cuor suo ingrandiva una speranza, inesausta di giornate migliori, di raccolti fortunati. Cheli immaginava un lavoro che lo avrebbe tirato fuori dai guai; infine Cesario "Llarga", lo chiamavano così per l'abitudine di aggiungere sempre una corona ai fatti che raccontava, per rompere l'incanto e dare un colpo di spugna all'imbarazzo, gridò: "Fedela, un mazzo di carte, mi voglio fare una calabresella."
La Fedela, trascinando a fatica il corpo grasso e traballante con la solita smorfia di disgusto sulla faccia barbuta che non tradiva mai un pensiero, dette una pulita col grembiale al tavolo e vi lasciò in mezzo le carte annerite ed unte di grasso.
Cheli si mise a guardare i tre che giocavano e bestemmiavano battendo forte le nocche sul legno, discutendo dei problemi del gioco come se altro non li turbasse.
"Domani tornerò da padrone Antimo" pensò "e se non mi darà niente, lo chiederò a Coco campioto un lavoro; con il trappeto che sta lavorando qualcosa lui me la farà fare. Poi andrò dal dottore per le pratiche della pensione e grazie a Dio me ne starò tranquillo a casa mia quando ogni mese mi daranno i miei soldi. Allora mi invidieranno padrone Antimo e Toto campioto, e io, gliela farò vedere io a quei due, se aspetteranno che li saluti, stanno freschi loro. Me la passerò come un signore, me ne starò seduto davanti alla farmacia tutto il giorno, me ne starò. Senza fare niente tutto il giorno. Me ne fregherò di acqua e di sole con la pensione di mutilato. Se no, magari magari, faccio una domanda al ministro della guerra per fare lo spazzino municipale e ci ho due stipendi, ci ho, la pensione e il mensile di spazzino municipale."
Tutti ormai badavano al gioco, ma egli non dava retta a niente, si sentiva superiore a tutti quei poveri diavoli che dovevano campare a capriccio di tempo. Si alzo, disse: "Buonanotte a tutti" e senza aspettare risposta se ne andò dritto a casa a fare partecipe dei suoi sogni la Gina.
"Cheli, te l'ho detto pure ieri, non ho da darti niente, e poi tu stesso dimmi che cosa c'è da fare: le ulive sono alla fine e poi ci stanno le donne che non si lascerebbero passare la mosca sotto il naso. La pota alle vigne è stata fatta; cavallo per ararle non ce l'hai; per mondare gli ulivi non sai mondare, mi sai dire che cosa c'è da fare altro?"
Mari mano che padrone Antimo parlava, Cheli abbassava il capo e si meravigliava che le speranze della sera innanzi fossero svanite. Eppure la pensione lui l'avrebbe avuta; che gli stava succedendo?
"Vuoi un consiglio? Vai da papa Carlo e digli se ti prende per sacrestano, ho sentito dire che Pissu "scarpaleggera" se ne sta per andare a tirare le campane di San Pietro all'altro mondo", gli disse Antimo.
Toto senti un botto di stizza salirgli in petto, biascicò un "buongiorno" di "creanza" e se ne andò dalla casa di quel... di quel... Deve venire un giorno che me la paga. Lui a fare il sacrestano! neanche se doveva morire di fame; finché si trattava di tirare le campane, beh l'avrebbe sopportato, perché non ce l'aveva coi santi, anzi ringraziava Dio che era tornato a casa, sia pure scian... zoppo, ma era tornato sano e salvo. Quello che non gli andava giù era di dover fare anche il becchino. Eh no, non se la sentiva proprio di dover stare di nuovo in mezzo ai morti e ai morti che puzzavano di morte con quelle candele ai quattro capi del letto e le corone di fiori appoggiate ai muri della stanza. Brrr, gli venne un brivido lungo le spalle, no, no, in guerra non c'era quella puzza e non c'erano i lamenti delle donne tutte nere che facevano a turno a piangere, a lamentarsi, a gridare il nome del morto e poi, dopo che era stato sepolto, passavano dai parenti per farsi pagare i pianti e i rosari. Neanche se doveva chiedere l'elemosina avrebbe fatto il sacrestano.
"Ehi Cheli, finalmente ce l'hai fatta a tornare! Sei venuto a piedi che c'è voluto tanto tempo?"
Cheli soprappensieri si girò in tempo per vedere maestro Emilio barbiere che da sotto la porta del "salone" sghignazzava con quei denti neri rosicchiati e il naso eternamente rosso per l'ultimo quartino di dieci minuti prima. Non gli rispose, fece un cenno di saluto e girò l'angolo per raggiungere il trappeto di Coco campioto.
