§ Alla macchia

Gli uomini del bosco




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Gianfranco Langatta
Ricerche di A. Barendson, N. Artali, M. Sereni, O. Berardi



"Giovane dalle mosse sgherre, occhio cervino, biondo nei capelli, lunghetto nel naso, di carattere tra il vivo e il cupo, alto nella persona né di volgare aspetto", Gaetano Manzo è un capo prestigioso nei ruoli del brigantaggio meridionale, anche se per imprese e carisma è molto lontano da un Carmine Donatelli, da un Michele di Gé, o da un Ninco Nanco. Nasce ad Acerno, in provincia di Salerno, nel 1863, quando già in tutto il Mezzogiorno si vanno ammainando le nere bandiere della guerra contadina e i superstiti gregari di quell'esercito disperato, da guerriglieri che sono stati, per scelta o per necessità ora si trovano ad essere banditi. Il brigantaggio non è più la difesa del trono usurpato e la rivolta contro lo straniero, non più le incursioni e gli assalti delle grandi bande a cavallo, e neanche l'esito avventuroso e romantico di un rovesciato e frustrato byronismo, ma grassazioni rapine ricatti incendi stupri mutilazioni e omicidi.
A protagonisti già allora leggendari, e non solo nel loro mondo (a "Chiavone" venivano dedicati grossi servizi da moltissimi quotidiani europei), fanno luogo personaggi nei quali è davvero arduo scorgere altre motivazioni se non quelle dell'aggressione alla proprietà e ai beni altrui. Il brigante come simbolo di una emarginazione storica e vindice di una giustizia conculcata abbandona i boschi per rifugiarsi negli almanacchi e nell'iconografia popolare. Nelle oscure faggete, sui sentieri solo a loro noti, si muovono ormai soltanto banditi che con la loro gratuita crudeltà sembrano voler offrire ragioni a chi, come Benedetto Croce o Gino Doria, nel brigantaggio post-unitario (ma tutto il brigantaggio, e questo era il loro più gran limite) vedevano nulla più che una esplosione di barbarie e un rigurgito di criminalità strumentalizzati dal clero e dalla reazione legittimistica; le lacerazioni al fondo di quella società venivano appena avvertite, e se lo erano, in alcun modo si vedevano collegate alla grande "insorgenza" che all'indomani dell'unità e almeno fino al 1864 vide larghi settori nel mondo contadino idealmente, quando non di fatto, schierati accanto ai briganti in una guerra senza quartiere contro i piemontesi, ma in modo particolare contro la borghesia.
Ma se questa era la cifra del "grande" brigantaggio, che poi, come ha notato Attanasio Mozzillo, si è soliti definire "politico", la caratterizzazione in negativo del "piccolo" brigantaggio non esclude anche per esso la presenza ed il peso di un dissestato retroterra socio-economico; ed è sciocco, più che ovvio, star lì ad insistere che i briganti solo i ricchi derubano e ricattano, e da una constatazione siffatta trarre poi argomento per dare al brigantaggio connotazione e consapevolezza di lotta di classe; accantonando il risvolto più significativo del fenomeno: l'estraneità, se non l'ostilità delle bande ai momenti di coralità delle campagne, quando cioè queste riescono a compattarsi attorno a precisi e concreti obiettivi e contro ben definiti avversari.
Per non dire poi di una casistica che negli ultimi anni Sessanta allinea continui episodi in cui vittime di grassazioni e di devastazioni, di violenze e di furti sono proprio i ceti più umili, mentre i proprietari si pongono sempre più spesso come complici e sostenitori delle masnade superstiti. Una non lontana ricerca di Antonio Caiazza (La banda Manzo, Napoli, 1985) è una riprova di come la maggior parte dei testi sul brigantaggio, che da qualche anno a questa parte si vanno con sempre maggior frequenza scoprendo e riproponendo (memorie, biografie, narrazioni odeporiche) hanno valore non tanto per una più approfondita conoscenza del fenomeno nelle sue potenzialità innescanti, del si-io essere o non escrescenza maligna quanto episodica nel tessuto meridionale, ma meglio per il loro contributo alla conoscenza antropologica di questo tessuto. E siamo naturalmente nei territori della "cultura materiale", che è in fondo dire soprattutto storia del mondo subalterno a cui vengono restituite pulsioni, credenze, cognizioni e modi stessi di vivere quotidiano.
