§ Dai Sanfedisti alle Leghe

L'Anti-Risorgimento




Giovanni Spadolini



Anti-Risorgimento. E' un'espressione che circolò in certi anni del fascismo come rifiuto della rivoluzione liberale, come rifiuto dell'Italia, e dell'Europa, moderna.
Non a caso, nel periodo del massimo consolidamento della dittatura, operò una rivista, non priva di crismi e di incoraggiamenti ufficiali, che si intitolò "Anti-Europa". E che tendeva ad approfondire il fossato in tutti i sensi e in tutti i campi, fra "gli immortali principi" della Rivoluzione francese, connessi alla soluzione risorgimentale, e la nuova realtà - ordine, gerarchia, impero - riflessa nella svolta del fascismo.
Nella sua essenza pragmatica e polivalente, nel suo sterminato "relativismo" (che spiegherà poi gli equivoci di Giuseppe Rensi), il movimento fascista fu ambiguo e ambivalente quant'altri mai rispetto all'eredità risorgimentale. Diviso, come sempre, a metà. Un filone, quello di Gentile, che derivava le sue ispirazioni dalla destra storica risorgimentale e aveva per suo primo progenitore Gioberti. Un altro filone, quello di Malaparte, che alzava la bandiera dell'"Italia barbara" contro l'"Italia civile", che esaltava tutti i dati dell'autoctonia pre-risorgimentale pur di rifiutare la contaminazione europea, la deviazione giacobina, l'influenza rivoluzionaria. Fu quello di Malaparte un indirizzo che si estese poi, in forme diverse e diversamente intonate, allo "strapaese", al "selvaggio", a tutte le mode, artistiche o letterarie, di contrapposizione di una primigenia realtà italiana al moto italiano, composito e "corruttore" del Risorgimento. Rigettato in una chiave quasi caricaturale. Respinto nei suoi grandi principi ispiratori, l'umanità, la giustizia, la libertà: soprattutto nell'innesto, tutto mazziniano e tutto democratico, fra patria e umanità.
"Quell'Italia antica, tradizionale, storica, ingenua, che tuttora vive, nonostante i decreti e le ordinanze, in un'Europa civilissima, borghese e possidente ... ". Era quell'Italia cui si richiamava il manifesto dell'"Italia barbara" fin dal 1925.
Ed è singolare - a confermare la complessità della storia italiana - che il volume-pamphlet di Curzio Malaparte (ancora Suckert) sia stato pubblicato a Torino da Piero Gobetti editore ormai alle soglie del suo sacrificio finale nella lotta contro il fascismo.
"Presento al mio pubblico il libro di un nemico", diceva Gobetti nella sua breve avvertenza editoriale. E aggiungeva con un graffio rivelatore dell'uomo: "confutare immagini, opporre politica a variopinta fantasia o a stile pittoresco non è di mio gusto".
In realtà quelle fantasie e quelle immagini, al limite del paradosso, costituiranno uno degli aspetti fondamentali della deformazione fascista della storia del Risorgimento, di quel vero e proprio distacco dagli ideali del riscatto nazionale che si prolungò per tutti gli anni in cui si tentò la riabilitazione del cardinale Ruffo e delle bande della "Santa Fede" contro Garibaldi, in cui si ripercorsero le orme dei vecchi reazionari, come Solaro della Margarita, contro Cavour, in cui si tessé l'elogio del "Viva Maria" e della rivolta autoctona del contadiname italiano contro le idee giacobine importate dalla rivoluzione francese e imposte dai soldati di Napoleone, generale del Direttorio.
La polemica delle Leghe contro il Risorgimento - un vero e proprio processo, Garibaldi paragonato a Renato Curcio, Mazzini associato a Toni Negri e Cesare Battisti chiamato "avventuriero" -ci riporta a taluni di quei motivi, in un clima e in una situazione completamente diversi, ripropone temi e rilancia accuse, e anche invettive, e anche scomuniche, tipiche dell'anti-Risorgimento di una volta, degli anni fra le due guerre, ma non solo di quelli.