Appena spinse la porta lo investì l'odore pesante dell'olio fresco e la puzza pecorina della sansa; la macina con due grosse mole di pietra girava spinta dal mulo, l'olio denso e biancastro scivolava silenzioso dal canaletto di scolo nel filtro e di là come un filo nella cisterna. Cheli cercò il padrone cogli occhi, ma si sentì chiamare da una voce sorpresa e se lo vide sorridente che gli tendeva la mano. Se lo tirò nello sgabuzzino a vetri che guardava su tutto il locale; lo fece sedere, gli chiese quando era tornato, cosa gli era successo. La 'Ndolorata aveva detto qualcosa a sua moglie, ma lui non ci aveva capito molto. Cheli a malincuore dovette stare a rispondergli, mentre avrebbe voluto chiedergli, senza tante storie, se gli dava lavoro. Finalmente Coco, conosciuto tutto il fatto, gli chiese: "Beh, e ora cosa hai in mente?"
"Sono venuto per chiederti un lavoro, uno qualsiasi, tu mi conosci da quando ero ragazzo, mi dicevi che quando mi sarei fatto grande mi avresti preso nel trappeto e che sarei potuto diventare "caporale" anche."
Coco si grattava la testa e non rispondeva, Cheli allora insistette: "Non posso fare il caporale, ma un lavoro qualsiasi sì, uno qualunque."
Coco continuava a grattarsi la testa, poi senza guardarlo mormorò: "Ogni promessa è un debito, ma ..."
"Un lavoro qualunque, Coco, per carità", implorò Cheli.
"Sì, sì, ho capito, ma quale lavoro se stiamo in fine? Appena finisce padron Antimo ho finito anch'io, te l'hanno detto che schifo di annate, no? Senti Cheli, per quest'anno non ne parliamo, l'anno prossimo stai con me, un lavoro senza troppa fatica; magari guardiano, va bene?"
Si alzò, Cheli fece altrettanto, lo prese per le spalle, se lo strinse con affetto, gli prese una mano e disse: "Capisci vero che tempi?"
Cheli avvertì nella mano il freddo di una moneta, la guardò, un pezzo da dieci lire, non ne aveva viste da tanto tempo, anni. Avrebbe potuto comprare il pane per un mese, ma ... carità non ne voleva, ecco, scosse la testa, ringraziò confusamente, lasciò la moneta sul tavolo e fece per uscire. Coco lo trattenne, "e che sono 'ste cose? E' un prestito, anzi un anticipo, l'anno venturo te lo tratterrò sulle giornate, non dubitare."
Gli infilò la moneta in tasca e lo spinse di prepotenza, perché non resistesse, verso la porta.
Cheli si trovò in mezzo alla strada stordito, contento per un verso e sconsolato dall'altro: avrebbe tirato per un mese e poi? Dove cercare lavoro? Da Pippi "scalora"? Da quello no di certo, aveva accorciato la vita di suo padre accusandolo di essersi preso lui una diecina di chili di "scalore" che gli avevano rubato, come se suo padre poteva guardare nello stesso momento tutte le terre del paese. Ebbero un bel dire suo padre e tutti i paesani che sapevano come fosse onesto; quello lo denunziò all'appuntato dei carabinieri che per la verità non gli diede retta, ma suo padre non si dette pace. E se continuò a fare la guardia campestre fu per l'insistenza dei paesani; ma le terre di Pippi "scalora" non le volle guardare più, se le guardasse lui se le guardasse. Non ebbe pace finché visse, e poco visse se a neanche cinquant'anni una malattia misteriosa se lo portò via. Il dottore non la sapeva la malattia, ma lui che era suo figlio la conosceva benissimo, la conosceva. Se lo ricordava come fosse ieri, prima di morire, quando vaneggiava: "Lo giuro che non l'ho prese io, lo giuro su mio figlio che non l'ho prese!"
Da Pippi "scalora" non ci sarebbe andato di certo; e chi restava? In paese altri "ricchi" non c'erano. Se la pensione non arrivava che avrebbe fatto? La pensione gli ricordò di passare dal dottore, lo trovò in casa per fortuna: grazie a Dio le malattie stavano lontane, gli disse don Filippo che lo accolse con la solita familiarità dopo averlo salutato per il ritorno.
Dopo un poco la lettera al "Signor Ministro della guerra", colla quale "Michele Spedicato fu Mariano e fu Annunziata Caresta mutilato per evento bellico" chiedeva di ottenere "il riconoscimento della invalidità e la corrispondente pensione a carico dello Stato", era bella e fatta. Chiusa nella busta con l'indirizzo fatto bello grande, il dottore stesso l'avrebbe spedita "raccomandata".
