Con l'ascesa al
potere di MIkhail Gorbaciov il mondo è diventato più
ricco. Quale il motivo? Quali i vantaggi dell'operaio di Gary, di
Indiana o di Torino, nel momento in cui la glasnost concede libertà
minime ai cittadini di Kiev o a quelli di Vladivostock? Si tratta,
semplicemente, del fatto che l'economista può realisticamente
sperare nel successo di una perestroika che applicherà le regole
dell'economia di mercato all'Europa centro-orientale e compirà
il miracolo di una nuova efficienza produttiva? Senza dubbio, il prodotto
nazionale lordo complessivo a livello globale non potrà che
accrescersi se la produttività insoddisfacente del miliardo
di persone vissute sotto il comunismo dovesse essere miracolosamente
accelerata dal successo dei programmi gorbacioviani. Tuttavia, quando
mi riferisco alla speranza di un maggiore progresso economico nell'era
postgorbacioviana, non penso né alla perestrojka né
alla glasnost. Penso, invece, che nei futuri testi di storia dell'economia
sarà attribuita la massima importanza ad ogni eventuale attenuazione
della guerra freddo. Per 45 anni la rivalità fra le due grandi
potenze ha imposto dei prezzi non soltanto al cittadini dei due Paesi,
ma a quelli di tutto il mondo.
Qualcuno sarà certamente pronto ad accusarmi di cambiare le
carte in favolo. Fatto sta che il capitalismo, secondo Rosa Luxemburg,
nel 1905, e secondo Lenin, nel 1915, sarebbe inevitabilmente arrivato
alla sua conclusione se abbandonato a se stesso. Con i ricchi sempre
più ricchi e i poveri sempre più poveri, si sarebbe
instaurata una inevitabile tendenza al sottoconsumo. In presenza di
un potere di acquisto insufficiente, disoccupazione e depressione
sono d'obbligo. Questa, la cruda teoria dell'imperialismo.
Ma che cosa ne è oggi, nell'ultimo decennio del secolo, di
questa visione dell'inizio dello stesso secolo? Il verdetto della
scienza economica non lascia adito ad equivoci.
Nell'era post-keynesiana, tutte le economie miste dispongono degli
strumenti di controllo monetario da parte delle Banche centrali, nonché
del finanziamento del disavanzo di politica fiscale allo scopo di
scongiurare crisi permanenti dovute alla mancanza di potere d'acquisto.
La povertà in mezzo alla ricchezza avrebbe potuto costituire
un motivo di preoccupazione in un regime capitalistico improntato
alle dottrine del laissez-faire. Oggi, però, l'Italia non vive
in un regime di capitalismo puro, e lo stesso può dirsi per
gli Stati Uniti o per il Giappone. Neppure in Svizzera gli automatismi
di mercato sono lasciati a se stessi, come accadeva nell'America della
mia infanzia, quando ad alloggiare alla Casa Bianca era il presidente
Calvin Coolidge. La mio tesi non si basa sui dogmi dell'economia ufficiale,
considerato che l'economia politica non è, e non può
essere, una scienza esatta.

Volendo dare uno sguardo ai fatti, non possiamo non accorgerci quanto
la prosperità del dopoguerra in Paesi come la Germania, l'Italia
e il Giappone si sia giovato della sconfitta e della conseguente impossibilità
di stanziare enormi somme in spese militari. Se Rosa Luxemburg avesse
letto la letteratura post-keynesiana, sono certo che sarebbe stata
d'accordo e avrebbe modificato le proprie tesi. La graduale liquidazione
della guerra fredda si traduce in immediati dividendi economici a
misura in cui le risorse invece che in fucili vengono investite in
burro. Non solo: nel momento in cui le spade sono tramutate in aratri,
la futura produttività ne viene esaltata e la tendenza al rialzo
dei salari reali accelerata. Non si tratta, sia chiaro, di parabole
da libri di testo. Il presidente americano dispone già di un
margine di manovra che non aveva Reagan allorché il bilancio
della difesa aveva ulteriormente aggravato il disavanzo di bilancio
e quello delle partite correnti. La formazione di capitale oggi comincia
ad essere una realtà, non solo negli Stati Uniti, ma in Europa,
nel bacino del Pacifico e nello stesso Terzo Mondo.