Il contrario del 1945-46, nel momento della liberazione. Tutto quel rimescolio, fra destra dinastica e destra popolaresca, sembrò spazzato via dalla Costituente e dalla fondazione della Repubblica il 2 giugno. Nella scia della lotta della Liberazione che si era ispirata costantemente a motivi e a richiami risorgimentali, rivissuti sullo sfondo della tragedia italiana.
Saltato a piè pari il periodo fascista, il Risorgimento tornava d'improvviso ad imporsi nei simboli, nelle bandiere della resistenza, nelle insegne della guerra partigiana (la "guerra combattuta" di Pisacane). Con tutte le speranze repubblicane deluse e umiliate; con le connesse, o di poco successive, speranze socialiste riaffioranti all'orizzonte, in un quadro che opponeva la tristezza del presente alle glorie del passato. E di qui, già sullo sfondo della Consulta prima ancora di qualunque elezione libera, nel settembre 1945, lo scontro circa l'Italia post-risorgimentale, e i limiti democratici dello Stato liberale, fra i rappresentanti di due diverse visioni della vita e della storia italiana, fra Benedetto Croce e Ferruccio Parri, il primo presidente del Consiglio dell'Italia liberata, il leggendario "Maurizio" della lotta partigiana.
In quegli anni del dopoguerra non riesplose la polemica che aveva distinto i primi anni 30 fra Benedetto Croce e Luigi Salvatorelli. La polemica cioè sulla continuità della storia d'Italia, così illuminante per le future generazioni. Croce fermissimo nella sua concezione della identità fra l'atto di nascita dello Stato italiano (marzo 1861, con la proclamazione del regno d'Italia nel Parlamento subalpino) e l'entrata dell'Italia nella vita delle nazioni, e quindi nella vita mondiale. Uno Stato italiano che nasceva insieme con l'unità italiana; un quid novum che si contrapponeva a tutte le tradizioni dell'Italia spezzettata e frantumata degli Stati regionali e assolutisti, che iniziava una pagina completamente nuova, una pagina completamente bianca. Abbastanza gloriosa per essere riempita da sola.
Dall'altra parte Salvatorelli, e non solo Salvatorelli, fermo nel rivendicare una continuità della nazione Italia come comunità di lingua e di cultura fin dalla scoperta del volgare, cioè dall'età di San Francesco e di Dante. Quella certa idea dell'Italia che aveva costituito il nucleo del Risorgimento nazionale e la spinta fondamentale dello stesso Mazzini. L'Italia che si era formata come coscienza di se stessa, della sua unità linguistica e culturale, sei o sette secoli prima del Risorgimento, che diventava Risorgimento, e non Sorgimento e non Nascita, proprio in virtù del nesso morale e linguistico fra tutti gli italiani, preesistente all'unificazione materiale della penisola, al di là delle paratie o delle barriere opposte dalle varie frontiere, artificiali e provvisorie.
Vent'anni fa parlai di "autunno del Risorgimento", ma oggi siamo di fronte a un fenomeno del tutto diverso. Non c'è più l'autunno, non c'è più l'abbandono, non c'è più neanche l'ironia che percorse quegli anni rispetto ai valori di un'Italia discreta, l'"Italia civile" detestata da Malaparte e difesa da Bobbio.
No. Oggi c'è un vero rifiuto, sia pure in settori limitati della società italiana, delle tavole di valori dell'unità nazionale, c'è un tentativo evidente di spostare le carte di fondazione dello Stato dall'unità fra primo e secondo Risorgimento alla esistenza di una realtà regionale preesistente allo Stato e sopravvissuta ai centotrent'anni di regime nazionale. Quasi che l'identità della Liguria o del Veneto avesse una preminenza su quella realizzata nelle lotte del primo e secondo riscatto nazionale.
Quel rifiuto, che si esprime nelle Leghe, ha gravi conseguenze politiche. Il Risorgimento non è solo il titolo di identità nazionale per l'Italia, è il massimo titolo della sua identità europea.
L'unificazione nazionale fu realizzata in stretta correlazione con l'Europa, contro ogni illusione autoctona. Il motto "l'Italia farà da sé" si risolse presto nei rovesci subìti da Carlo Alberto nel 1848 sui piani padani. E l'illusione neoguelfa si disperse con tutte le nebbie del "primato" giobertiano.