"Don Filippo, io non so come disobbligarmi" disse confusamente Cheli.
"Se vuoi disobbligarti," - rispose il medico - "non ammalarti né tu né quelli di casa tua, mi risparmi lavoro, no? e io comincio a farmi vecchio."
"Dio vi benedica don Filippo."
I giorni di ambientamento passarono. Uno a uno Cheli aveva salutato tutti i paesani, ormai era rientrato nella vita comune, la parentesi della notorietà si era chiusa; finalmente poteva vivere senza dover stare a raccontare sempre la stessa storia ad ogni nuovo incontro.
La Gina aveva finito la raccolta delle ulive, aveva racimolato in quasi un mese una ventina di lire. A mangiare pane, cicorie di campagna e qualche pomodoro racimolato dai vicini, sarebbero arrivati al raccolto del grano, poi la fame sarebbe scomparsa e se i tempi continuavano come adesso si erano messi, si poteva sperare anche qualcosa di più. Cheli ci andava pensando; in casa, però, senza far niente non ci sapeva stare; passare il tempo alla Fedela o alla bottega di maestro Emilio barbiere, non gli era mai piaciuto, neanche prima, tranne le domeniche dopo la messa, quando si faceva la calabresella in attesa che la Gina calasse la pasta a mezzogiorno. Così decise di andare lui al bosco di Erbantano per fare legna.
Si alzava la mattina presto come se dovesse andare a giornata, si metteva a tracolla il filo di ferro e si trascinava dietro per quattro chilometri il rozzo slittino di tavole, scarico. Andava avanti piano, guardava a destra e a sinistra i campi che si affacciavano alla strada: erano tutti olivi e vigne.
"Hai visto come stanno gli ulivi di 'Cenzi "muscio"," - pensava tra sé - "stanno proprio belli, ma chissà perché li hanno mondati così radi, speriamo che non li hanno rovinati."
"Capperi che ceppi quelli di Giacomino "de l'omu"... e che stanno aspettando i Pacciodda a governare le vigne? Zappa e puta de scennaru se ue' inchi lu ciddhraru, gli antichi le sapevano 'ste cose, mo' siamo a febbraio finito e questi ancora devono zappare e potare, così la empiono proprio la cantina! Povere vigne." E si sentiva una pena nel cuore a vederle coi sarmenti lunghi e aggrovigliati tra ceppo e ceppo come capelli di streghe addormentate tutte su un immenso letto; e l'erbaccia, il pepe che si succhiava tutto l'umore sembrava dovesse togliergli il pane di bocca. "Va bene - continuava a pensare - che quelli litigano sempre e devono fare il lavoro tutti assieme; e che, hanno paura che se ci va uno solo ad arare si porta via la terra? Disgraziati sono, ecco cosa sono a sputare sulla grazia di Dio. Eh, eh, guarda, guarda se padron Antimo è un minchione, guarda, guarda che belle vigne, sembra un reggimento di soldati davanti al colonnello, tutte dritte e pulite; si devono specchiare si devono, altro che sparlarne dietro le spalle. Quello li frega tutti e i soldi se li sa tenere."
Andava camminando così, sentendosi partecipe di tutta quella ricchezza come fosse tutta roba sua. Quando arrivava sul ponte che scavalcava un canale di scolo, si fermava a cavallo e guardava in basso. Qualche volta scendeva tra le canne che crescevano fitte sulle sponde per provare se nel fango riusciva a vedere qualche anguilla e si riprometteva di cercare di prenderne qualcuna un giorno o l'altro. Poi seguitava a camminare e pensare, se non si fermava a fare quattro chiacchiere con i mondatori arrampicati sugli alberi di ulivi ad amputare col serracchio i rami inutili; talvolta riusciva a farsi dare qualche ramo buono, senza le "strome", le foglie che poi si seccano perché brucino.
Arrivava nel bosco dopo due ore buone, tanto andava lento, tirava fuori dalla cintola una roncola e si aggirava tra i sugheri tagliando i rami più bassi, cercando di scegliere quelli sterili e secchi; non voleva rovinare quelle creature di Dio.
Un giorno che aveva quasi finito il carico, gli si parò dinanzi Rocco Fellini guardiaboschi; erano vecchi amici loro due, avevano giocato insieme da ragazzi a prendere le lucertole col "cappio" di biada agreste, ma a vedersi scoperto come un ladro non ebbe il coraggio di dirgli una parola.
"Cheli, quando sei tornato?"
Era vero, non l'aveva ancora visto da quando era tornato, ed ormai stava a casa da più di un mese.