E si veda il caso di Manzo. Oltre che alla "ipocrisia della figura", come scriveva di lui un giornalista di allora, stupito dal contrasto tra la "signorilità" del comportamento e il folto curriculum di delitti, il brigante di Acerno deve la sua notorietà alla parola, alla parola scritta. In primo luogo, perché egli stesso aveva un qualche rudimento di alfabeto, e di qui alquante sue lettere che sotto la scorza di una lingua sgangherata rivelano dimensioni culturali articolate in una quantità di contenuti e di valenze.
Ma non solo a questi singolari documenti Manzo affida la sua "posterità", giacché per chissà quale fortuito accadimento, nel corso dell'ordinaria sua attività di sequestrare persone, furono ben quattro le sue vittime che, riacquistata la libertà, scrissero e misero a stampa libri nei quali narravano con ricchezza di particolari la loro straordinaria avventura: l'inglese Moens, il sacerdote Olivieri e gli svizzeri Lichtensteiger e Friedli, catturati questi ultimi insieme al ragazzo Wenner, figlio di quell'Alberto Federico Wenner a cui si deve la prodigiosa espansione delle filande salernitane alla metà del secolo scorso, nonché la fondazione di una operosa e piuttosto facoltosa colonia svizzera sulle rive dell'Irno.
Per quattro mesi Jsacco Friedli rimane prigioniero di Manzo, che costringe lui e i suoi compagni a continui e massacranti spostamenti, a marce forzate e a fughe precipitose, in un itinerario che dai "casini svizzeri" di Pellezzano, appena fuori Salerno, si snoda lungo i monti dell'Irpinia (il San Michele, il Terminio, il Polveracchio) e il massiccio dell'Alburno; itinerario che Caiazza non solo ricostruisce nelle tappe anche più marginali, restituendo l'esatta denominazione dei luoghi e dei punti di riferimento (paesi naturalmente e ancora sorgenti, casali, taverne e cappelle), ma ripropone in una suggestiva rievocazione di una dimensione (anche naturale, ambientale) che può apparire fabulatoria e che invece è sostenuta da un'ineccepibile documentazione.
Ma torniamo a Friedli. Per ben centoventi giorni, questo svizzero educato si guarda intorno, osserva, registra nella memoria, per poi scrivere un singolare diario che in una buona traduzione è inserita nella ricerca di Caiazza. Pagine, queste di Friedli, che sembrano ispirate alla preghiera che gli rivolge uno dei briganti, prima del rilascio: "Non ci giudicate troppo"; e allora uno sforzo di capire, di immedesimarsi nella mentalità e nella "cultura" di quegli uomini che lo circondano, chiusi nei loro mantelli di panno, carichi di anelli, orologi, catene e vistosi orecchini ai lobi. E di tutti costoro, Caiazza diligentemente ritrova l'originaria collocazione sociale, e sono naturalmente carbonai, formaggiai o "caciari" come il loro capo, Manzo, oppure fornaciai occupati nelle "carcare" (per far la calce viva) disseminate sulle montagne, taglialegna e mulattieri: in definitiva, tutta "gente di bosco". Uomini tutti fin dall'infanzia votati allo straniamento dal contesto paesano, alla solitudine, ma anche a certe forme di libertà inconcepibili nella chiusa società dei borghi contadini. Ed è uno scavo pazientissimo nel deposito alluvionale della memoria collettiva (là dove questa esiste e resiste), ma di più negli atti processuali e nelle "informative" dei questori e dei prefetti, dell'esercito e dei carabinieri, che permette a questo intelligente ricercatore di raggiungere, oltre la mera indicazione di nomi e di soprannomi, individui la cui storia ha come stereotipo approdo la morte violenta o il carcere a vita.
Ma se le carte dell'amministrazione e della giustizia devono necessariamente mediare, se non proprio distorcere e soffocare le voci della diversità e dell'emarginazione, Friedli i suoi briganti li fa parlare; e non soltanto riportando in lingua o in dialetto imprecazioni, invocazioni a questo o quel patrono, locuzioni e scongiuri, ma servendosi di una scrittura che si sforza di restare il più possibile fedele ai modelli (l'argomentare e il discorrere, ma anche le strutture logistiche) dei suoi carcerieri; e perciò una gran quantità di riferimenti insostituibili per attingere il loro immaginario collettivo, la loro cultura, sempre che il termine si assuma nella sua accezione antropologica.