L'Italia nacque come parte essenziale dell'Europa, sentita come civiltà comune. Mazzini fondò la "Giovane Europa" a tre anni di distanza dalla "Giovane Italia". La democrazia repubblicana e garibaldina fu sempre di respiro europeo e mai chiusa in paratie nazionaliste. Il liberalismo cavouriano respirò nell'aura dell'Occidente, guardò al modello britannico, risentì le influenze svizzere.
Il "no" all'Italia unita è in realtà il "no" all'Europa.

Ritratto di una dinastia

Disastro Savoia

Quattro re: Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III, Umberto II. Ottantacinque anni nella vita del Regno d'Italia, dal 1861 fino all'avvento della Repubblica, nel 1946. Col suo stile limpido e sereno, Denis Mack Smith pone i quattro ritratti al centro della sua vasta narrazione e le quattro immagini turbano, deprimono, indignano. Eppure, questo storico non è impietoso, addita ogni virtù, soprattutto negli ultimi due monarchi: ma, poste così, fianco a fianco, le quattro icone offrono lo spettacolo di una dinastia rozza, stolta, ambiziosa, provinciale. Una dinastia tragica per l'Italia.
Il libro ("Italy and its Monarchy") era difficile da costruire per la carenza di documentazione. In una prefazione alle 400 pagine l'autore spiega: "Non è semplice calcolare l'influenza dei quattro sovrani sulla storia d'Italia, la documentazione è tendenziosa o inadeguato [ ... ]. Alcuni importanti uomini politici si preoccuparono di mandare i propri diari e le proprie lettere prima della pubblicazione, per sottrarre se stessi e gli eredi al rischio di incriminazione qualora avessero attribuito al sovrano la responsabilità di azioni governative. Per lo stesso motivo, e perché erano alle dipendenze dello Stato, anche gli storici dovevano essere reticenti". Infine, la lacuna più vistosa. Mancano tutti gli archivi della famiglia reale, "che gli ultimi due re portarono con sé quando andarono in esilio". Sono in Svizzera, con ogni probabilità a Losanna.
Mack Smith allora ha aggirato l'ostacolo, attingendo ad altre fonti, soprattutto alle relazioni degli ambasciatori inglesi in Italia e agli archivi della famiglia reale britannica: e le ricerche sono state fruttuose. Hanno confermato ampiamente i giudizi negativi che lo storico aveva già pronunciato sui Savoia nei suoi testi precedenti. "Fino a poco tempo fa, per quasi 150 anni, la classe politica italiana non è stata all'altezza degli italiani, che erano quasi sempre migliori dei loro leaders. Sì, vi fu un Giolitti, uomo notevole, però vi fu un Crispi, uomo terribile. Ma, tra i capi peggiori, erano forse i re, salvo Umberto II".
Poi va al nocciolo della questione: quasi tutti i monarchi, in quasi tutti i Paesi, hanno modeste doti intellettuali. Purtroppo, in Italia, avevano vasti poteri. In Inghilterra, ad esempio, dall'Ottocento in poi, le deficienze dei re e delle regine non potevano più nuocere, perché sulla scena nazionale c'erano nuove forze e possenti. In Italia, invece, il re era ancora un re. Non basta.
I Savoia usarono male il loro potere. Soffrivano di "folie de grandeur"; attribuivano all'Italia muscoli economici e militari che non aveva; ignudi com'erano di cultura, avevano una visione sbagliata del mondo esterno. Furono allora un "disastro", come afferma Gilmour? "Temo proprio di sì". Vediamo un po'. Vittorio Emanuele II voleva "e regnare e governare". Incontra la regina Vittoria e si vanta di avere un acume politico "invariabilmente" superiore a quello di tutti i ministri: l'assurda millanteria di un sovrano "incapace di scrivere una sola pagina di prosa corretta". La sua vita privata era "disordinata". "La regina era morta giovane, dopo numerose maternità, ma Vittorio Emanuele aveva avuto figli illegittimi da varie donne, una condotto che era quasi una consuetudine anche tra i Savoia più devoti". I sogni di gloria sono vertiginosi. Nel 1862 vuole iniziare una guerra nei Balconi; nel 1864 insiste che l'Italia può "sconfiggere l'Austria senza l'aiuto di nessuno"; nel 1867 "vuole mano libera" per risolvere la questione turca.