Non seppe rispondere nulla, si sentiva in fallo, eppure danno non ne faceva a nessuno: prendeva i rami da terra e quelli secchi degli alberi. Si lasciò salutare senza reagire. "Sai, Rocco, a casa fa freddo e le "asche" costano care ... "
"A che stai pensando? Ai ragazzi tuoi gliela facevo io la legna, gliela facevo. Piuttosto cerca di non prendere i rami sani e di non salire. sugli alberi" fece Rocco togliendogli la parola a metà.
"Come farei a salire, storpio come sono?" e gli mostrò la gamba sospesa da terra. "Uehi!" fece Rocco e rimase senza fiato. "E come è successo?"
Cheli ancora una volta dovette ricominciare la storia da principio e raccontarla tutta all'unico paesano che non la conosceva perchè restava lontano dal paese qualche volta anche tre mesi.
Rocco lo aiutò a finire il carico, poi, nel salutarlo, lo fermò trattenendolo per un braccio: "Cheli, 'ste cose non le dovrei dire io che faccio il guardiano, ma tra amici è permesso- chi te la fa fare a sciropparti ogni giorno quasi dieci chilometri di strada in quelle condizioni? Prendi una strada di traverso dopo il ponte, a quattro passi da casa tua e ci stanno sarmenti per tre paesi sani sani."
Cheli fece un sorriso che era una smorfia, no, non se la sentiva proprio di diventare un ladro di legna; ma Rocco riprese: "Una fascina di qua, una di là, mi sai dire chi se ne accorge? Tu ci rimetti la salute se continui 'sta vita. Poi mi sai dire chi ci bada ai figli tuoi?"
Il pensiero dei figli gli strinse il cuore e dovette confessare a se stesso che quando arrivava a casa non era capace neppure a mandar giù quel boccone di pane e pomodoro per la stanchezza. Gli sorrise più rinfrancato, lo ringraziò e prese la via del ritorno.
La Gina notò qualcosa di diverso nell'umore del marito e gli chiese se si sentiva male, ma non gli cavò neppure una sillaba. Quando andarono a dormire però, Cheli le riferì il discorso di Rocco. Lui non ce la faceva più a tirare quella vita e a tenersi nelle gambe dieci chilometri quasi ogni giorno, non ce la faceva. Forse Rocco aveva ragione, in fin dei conti quello non era rubare, se voleva aiutare la famiglia non poteva rischiare di farsi trovare ammalato quando il lavoro ci sarebbe stato.
La Gina non seppe dire nulla, doveva decidere lui, ma concordava col marito che quello non era proprio rubare, prendersi una fascina di sarmenti da una catasta abbandonata in campagna. Significava che il padrone non ne aveva bisogno no? E poi non erano mica soldi.
Cheli spinse la porta con circospezione, piano piano, perché i cardini non stridessero; qualche rumore poteva insospettire la comare Immacolata che stava proprio accanto. Sfilò fuori trattenendo il respiro, per farsi più sottile tirandosi dietro il solito strumento da trasporto. Il buio in strada era quasi più fitto di quello che aveva lasciato in casa, si volse intorno per distinguere qualcosa, ma percepì solo la massa compatta delle case di fronte ed ebbe quasi paura che gli cadessero sopra tanto fu sorpreso di sentirle così vicine; tirò lentamente la porta al battente fisso e come a chiamarlo complice della sua scappata e della sua pericolosa avventura, si fece il segno della croce e mormorò: "Gesù mio, aiutami, che non lo faccio da solo."
Fece in fretta la cinquantina di metri che lo separavano dalle ultime case trascinando penosamente la sua gamba zoppa che gli faceva continuamente perdere il passo e finalmente si trovò sulla strada libera. Si fermò per avvertire qualche rumore sospetto; nulla, non c'era il filo di una voce qualsiasi, un silenzio assoluto, pesante, spaventoso, ed egli era lì con quell'arnese pesante a tracolla che doveva riportare carico di sarmenti; non un soffio di vento, eppure sentiva il freddo penetrargli nella mantellina militare che lo avvolgeva. Fu sul punto di ritornare a casa, non poteva farcela, non se la sentiva di compiere un'azione che non avrebbe compiuto alla luce del sole, pensò a suo padre che era morto per il dolore di essere stato giudicato un ladro; ma cosa avrebbe pensato la Gina? Un buono a nulla era se neanche una cosa così semplice riusciva a fare. Chi con la testa sulle spalle a quell'ora e con quel freddo poteva stare fuori di casa? Cominciò a camminare in fretta, girandosi spesso indietro come se si sentisse spiato, ma non rallentava l'andatura, presto si trovò sul ponte, svoltò in fretta a destra e finalmente si sentì più sicuro, era in campagna, veramente, ora. C'era da decidere: andare in fondo, sino a "marfeo" e cominciare il rastrellamento dei sarmenti a scendere sino al ponte o fare il contrario e cominciare subito?