E cultura non è soltanto l'osservanza maniacale dell'astinenza alla vigilia; cultura non è solo "familismo" o credenze miracolistiche, ma anche - e forse di più - la trasmissione orale di antiche saghe di vendetta e di morte, di canzoni disperate, di narrazioni, sostenuta da elementari ma non per questo meno sentite componenti agiografiche ed iperboliche.
E fin qui sono tutte proiezioni del mondo in cui sono nati e hanno vissuto fino al momento della latitanza. Ma in loro c'è dell'altro, e su questo altro, che è un'autentica "diversità", insiste Friedli, non certo teorizzandola, ma mostrandocene di continuo gli aspetti più vistosi. Il gioco d'azzardo, la dissennata prodigalità, l'allegria furibonda, il canto e la danza, l'attenzione all'immagine personale denunciano in questi "uomini del bosco" una dimensione di pienezza, un gusto della vita, sconosciuti al pessimismo e alla rinuncia dei loro padri, dei loro fratelli che continuano a vivere la vicenda dei paesi.
Certo, giocano anche, in questo giudizio, molte scorie di un romanticismo di maniera, ma non è solo in quest'ottica che lo svizzero si avvicina ai briganti; non è solo l'ipotesi della libertà selvaggia che condiziona la sua prospettiva, se a prevalere non sono tanto la mediazione letteraria e l'iconografia tradizionale (mantelli neri e cappelli piumati), ma, come si diceva, il regesto del quotidiano: dalla costruzione di una capanna (e Friedli indugia su strutture, tecniche e materiali usati) alla macellazione di un maiale, dalla descrizione degli utensili alla preparazione del cibo... Ma anche in queste incombenze "materiali" i briganti si dimostrano "altri", perché a dettare i loro comportamenti è una necessità che per molti aspetti li avvicina ai monaci e ai soldati.
Che peso ha tutto questo negli equilibri di una società rurale come quella del Mezzogiorno? Può dirsi, o soltanto supporsi, che questo "ordine" (per restare all'analogia militare e monastica) in qualche modo acscompagini la tradizione dialettica delle classi nelle nostre campagne?
Come modello dirompente, risponde qualcuno, presenta la stessa incidenza degli emigrati di ritorno, soprattutto di quelli che in altri Paesi hanno realmente e consapevolmente vissuto esperienze diverse, conosciuto realtà diverse, vissuto in contesti e scenari nei quali la dinamica sociale era assai più complessa di quanto non lo fosse in certe zone del Mezzogiorno la primordiale contrapposizione tra padroni e servi, tra proprietari e contadini. E, procedendo in questa ottica, si insiste a ribadire lo stretto rapporto causale tra diaspora migratoria e fine del brigantaggio comune, quello appunto nelle cui file ha sempre militato Gaetano Manzo.
E di Manzo, di Tranchella, di altri ormai improbabili alfieri dell'infelicità contadina, si favoreggiano ripetuti tentativi di traversare l'oceano per salvarsi dalla vendetta dello Stato, ed è una proiezione a posteriori del mito americano e, insieme, dell'ormai consolidata ipotesi che - senza operare discriminazioni tra masnadieri grandi e piccoli, politici e comuni - assume il brigantaggio, tutto il brigantaggio, a momento fabulatorio di un riscatto mancato.
In realtà, come si può ben rilevare da questa ricerca di Caiazza, come da altre, numerose, soprattutto degli ultimi quindici anni, la fine del brigantaggio è causata dal venir meno della complicità tra le masse contadine e le aggregazioni e comitive armate. Alla fine degli anni Sessanta le campagne vedono negli ultimi briganti soltanto escrescenze parassitarie, perché le bande, decimate e braccate, esercitano la loro violenza predatrice più spesso verso le cascine e le masserie piccole e isolate che verso i palazzi e le grandi masserie.
Questo non esclude che in un piano diverso l'immaginario collettivo si mostri docile a suggestioni dei tutto scollate dalla griglia degli accadimenti reali. E quindi al pari dell'America anche il brigantaggio assunto a luogo deputato di una memoria atemporale: se America è libertà ed emancipazione, fuga dal paese e riappropriazione della propria identità, il bosco è pur esso rifiuto, riscatto, separazione.