Certo, qualche dote aveva: coraggio, astuzia, tenacia. Ma Lord Clarendon, ministro britannico degli Esteri, dipinge questo feroce ritratto: "Il giudizio è unanime, Vittorio Emanuele è un imbecille (proprio così, in inglese "imbecile"), è un disonesto, che mente a tutti; di questo passo, finirà col perdere la corona, rovinando sia l'Italia sia la dinastia". Mack Smith ricorda che, dopo la sua morte, venne fatto il possibile "per proteggere la reputazione di un monarca tanto fallibile". "Lodi postume quasi universali furono elargite al re Galantuomo, tanto da chiamarlo il sovrano più grande della storia dell'Europa cristiano. Quel re, secondo il quale gli italiani erano governabili soltanto con le baionette o la corruzione, fu celebrato per la suo impeccabile deferenza verso il Parlamento. L'incompetente comandante supremo divenne brillante soldato e stratega".
Sotto Vittorio Emanuele II era cominciata altresì l'escalation dell'appannaggio, una scandalosa tumefazione per un Paese povero come l'Italia. Leggiamo: "Nel 1877, Depretis innalzò la lista civile a oltre 14 milioni di lire all'anno, una somma superiore alla spesa governativa per la pubblica istruzione. Nessun altro sovrano in Europa era pagato tanto". (In aggiunta, il re chiedeva di tanto in tanto al Parlamento di "liquidare" le sue amanti). Anche Umberto serbò quei 1.4 milioni, esentasse: ma la stampa cominciò a brontolare. S'indicò che il re d'Italia riceveva più dei Kaiser o della regina Vittoria, assai più del Presidente francese, retribuito con due soli milioni, e del Presidente degli Stati Uniti, il cui stipendio era ancora più smilzo.
Umberto non fu migliore del padre: anzi "del padre non aveva la robusta personalità e la sicurezza". Era - riferiamo - "un personaggio relativamente pallido": fu chiamato Umberto "il buono", ma buono non era né come re né come uomo. Anche lui, come Vittorio Emanuele, "aveva soltanto una modesta istruzione, senza interessi artistici o intellettuali, non leggeva libri". "Scrivere era per lui così spossante e disagevole che raramente vergava lettere e non apponeva la propria firma se qualcuno lo guardava". Mack Smith pronuncia il suo verdetto: sostiene che il suo regno "fu una delusione, forse un disastro". Usò male il suo potere, perché non lo usò abbastanza. Assistette "neutrale, passivo" al declino del Parlamento, persino all'ascesa delle forze che minacciavano il trono stesso, socialismo e repubblicanesimo.
Con Vittorio Emanuele III si ha un salto di qualità. L'uomo è intelligente e, a differenza del padre e del nonno, legge, apprezza lo studio della storia, è meno filisteo degli altri Savoia. All'inizio, mostra moderazione e sagacia; ma, col passare degli anni, i difetti hanno il sopravvento sulle doti, il cinismo diviene fatalismo. Nel 1975, il re "si assunse la responsabilità personale di trascinare alla guerra una nazione riluttante", come ricorderà più tardi, con soddisfazione. L'Italia era impreparata, il re lo sapeva. Ma sapeva pure che una vittoria militare avrebbe consolidato la monarchia, mentre il neutralismo avrebbe forse scatenato una rivoluzione e abbattuto il trono. Sono le sue parole al vicepresidente della Camera.
Nell'ottobre 1922, esercito e polizia potevano disperdere la "Marcia su Roma", ma Vittorio Emanuele non volle firmare la legge marziale. Nel giugno 1940, secondo Mack Smith, un monarca più grintoso avrebbe impedito l'entrata in guerra: e, forse, avrebbe potuto liberarsi di Mussolini, prima del '43. Alla fine, irresolutezza e furbizia costarono al monarca il suo trono. Chissà: avesse abdicato prima, avrebbe lasciato più tempo ad Umberto per tentare un salvataggio della monarchia.