Questa idea gli sembrò la migliore, e allora: cominciare da destra o da sinistra? Decise per la destra. Doveva essere la terra di Tore Zullo. Lasciò la slitta di tavole inchiodate sulla strada, si addentrò tra i ceppi potati che toccava uno ad uno come per sentirsi sicuro di non sbagliare e faceva attenzione dove metteva i piedi, doveva esserci il pozzo da quelle parti ed era aperto, come è usanza di queste parti in modo che chi ha sete possa bere, come sono aperte le casupole di tufo con la copertura a tegole o a canne per poter riparare chi è colto da un improvviso temporale in campagna. Si fermò improvvisamente, gli parve che qualcosa gli stesse di fronte minacciandolo, il cuore gli batteva come un martello sul petto; tirò un sospirone, era la casa e la catasta di fascine. Le girò intorno, si mise di lato e si arrampicò per tirarne una dalla sommità, ma si fermò di colpo. "E se ci fosse la calcina sparsa per controllare se ne manca qualcuna?" si disse. Scese a terra nuovamente; doveva tirarla di sotto, non si sarebbe accorto di nulla nessuno, chi le contava le fascine?
Fece una faticaccia, sudava come se fosse di luglio con tutto quel freddo, ma non se ne dispiacque, il sangue ora gli circolava più veloce e si sentiva quasi più forte. Riuscì a sfilare una fascina senza spostare le altre, se la caricò sulle spalle, rifece la strada con la stessa attenzione e, ora che si era abituato a vedere al buio, con più sicurezza, posò il fardello sulle spalle e ripeté la stessa operazione nel fondo a sinistra, quello di Rafeluccio "l'omiceddhru". Legò infine le due fascine con uno spago e prese la via del ritorno, con meno paura, ma la strada gli sembrò più lunga, non gli pareva di arrivare mai. Rallentò all'ingresso del paese, slegò le fascine, ne prese una, se la mise sulle spalle, fece di corsa, come poté, lo spazio che lo separava da casa sua, scaricò in mezzo alla stanza e tornò in strada per la seconda volta e ancora per riprendere la ... carretta senza ruote. Chiuse la porta, gettò il chiavistello, si senti finalmente sicuro e in un fiato si spogliò e fu sotto le coperte, ce l'aveva fatta. Ma non era contento, senza dire una parola si strinse alla Gina e si addormentò.
Ogni notte ripeteva l'operazione, la stessa, con la medesima cura, con la più circospetta attenzione e, una volta in campagna, sapeva perfettamente dove gli toccava quella notte, rifacendosi a mente tutto l'itinerario compiuto: il "ponte", la "scialpa", la "muina piccina", la "badessa"; gli rimaneva da fare ancora "bibbiceddu", "bibba", "lisco" e "marfeo", poi poteva ricominciare all'inverso.
Per arrivare a "bibbiceddu" la strada piegava a sinistra. "Che terra!", pensava Cheli. "Padrone Antimo con quel fondarello e con gli ulivi della "scursunara" aveva fatto fortuna, soldo soldo, senza sprecarne uno. Avaro, avaro, dicono i paesani, per conto mio quello sa fare i fatti suoi, mo' tutta 'sta parte di terra non è sua? Tutta, fino a "Marfeo" e quel poco che ancora non è suo finirà per comprarselo, sicuro."
Sotto gli ulivi che costeggiavano il ciglio sinistro della strada, Cheli si fermò per gettare l'occhio sulla distesa dei ceppi potati che una falce sottile e timida di luna, con la gobba a ponente, faceva distinguere e per orientarsi dove padrone Antimo aveva accatastato le fascine. Le intravide sulla destra della casa senza porta, un mucchio alto così. C'è da risparmiare un viaggio e da guadagnare una fascina, pensò lo zoppo, toglierne due per parte da quelle cataste, ogni notte, chi se ne sarebbe accorto? Sganciò due fascine e fatto il carico se ne tornò a casa.