E non deve poi tanto stupire se un dato ormai radicato dell'opinione viene assunto a postulato di una storiografia che non sempre e non comunque sa difendersi dalle suggestioni della continuità.

Cronache dei vinti

La "sporca guerra"

Cerchiamo di attualizzare una cronaca vecchia e quasi dimenticata. Domenica Straface, detto "Polma", cafone calabrese di Longobucco, in una gelida sera di novembre del 1869, chiude la sua lunga stagione di brigante. Stanco morto appiedato, seguito da un solo compagno di avventura, nella Sila che le tenebre fanno ancora più aspra e quasi fuori dei tempo, incappo in un cordone di truppa, allo stesso modo di un cinghiale inseguito sbuca di fronte ai cacciatori alla posta. Palma è stato tradito, e più precisamente, venduto: lo aspettano carabinieri, soldati e squadriglieri, i servi dei baroni armati di buoni fucili per dare la caccia ai ribelli che dominavano le terre a bosco e quelle delle fiumare. Ed èproprio uno squadrigliere del barone Guzzolini a fermare il brigante con un tiro fortunato, che farà guadagnare al guardiano una decina di migliaia di lire. Palma stramazza e agonizza per alcune ore, urlando nella notte come una bestia ferita. Nessuno osa accostarglisi, ha ancora il fucile. Alla fine, un carabiniere animoso, stanco forse della tensione che si è addensata sul bosco Grande, si fa sotto e finisce con una palla al petto il brigante. Il corpo di Palma viene recuperato, pulito alla meglio del sangue e della terra che l'hanno reso quasi irriconoscibile, per essere esibito nelle piazze dei paesi vicini. La guerra ai briganti ha i suoi riti macabri, che servono, come diceva un'ordinanza, "all'ammonimento dei tristi". Nei giorni seguenti, tanti cafoni di raccolgono negli slarghi dei miseri borghi per osservare in silenzio il morto ammazzato, dopo essersi furtivamente segnati. Ma gli occhi dei cafoni sono occhi di gente ignorante, che non sa distinguere i dettagli né le differenze. Guardano la salma grigia e nera di Domenica Straface morto e vedono Palma vivo, così come l'aveva visto un testimone nei giorni del suo breve trionfo. "Il suo vestimento avea qualcosa di bizzarro. Pantaloni fasciati rossi e blu guarniti di madreperla; giubbone alla cacciatore con quattro file di lire acconciate a bottoni cadenti dal bavero in giù; cappello alla calabrese invellutato; due colpi di pistola inglese montati in argento, e coltella con manico intarsiato dello stesso metallo. Di statura mezzana e tarchiato, mancava nel volto di quell'orrida e selvaggia impronta che ordinariamente caratterizza questa nomade genia di malfattori".
I cafoni amano le storie fantastiche e sanguinose ed è certo pensando a loro che l'oscuro redattore di un piccolo giornale di Catanzaro, pochi giorni dopo i fatti tragici di Bosco Grande, traccia questo necrologio del brigante caduto: "Era contadino laboriosa, mite ed ossequiente: fu spinto al malandrinaggio da insinuazioni malvage dei tristi, che provocano il brigantaggio per specularvi. Presso il volgo godeva prestigio e popolarità. Le dannette favoleggiavano di lui chiamandolo santo, fatato, invulnerabile e invincibile. Aveva saputo procacciarsi queste false credenze con continuate, generose elargizioni, e tenendo osservanza ad un sistema di vita parco e temmerato".
Ma per quale ragione rievocare queste vecchie cronache? I nostri briganti, soprattutto quelli della stagione post-unitaria, distintisi nel decennio cruciale fra il 1860 e il 1870, sono finiti in un ripostiglio fra i più polverosi della storia; e lì dormono schiacciati dalla retorica risorgimentale. Perché disturbare il ribelle di Longobucco? Semplice: Palma - come certo presagivano molti cafoni che ne videro il corpo penzolare senza vita apparente - è riuscito a superare anche il muro del silenzio e oggi è tornato fra noi come personaggio di primissimo piano nel bel Romanzo militare, di Mino Milani: un romanzo che ha molti pregi, non ultimo quello di riportare l'attenzione su un periodo fra i più tormentati del nostro Mezzogiorno.