Mack Smith conclude con il referendum e ricorda le accuse di irregolarità. "Un fatto è certo. Il referendum del giugno '46 fu assai più corretto dei plebisciti tra il 1859 e il 1860, su cui quattro re basarono il loro diritto al trono italiano",
Dunque, 400 pagine di una cronaca ora avvilente, ora esaltante. La si legge e si capisce subito perché l'autore insista che gli italiani erano migliori dei loro leaders. Un esempio per tutti: la disfatta di Adua del 1896, dove perirono seimila italiani, tanti quanti ne erano morti in tutte quante le guerre del Risorgimento.
Leggiamo: "Il generale Baratieri cercò di giustificarsi accusando i suoi soldati di aver ceduto al panico. Così si era detto nel 1866 e così si sarebbe detto, nuova mente, nel 1917 e nel 1943. Ogni volta, i comandanti celarono i propri errori, creando la leggenda di uomini che si erano rifiutati di combattere".
Ma, in quel 1896 di sangue, c'era in Eritrea un addetto militare britannico. Il quale riferì senza mezzi termini che "i soldati italiani si erano dimostrati combattenti di prim'ordine, come pochi in Europa". Era stato il comandante delle truppe a sbagliare tutto: e, "durante la battaglia, aveva abbandonato i suoi uomini al loro destino". Senza commento.

La storia come inganno

Quell'immobile isola

"Una rumorosa, romantica commedia con qualche macchiolina di sangue sulla veste buffonesca". Questa dura definizione del Risorgimento si legge nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Da Oriani a Gobetti, a Gramsci, ma ancor prima negli intellettuali del Sud post-unitario - Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini - la crisi del Mezzogiorno viene spesso ricondotta ai limiti della "conquista" dei Nord.
La denuncio attraversa anche la letteratura che, soprattutto in Sicilia, con il rilievo delle sue figure, ha rappresentato il più vivace apporto fornito alla cultura della nuova Italia.
Intorno al caso offerto da tre figurechiave della letteratura non soltanto isolana, De Roberto, Pirandello e Lampedusa, ruota un recente studio di Vittorio Spinazzola, che prosegue l'indagine sul romanzo ottocentesco avviata con i volumi dedicati a De Marchi e a Manzoni.
L'italianista milanese Spinazzola in "Il romanzo antistorico" sottolinea la scelta di campo di questi autori, che si oppongono programmaticamente al romanzo storico per eccellenza del nostro Ottocento, il capolavoro manzoniano, ma nel contempo prendono le distanze dalla scuola verista.
Nell'arco di poco più di mezzo secolo la letteratura siciliana produce, infatti, tre romanzi', "I viceré" (1894), "I vecchi e i giovani" (1973), e "Il gattopardo" (1956), che dimostrano il fallimento della rivoluzione borghese in Sicilia.
Ciò che più colpisce uno storico della letteratura come Spinazzola, attento alle dinamiche della ricezione, è che questo sconcertante processo di clonazione abbia potuto compiersi a partire da un'opera al suo apparire pressoché ignorata dai lettori come dalla critica. E che un autentico successo di pubblico sia invece toccato solo all'ultimo e meno provocatorio dei' tre -romanzi., "Il gattopardo".
"La storia", scrive De Roberto ne "I vicerè", "è una monotona ripetizione; gli uomini' sono stati, sono e saranno sempre gli' stessi, Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del '60, ancora quasi feudale, e questa d'oggi, pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutto esteriore".
La scoraggiata diagnosi del narratore siciliano, che si sarebbe accanito sull'aristocrazia dell'isola con una distruttività solo pari all'apprezzamento per la capacità di rilanciarsi come "razza padrona",ù ricorda talune pagine del Belli. In entrambi, la storia tende a dissolversi nella natura, sullo sfondo di un universo fissato nella sua immobilità. Tende così a comporsi l'immagine di due letterature: l'una, nei centri più avanzati, "organica" ai. programmi' di una borghesia riformista, l'altra bloccato nella solitaria diagnosi dello scacco di fronte all'emarginazione di un'irredimibile perifericità.