Padrone Antimo tirò da un canto le coperte e seduto sulla sponda del letto si infilò le calze doppie di lana che gli faceva la moglie, i calzoni, le scarpe, si rizzò in piedi, indossò la camicia di flanella, il giaccone di fustagno. Poi, in punta di piedi, fece un passo avanti, uno a destra. Con la mano tentoni, toccò la sedia a fianco del letto. Ora il muro di fronte al letto doveva essere distante due passi. Li fece. Stese le braccia, brancicò sul muro; la "doppietta" doveva essere di fronte, la toccò, la staccò dal chiodo e se la bilanciò tra le mani, fece due passi a sinistra, doveva esserci la porta; nel cercarla però, col calcio del fucile urtò sul legno dello stipite. Si fermò come se fosse un ladro. Sentì la moglie svegliarsi di soprassalto, battere la mano sul letto dalla sua parte, sedersi spaventata in mezzo al materasso e chiedere con voce strozzata:
"Antimo."
"Ssst, zitta, sono io" "Che stai facendo?" "Vado a caccia"
"Dove?"
"A caccia, dormi."
Uscì dalla stanza, fece in punta di piedi lo stretto corridoio che portava alla stalla della mula, accese il lumino a petrolio, la governò e se ne uscì col fucile a tracolla.
L'aria cominciava a pungere di meno, il freddo tra poco se ne sarebbe andato. La luna piena spandeva luce per tutto il cielo senza una nuvola, le case parevano piegarsi con le ombre sulla strada e Antimo pareva che avesse piacere a calpestarle camminandoci sopra. Il rumore dei passi lo accompagnava in un silenzio che nessun cane offendeva. Si trovò presto fuori paese, prese la strada dei "paticchi", quella che portava al bosco di Erbantano, ma quando passò il ponte girò a destra e camminò più accorto, più guardingo, cercando di fare il minimo rumore; girava gli occhi a destra e a sinistra come se si aspettasse di vedere, improvvisamente, qualcuno. Passò la "badessa", prese a sinistra per "lu bibbiceddu", entrò nella terra, sotto gli ulivi, camminò ancora un poco, si fermò, si acquattò dietro un albero, tirò fuori la pipa, sbriciolò una punta di "toscano", caricò il camino dopo averci soffiato dentro, accese, tirò fino a sentirsi la mano riscaldata e vedere la palma callosa fatta di un bel colore rossigno.
"Guarda che tempi," cominciò a pensare "che tempi! In tanti anni mai che sia sparita una cosa da campagna, persino le zappe lasciavano e la mattina stavano ferme là. Non potevano camminare certo le zappe. E mo'? Si andrà a finire che pure le porte dovremo mettere alla case di campagna se no i tufi se ne portano via, se ne portano. E i pozzi? Dovremo chiuderli se vogliamo tenerci un poco d'acqua. Ma lo devo beccare questa carogna. Carcerato deve finire, in galera lo mando, porco Giuda! e se non si ferma va dritto dritto al creatore."
Tendeva l'orecchio ma la notte non gli dava retta, sembrava dormisse anch'essa. Aspettò, fermo dietro quell'albero finché non senti ì piedi farsi duri e pesanti. Ne era passato di tempo, il freddo ora si faceva sentire e lui non poteva che rimanere là a gelare.
"Forse quella carogna se la sentiva che lo stavo aspettando e m'ha fregato. Va bene, chi la dura la vince e chi pazienta fa soldi, dicevano gli antichi."
Si mosse un po' contrariato, non aveva creduto di fallire decidendosi a fare la "posta". Si fermò, tese l'orecchio, gli era sembrato un fruscio, sì... sì, un fruscio che aumentava, come uno che si avvicinava a fatica. Avanzò di qualche albero, si nascose bene dietro il tronco ed aspettò. Ormai distingueva bene, era un uomo che arrancava e si tirava dietro qualcosa; ma sì, erano fascine di sarmenti e quello era Cheli, Cheli "lo zoppo".
"Ah, era lui la carogna! Adesso comincia il ballo."
Si tolse di bocca la pipa, la ripose in tasca, si sfilò il fucile, lo imbracciò. Cheli gli passò a un palmo ma non si mosse, lo fece avanzare di qualche metro ancora e uscì sulla strada col fucile spianato: "Fermati se no ti impallino."
Cheli ebbe come una mazzata in testa, senti le gambe piegarglisi e si fermò senza avere il coraggio di voltarsi. Aveva compreso tutto. Che dire? Come giustificarsi? Era un ladro, ora sì che si sentiva un ladro. Non ci aveva riflettuto tanto sul principio, anzi non era proprio convinto di rubare; ma adesso c'era un padrone che reclamava, e che padrone! Padrone Antimo! Se lo sentì vicino, al fianco, avvertiva il respiro affannoso di chi è adirato.
"Dove le hai prese? Sono le mie?"
"Sì, le ho prese a "Marfeo"."
"Gira subito e lasciale sotto gli ulivi. Qua vicino."
