§ Mafie violenze intimidazioni

Prima regola: resistere




Aldo Bello



Dai vescovi agli imprenditori, dagli studenti ai commercianti, dai sindaci agli amministratori comunali, la società meridionale è attraversata da un fronte di resistenza alla mafia, ai suoi metodi, allo cultura che essa impone. Non siamo ancora a quel livello della ripulsa totale e di condanna esplicita che dagli ultimi anni '70 il Paese sperimentò nei confronti del terrorismo. Ma qualcosa di analogo sta crescendo proprio nelle aree del Sud in cui la presenza della criminalità organizzata soffoca ogni tentativo di crescita economica e civile.
E' un fronte appena abbozzato, che dunque deve ancora consolidarsi,- i suoi mezzi sono scorsi, i punti di riferimento vaghi, e non riceve, se non in momenti di alta emotività, la comprensione e la solidarietà dei resto del Paese. Ma ormai esiste, e per questo solo fatto merita di essere segnalato, seguito e incoraggiato. Solo una "resistenza" di questo tipo, infatti, potrà riuscire a infrangere le regole della cultura mafioso che negano l'idea stessa di sviluppo e mortificano le coscienze, costringendo intere città al silenzio, al degrado, alla complicità omertosa. Perché un fatto è certo: se lo Stato e l'insieme della società italiano hanno doveri e responsabilità precisi verso il Sud che oggi si trova stretto in questa morsa, il compito di strapparsi il bavaglio, recuperando ogni giorno un po' di forza e di nuova fiducia, spetta a chi nel Sud vive ed opera.
L'equazione "Sud uguale mafia" è falsa e strumentale, lo sappiamo bene. Ma non basta ripetere uno slogan per convincerci (e convincere) che lo Stato ha riguadagnato qualche metro di terreno nelle regioni in cui il dominio di mafia, camorra, 'ndrangheta e organizzazioni neonate è incontrastato o rischia di diventarlo. A questo punto, si possono fare alcune brevi considerazioni:
- una prima constatazione, decisamente negativa, è di carattere geografico: fino a due o tre anni fa, le regioni a rischio erano soltanto tre. Oggi, a Campania, Calabria e Sicilia si è aggiunta la Puglia, che dal Gargano al Salento sta pagando a carissimo prezzo la sottovalutazione del fenomeno mafioso, in piena metastasi da tempo. Quattro regioni a rischio su otto dei Sud sono un dato che, di per sé costituisce una sconfitta;
- le manifestazioni degli studenti (Gela), gli appelli dei vescovi (Reggio Calabria, Napoli, Lecce), le denunce dei commercianti (Taranto, Catanzaro) e dei parenti delle vittime (Palermo, Fiumara di Muro, nel Reggino) sono significativi: ma in che modo si legano tra loro questi momenti così diversi? Si tratterà di verificarlo più in là, ma è probabile che solo da questo magma possa nascere una cultura anti-mafiosa radicata, non paludata, né di circostanza; e che emerga una tensione abbastanza forte da non scadere nel consueto antistatalismo, da sempre diffuso in certe aree del Paese;
- denunce (spesso anonime), minacce d'abbandono, proteste: il "versante economico" - tra i più delicati di questo fronte anti-mafia;
- si presento debole, pavido, incerto, anche per colpa di certe sentenze che hanno legittimato l'antico obiettivo di tutti gli uomini di malaffare italiani, quello della tangente legalizzato. Malgrado ciò, vien da chiedersi: l'imprenditore che dichiara di voler chiudere la propria azienda perché non regge più la pressione dei racket lancia un segnale di resa o di resistenza? Anche in questo caso le opinioni possono divergere. Tuttavia, non va dimenticato che in certe aree del Sud il coraggio per dire "non pago", anche se completato da un "piuttosto me ne vado", è paragonabile ai più clamorosi gesti di coraggio civile compiuti in altre parti dei Paese. Insomma, ciò che potrebbe apparire come una rinuncia, suona - invece - come una sfida intollerabile all'"ordine" imposto dalle cosche;
- il lavoro della Commissione parlamentare antimafia e dell'Alto Commissario, le inchieste giudiziarie, le dichiarazioni politiche e di intenti, la legislazione ad hoc, i successi delle forze dell'ordine: tutto può contribuire ad una nuova presa di coscienza del problema-mafia. Allora: perché ignorare quanto di positivo proviene dalle istituzioni dello Stato? E' vero: questi stessi fatti coesistono da sempre col disimpegno, l'indifferenza, l'ostruzionismo di altri "pezzi" di Stato. Ne sono esempi clamorosi la polemica sul lavoro dei giudici palermitani, le sentenze che hanno rimesso in circolazione i boss, i tentativi (riusciti) di affossare il pool antimafia, l'abbandono dei magistrati nelle regioni a rischio, e via dicendo. Ma non è tra queste rovine ancora fumanti che si può seminare dei nuovo;
- quando, dalle colonne di questa rivista, parlavamo del pericolo-mafia in Puglia e nella contigua Basilicata (che ora sta sperimentando fenomeni tipicamente mafiosi, dagli attentati ai cantieri di lavoro alle estorsioni, sulla propria pelle), ci furono reazioni di incredulità, di indifferenza, persino di ilarità: una conferma puntuale dei fatto che la mamma dei cretini è sempre incinta. Solo che i cretini sono anche pericolosi, soprattutto quando chi li ha generati, sapendo di non poterli immettere nel mercato libero del lavoro, li sistema in posti di pubblico responsabilità. Dobbiamo al cretinismo pubblico la resa alle mafie, contrastata solo da pochi magistrati in prima linea. Le nostre speranze sono fondate sul loro rigore, sempre che la Cassazione, poi, non trovi in una virgola battuta a macchina più in là il decisivo errore formale per generali scarcerazioni dei nostri boss ruspanti e sanguinari.

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