Non è un caso che in Pirandello e in Lampedusa, ma aggiungerei In Brancati e in Sciascia, la letteratura siciliana non abbia cessato di interrogarsi' sui temi di De Roberto: il potere e la società civile, l'istituzione e il cittadino.
Da cosa nascono nell'intellighentzia siciliana l'immagine della storia come inganno e l'irrisione delle sue conquiste come atteggiamento sostanzialmente antiprogressista, se non dalla stagnante bipolarità sociale, in cui pochi latifondisti dominano i volghi dispersi dei' braccianti? I Porto e i Manzoni presuppongono una rivoluzione e una filosofia della storia, non un vuoto drammatico in cui il potere ripete il suo rito camaleontico.
L'Impersonalità cui molti di questi autori si votano ben rispecchia il nudo stagliarsi degli eventi storici, al di fuori di qualsiasi teleologia, laica o provvidenziale. Non stupisce che Il tema dell'ingiustizia sociale si converta in quello dell'ineguaglianza naturale, né che alla lezione dello storicismo si sostituiscono le suggestioni dell'evoluzionismo darwiniano.
De Roberto sceglie un'età cruciale di mutamento, come il Risorgimento, per mostrare che nulla può davvero mutare nell'uomo abbandonato al determinismo degli spiriti. Manzoni non aveva sottovalutato, da buon cattolico, la negatività del peccato, ma sapeva di poter fare appello alla coscienza individuale. Per questo aveva rivolto agli uomini' del Risorgimento l'invito a edificare istituzioni migliori.
Che a cose fatte i siciliani scrivessero romanzi come quelli di cui si occupa Spinazzola, avrebbe costituito una smentita che andava ben oltre l'opera manzoniana. Nella flauberticina "éternelle misère de tout" in cui De Roberto vedeva dibattersi la storia avvertiamo l'eco dell'infinita vanità che nel tutto aveva avvertito un altro grande periferico del nostro Ottocento.
E quanto le cose siano oggi cambiate nella terra dei tre eccelsi "antistorici" lo si può decidere, leggendo e riflettendo su mafie, corvi, complicità, omicidi e affini.

Per una storia della borghesia

Capitalismo all'italiana

L'Italia non ha conosciuto una vera e propria "rivoluzione borghese": né una rivoluzione politica come in Francia, né una economica come in Inghilterra. il ceto di mezzo, così, ha mancato la sua legittimazione storica ad essere classe dirigente. Su questo peccato originale della storia patria sono stati versati fiumi d'inchiostro e di lacrime. Anche ora, in tempi distratti, non inclini ai grandi dibattiti civili, si torna a parlare di mancata identità nazionale, di borghesia pallida, quasi testa fragile di un corpo altrimenti vigoroso. E ne parlano Vertone e Lanaro, Asor Rosa e Candeloro, Tranfaglia, Bollati, Castronovo.
Fino a poco tempo fa si discuteva volentieri di centralità operaia nella storia recente del Paese. Ci si dovrebbe piuttosto riferire alla centralità borghese. Tutto è passato di lì: la rendita e il profitto, il trasformismo e il cambiamento. La piccola borghesia è stata capace di allevare nel suo grembo e simultaneamente futurismo, anarchismo e culto della famiglia. Che è come dire: tutto e il contrario di tutto. Alla fine si è venuta strutturando una società mediana, come ha lasciato scritto Rosario Romeo, in cui "gli elementi di continuità e di rottura sono presenti nella stessa classe, la borghesia". Secondo Gramsci questo ceto, con responsabilità di comando, parte subito col piede sbagliato. La classe politica risorgimentale manca al suo compito primario, non facendo una riforma agraria in grado di portare a soluzione l'arretratezza del Sud, trappola di sbarramento sulla strada del decollo industriale. I conservatori al governo paventano, dietro le "nere ciminiere", l'illegalità operaia, e mantengono coscientemente fragili le basi dello Stato liberale, avvitando quel meccanismo perverso che sboccherà poi nel fascismo. A questo schema vetero-marxista, Castronovo muove una serie di obiezioni: "Dopo il 1860, la realtà italiana è quella di un Paese poco sviluppato che dispone di un terzo del reddito francese e di un quarto di quello inglese. Due italiani su tre non sanno né leggere né scrivere. I primi governi sono fatti da possidenti terrieri e liberi professionisti, tutta gente che viene dalle guerre del Risorgimento e difende strenuamente la libertà, anche quella dei commerci. Quando il mercato mondiale èinondato dai cereali americani e russi a basso costo e tutti gli Stati erigono sbarramenti daziari a loro difesa, l'Italia stenta a varare misure protezionistiche. Arriverà, buona ultima, nel 1887. Queste misure buttano giù di sella la vecchia classe dirigente. Nasce un nuovo tipo d'imprenditoria. Il panorama muta radicalmente".