Senza fiatare obbedì, in fretta, sperava che intanto l'altro se ne andasse e mormorava tra i denti: "Gesù mio, aiutami, lo facevo per i miei figli, tu lo sai se è vero."
Padrone Antimo lo attese: "Cammina."
Fecero la strada in silenzio, uno a fianco all'altro, ciascuno coi suoi pensieri; quello rimuginando propositi di vendetta, l'altro biascicando avemarie e invocazioni al Padreterno.
Finalmente, quando giunsero dinanzi alle prime case, Cheli implorò: "Padron Antimo, vi prego, lasciatemi andare solo, non mi fate parere un delinquente con quel fucile a tracolla; appena fa luce verrò io a casa vostra e deciderete." Padrone Antimo grugnì, ma là per là non trovò cosa rispondere e disse soltanto: "Appena fa luce."
Presero ognuno la sua strada e sentivano i loro passi farsi sempre più fiochi. Qualche gallo cominciò a cantare.
"Dev'essere l'una" pensò padrone Antimo.
Quando entrò in casa, spense il lume della stalla, rifece il corridoio, entrò in silenzio nella stanza, appese il fucile, si spogliò, si infilò sotto le coperte.
"Cos'è stato, Antimo?" chiese la moglie.
"L'ho pescata la volpe, ora dormi." rispose e si girò su un fianco.
Cheli e la Gina invece non dormirono. Mischiarono lacrime e preghiere, più frequenti appena una stanca luce grigiastra entrò di prepotenza tra le connessure della porta.
Quando Cheli bussò alla porta di padrone Antimo sperava che quello stesse ancora dormendo, invece gli apri, lo fece entrare, lo squadrò da capo a piedi.
"Quante ne hai rubate?"
Cheli fece mentalmente il conto: "Dieci." "Ti denunzio."
"Padrone Antimo, per carità, non me la fate questa cosa, non sono un ladro io, voi lo sapete, a voi per primo ho chiesto lavoro. Ho girato, ho chiesto, neanche una pietra mi hanno fatto portare. Voi siete padre, i figli ..."
"Lascia stare i figli, tu mi hai rubato dieci fascine di sarmenti e io ti denunzio."
"Che vuoi tu qua?", si rivolse alla moglie che era entrata proprio allora nella stanza.
"Padrona Peppina, aiutatemi voi, fatemi la grazia, per tutti i vostri morti, io non sono un ladro, i figli miei tremavano di freddo, li dovevo riscaldare. Ma non sono un ladro. I sarmenti stavano là, se vi servivano ve li portavate a casa."
La donna, col suo solito sguardo triste e remissivo, guardò il marito; ma quello che aveva letto i pensieri di lei sbottò:
"Lo denunzio, la roba è mia e la lascio dove voglio. E nessuno la deve toccare."
Cheli non poté trattenere il pianto e tra i singhiozzi riuscì a dire: "Sono un disgraziato.... sono, torno dalla guerra ... sciancato ... vedo i figli morire ... di fame ... di freddo... e per giunta carcerato devo finire ... carcerato. Era meglio che morivo, era meglio" gridò, trattenendo un ultimo singhiozzo.
"Eh sì, prima si fottono la roba mia e poi si fanno il pianto. Non m'incanti, caro mio, non m'incanti, io ti denunzio. Oppure restituiscimi le dieci fascine."
"Come faccio, padrone Antimo, noi le bruciamo per non sentire freddo, dove le prendo io?" implorò Cheli, che sentiva sua alleata la padrona Peppina e aveva nel cuore una speranza esile.
"E allora in galera vai," - gli rispose padrone Antimo muovendosi verso la porta - "in galera, se non sei capace a salvarti. lo voglio la roba mia e basta."
Cheli gli andò dietro, lo afferrò per un braccio e lo trattenne: temeva che stesse andando dritto filato alla caserma dei carabinieri.
"Va bene, padrone Antimo, non ci pensate, me le procuro le fascine e ve le porto qua, a casa, ma promettetemi che non direte niente a nessuno."
"Io voglio la roba mia, le chiacchiere non mi interessano" apri la porta e se la tirò dietro sbattendola.
Cheli rimase dinanzi alla padrona Peppina senza una parola, cercò una sedia e vi si lasciò cadere. La donna gli fu vicino, gli posò una mano sulle spalle e gli chiese: "Devi. andare a prenderle di notte, vero?"
Cheli dondolò il capo per assentire, poi si alzò, "Buongiorno" disse e se ne tornò a casa dalla Gina che lo aspettava.