L'incontro fra le Italie che si fusero formalmente nel 1861 non fu proprio felice; fu più doloroso di quanto non risulti dalla storiografia unitaria. Il brigantaggio, per molti versi, costituì la nostra "sporca guerra", nella quale si mescolarono, fra scontri e imboscate, sussulti legittimisti e rivolte contadine, resistenze pre-liberali e malandrinaggio. La retorica nazionale ha cancellato i briganti e la repressione che in un decennio di ferro e di fuoco li ricacciò nel limbo della nonstoria; ma da questo regno delle ombre i coloni ribelli, con la ferocia e gli abiti pittoreschi che gli erano propri, evadono grazie alla complicità dei letterati. E tornano a turbarci, fastidiosi testimoni di un Far West italico che tanti non conoscono, di una nostra "Frontiera" sulla quale si è combattuto, ma senza onore né gloria. Infinite sono le vie attraverso le quali i fantasmi rimossi dalla coscienza nazionale riescono a materializzarsi.
Milani è di Pavia. E a Pavia nacque anche il generale Sacchi, combattente garibaldino con esperienze sudamericane; il quale nel 1869 comandò nelle Calabrie le truppe incaricate della repressione dei brigantaggio. E' Sacchi, in realtà, il protagonista di Romanzo militare, un libro che dunque si incardina su una base rigorosamente storica.
Nel libro si narra di una particolare missione assegnata al generale: catturare, vivo o morto, Palma, l'ultimo brigante di una certo notorietà che resisto, ostinatamente, alla pressione dell'esercito e degli squadriglieri, e persino alle suggestioni dei tempi nuovi. Il generale obbedisce agli ordini, si reca in Calabria, si installa nel suo comando di fortuna e dà inizio al lavoro. Ma si accorge quasi subito che questo tipo di incarico non gli si addice: nella Calabria del 1869, dominata da nobilucci meschini e da funzionari mediocri, non c'è spazio per I soldati veri; al massimo c'è posto per gli sbirri.
Sacchi viene da lontano da non dimenticate battaglie liberatorie; porta con dignità e con responsabilità la divisa del Regio Esercito. Ma in quella landa popolata da bravi e da pezzenti l'uniforme gli sta stretta. Il generale noto l'usura psicologica dei suoi ufficiali e il disagio creato da una politica infelice - buono più per una "pacificazione" coloniale che per l'unità italiana -, ma in modo particolare individuo immediatamente le ragioni storiche e sociali che favoriscono la nascita del fenomeno brigantesco. Ed è anche disgustato per certi sistemi che nella "sporca guerra" servono a fare terra bruciata intorno ai cafoni in armi. La prassi dei "piemontesi" è dura: giustizia sommaria per i fiancheggiatori e gli ispiratori (allora erano chiamati manutengoli), arresto e deportazione dei familiari dei ribelli, procedure spicce che tradiscono anche il disagio di chi è chiamato a combattere un nemico che non conosce e non capisce.
Alla fine, senza sporcarsi le mani, senza ricattare Palma arrestandone la donna, Sacchi può vedere morto il suo nemico, vinto da un meccanismo più forte di lui. Ma quella del generale pavese è una vittoria amara: l'antico combattente d'Uruguay sente di essere fuori posto, al pari di Palma. Avverte una comunanza di destino, lui vivo, col morto, essendo entrambi incalzati dalla storia che non li considera organici, funzionali ai suoi nuovi disegni. Poco importa se il brigante finirà in una tomba senza nome e il generale in un comando di divisione. Sarebbe ingeneroso e riduttivo, tuttavia, chiudere questo libro nell'angustia pur meritoria della ricostruzione e dell'interrogazione storico. Quello di Milani è un romanzo senza aggettivi, in cui un linguaggio terso e misurato serve un'invenzione efficace. Felice anche la scelta della collocazione temporale per l'intreccio.
Ma ci sembrano validi anche la grana e i temi del testo. Vi si ritrovano grandezze e miserie della vita di guarnigione - quasi fosse il comando di Sacchi una piccola fortezza Bastiani nel deserto dei briganti - e una storia d'amore e di morte che contribuisce al gusto stendhaliano di cui da avvertenza il risvolto di copertina. L'imposto, ben riuscito, supera le strettoie temporali della vicenda: sarebbe piaciuto anche a Palma, se quel disperato avesse avuto dimestichezza con la corto stampata e se gli fosse stato offerta, in quei tempi feroci, l'opportunità di specchiare la sua ribellione nelle pagine di un libro.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000