I borghesi emergenti tirano fuori la testa con la protezione statale, ma poi cominciano a camminare con le proprie gambe. Dazi e dogane sono concepiti soprattutto per dar fiato all'industria pesante (con Crispi, l'Italia produrrà navi e cannoni per dire la sua tra le potenze imperiali), ma finiscono per forzare l'industrializzazione della giovane Italia, e per farla uscire, anche se con un'eccessiva e artificiosa accelerazione, dall'infantilismo economico.
E' questo il vero peccato originale della borghesia al comando. Avviato dalle tariffe protezionistiche, lo sviluppo industriale rimane un fenomeno estraneo all'opinione pubblica. Il liberismo, cacciato dai centri di governo, resta a egemonizzare la cultura politica ed economica. L'implacabile polemica condotta da Giustino Fortunato, da Maffeo Pantaleoni e da Vilfredo Pareto contro il protezionismo doganale, reo, a loro dire, di sacrificare la produzione agricola del Sud e di gravare di tasse i consumatori, trova largo credito nella borghesia, sempre più convinta che l'industrializzazione sia frutto più dell'intervento statale che dell'iniziativa privata, e sia perciò stesso fonte di corruzione e di privilegi. Quanto ai ceti proletari, l'industrialismo è visto tout court come associato alle velleità militaristiche dei "governi della sciabola" e a un regime di fabbrica non molto diverso dai modelli di sottomissione servile tipici delle campagne del vecchio regime. Ovviamente, molte di queste ombre corrispondevano a limiti oggettivi del nuovo regime politico ed economico, ma si può in tutta coscienza affermare che si trattava di costi sociali dell'industrializzazione comuni a tutti i Paesi arrivati tardi al decollo, ai second comers, com'era appunto l'Italia.
Solo agli inizi del Novecento l'esigenza di avviare l'Italia sulla strada dell'industrializzazione s'impone all'interno della borghesia dirigente. Lo Stato è una stampella d'eccezione, ma non è quel demiurgo che la letteratura radicale descrive. Compaiono infatti sulla scena, ai primi del secolo, gli esponenti di una classe imprenditoriale dinamica e aggressiva. Sono i "figli del lavoro", usciti dalle schiere dei capioperai, artigiani, risparmiatori accaniti, destinati a fondare grosse dinastie industriali (è il caso dei Rivetti, degli Zegna, dei Trabaldo-Togna nel Biellese).
Come scrive il sindacalista Rinaldo Rigola, sono "individui che tengono del padrone e dell'operaio, lavorano di giorno e di notte, nei giorni feriali e festivi, lavorano bestialmente. Agisce in essi la molla del tornaconto individuale, fors'anche obbediscono al loro temperamento, ma non lo sanno, e comunque non lo dicono". E come loro lavorano le seconde generazioni, Giuseppe Venanzio Sella, per esempio, erede di quel Pietro Sella che nel 1816 aveva per primo introdotto le macchine nella manifattura tessile e dieci anni dopo, sentendosi prossimo alla morte, chiederà di essere trasportato nello stabilimento di Valle Mosso "per spirare accanto ai suoi dipendenti e in mezzo agli strumenti della sua opera".