La padrona Peppina mise sul fuoco la pentola dei legumi, fece alzare i ragazzi, li mandò in campagna dal padre e si mise a pulire e a far faccende. La mente le andava sempre a quel povero Cheli, alla miseria delle dieci fascine di sarmenti, a suo marito duro come un macigno. Come fare per togliergli dalla testa quella fissazione della denunzia?
La sera, mentre mangiavano, provò: Antimo, quel povero..."
"In galera lo mando."
"Stanno morendo di fame, Antimo" aggiunse con una fermezza che il marito non si aspettava.
"Vado dal prete a dirglielo, gliela deve fare quello l'elemosina." "Ma stanno morendo anche di freddo ..."
"Mo' viene il caldo" disse l'uomo.
"E allora a che ti servono i sarmenti?"
"La roba mia non la deve toccare nessuno, non la deve." "Falla tu la carità, almeno una volta, per i morti tuoi."
"Chi muore giace, chi vive si dà pace. Stai parlando troppo donna" gridò padrone Antimo attaccandosi alla bottiglia e succhiando il vino tra il fiocco di "sparacina" infilato nella bocca del vetro.
Finirono in silenzio. Poi la donna mise a letto i ragazzi, rassettò la tavola, lavò i piatti, spazzò la cucina mentre il marito fumava la sua pipa assorto come se avesse pensieri in testa. La Peppina, finito che ebbe, si sedette di fronte a lui, come ogni sera, aspettando che le dicesse i lavori della giornata, ma Antimo non parlò. Stettero in silenzio e l'orologio della piazza batté otto colpi distinti, chiari, portati dalla tramontana.
"Domani fa bello," disse Antimo alzandosi "andiamocene a dormire."
La padrona Peppina si svegliò di soprassalto, temeva i ladri, il cuore le batteva come a romperle il petto, stese la mano di fianco, il letto era vuoto: "Antimo", chiamò sottovoce.
"Ssst, sono io."
"Che stai facendo?"
"Mi alzo, mo' torno." "Dove vai?"
"Uffa! Zitta e dormi."
La donna si acquattò, padrone Antimo fece il corridoio, arrivò nella stalla, accese il lumino a petrolio, apri il portone, tirò fuori il traino, prese i finimenti, bardò la mula, che lo guardava con occhi strani, come se chiedesse dove andavano a quell'ora; la prese per cavezza, la infilò tra le stanghe, richiuse il portone, montò a cassetta.
"Ahàh" fece, tirando le redini. La mula si mosse lentamente, con incertezza, voleva essere sicura di fare una strada conosciuta e finalmente quando si vide sulla via dei "paticchi" capì che si andava verso "marfeo" o a"lu bibba". Camminò svogliata, finché a "lu bibbiceddu" dové fermarsi al suono della lingua del padrone che vibrava tra i denti e il palato. Attese, senti il traino farsi più pesante, volse il capo per mettersi nella direzione dei paraocchi e vide il padrone che caricava sarmenti sul traino. Proprio a quell'ora ricordarsi dei sarmenti, pareva pensare, non poteva farlo domani?
Finalmente il padrone salì; ora a casa, una buona mangiata di biada e tutto sarebbe tornato a posto. Tirò di buona lena, un po' pesante il carico, ma si andava a casa. Sulla salitella del ponte puntò gli zoccoli per non perdere velocità, ora un po' di strada ancora, poi a destra, la strada della "macadonia" e a casa. Ma che succedeva? Il padrone le tirava la briglia a sinistra; bisogna andare dritti? E piano piano? Mi fa fermare. Che fa ora? Girò il collo, il padrone stava scaricando. Ma che succedeva? Non l'aveva mai vista quella casupola con la porta stretta stretta. Bisognava aspettare, vedere e sperare di non rifare la strada già fatta. Il peso dalla sua spalla diminuiva, ora sentiva solo il traino e il padrone salito su. Avanti. Dove? Ah, meno male, a casa attraverso il paese, per la piazza! Era impazzito il padrone? Non ci passavano quasi mai. Ah, il portone della stalla!
Si lasciò togliere di sotto le stanghe, poi da sola se ne andò alla greppia, cercò col muso tra la paglia, no, biada non ce n'era, bisognava aspettare che il padrone infilasse il traino e le togliesse di sopra i finimenti.
Padrone Antimo chiuse il portone, appese i finimenti allo spuntone sul muro, calò il secchiello nella cassa della biada, lo svuotò nella mangiatoia. La mula cominciò a sgranare i chicchi tra i denti, Antimo le lisciò il collo, soffiò sul lumicino.
Avanzava nel corridoio a passi corti per non fare rumore. La tramontana leggera portò nell'aria qualche canto di gallo.
"Dev'essere l'una" pensò padrone Antimo.

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