All'inizio del secolo, molte imprese nascono dal crescente interesse della borghesia e della aristocrazia fondiaria non più verso i titoli di Stato e le speculazioni immobiliari,. ma per le nuove attività industriali e commerciali. Giovanni Agnelli, Alberto Pirelli, Guido Donegani, Cesare Pesenti, Ettore Conti, Camillo Olivetti, Giorgio Enrico Falck scelgono tutti settori non protetti dallo Stato (come sono la cantieristica, la siderurgia, la manifattura tessile), ma attività a più alto contenuto tecnologico come l'automobile, la gomma, la chimica di base e il cemento, l'elettricità e la meccanica di precisione. Quel che li accomuna tutti è la convinzione d'imporre il sistema dell'impresa come modello alternativo alla vecchia società rurale, senza finzioni, sulla base dei principii stessi del capitalismo: etica del profitto, individualismo, gusto per le innovazioni, concezione della fabbrica come sede strategica dell'accumulazione economica e delle trasformazioni sociali. Il loro stesso apprendistato è un chiaro segno del mutamento dei tempi. Donegani e Pesenti studiano in Germania, Agnelli visita la Ford in America e ne riporta i principii del taylorismo, Camillo Olivetti è forse quello che fa il viaggio di studio più significativo per capire la nuova mentalità degli imprenditori. Creatore della prima fabbrica italiana di macchine per scrivere, originario di una famiglia che per secoli ha vissuto di piccoli commerci nelle viuzze addossate ai piedi del castello di Ivrea, nel suo primo viaggio negli Stati Uniti (1893) accompagna come assistente Galileo Ferraris nel laboratorio di Edison. Lì capisce l'importanza della ricerca applicata all'industria. Al ritorno in patria denuncia "i vivitori di rendita", proprietari immobilisti, bottegai e notabili che si oppongono ad ogni nuova iniziativa.
E' in questo periodo che si mettono le prime basi della democrazia liberale. Con Giovanni Giolitti, a capo del governo ininterrottamente dal 1903 al 1914, si organizza il sindacalismo imprenditoriale di pari passo con quello operaio, culminato nel 1906 nella nascita della Confederazione generale del lavoro. Mai come in questo momento è vera l'equazione industrialismo e modernizzazione e mai come in questo momento la borghesia è vicina all'identificazione totale con la classe dirigente.
Non c'è dubbio che sia la nuova borghesia imprenditrice a guidare il sorprendente boom dell'epoca giolittiana: tra il 1896 e il 1913, il tasso di crescita effettivo è del 2,8 per cento, quando in tutto il ventennio precedente è aumentato meno dell'uno per cento all'anno, e insieme il prodotto delle attività manifatturiere cresce di quasi il 150 per cento. Malgrado questi rilevanti successi, neppure la borghesia giolittiana riesce a diventare egemone, a trasmettere i propri valori ad altri strati della società, in sostanza ad acclimatare una solida cultura industriale né ad allargare in maniera durevole il consenso sociale intorno alle istituzioni liberali.
Questo storico appuntamento con ogni probabilità viene perduto per una serie di fattori legati alla debolezza strutturale di quel processo economico, ma soprattutto perché viene meno il tacito patto di non belligeranza che Giolitti è riuscito a far stringere fra grande industria e le più forti federazioni di mestiere. I socialisti riformisti subiscono sempre più la pressione dell'anarco-sindacalismo e del massimalismo, mentre il liberismo radicale di un'agguerrita scuola di intellettuali si fa strada negli strati sociali, sia in alto che in basso. La piccola borghesia si sente tagliata fuori dai frutti del decollo economico e dai caratteri di una modernizzazione che non rientra nelle sue tradizioni culturali umanistiche e quasi georgiche. E' ferocemente antigiolittiana e antindustriale.
Muta anche l'atteggiamento della borghesia imprenditoriale verso Giolitti, quando, dopo aver ricavato i benefici, si tratta di pagare i costi dello sviluppo economico e della politica riformatrice (in materia fiscale, di legislazione del lavoro) voluta dal "grande moderatore": eppure è questa la sola soluzione possibile per coinvolgere attorno ai principii della rivoluzione industriale gli interessi e il consenso di altre classi sociali. Si chiude qui il tentativo giolittiano di iscrivere lo sviluppo economico in un processo di democratizzazione della società italiana senza avventure o sbandamenti. il dopoguerra esaspera tutte le contraddizioni della fragile democrazia. Le prime elezioni tenute col sistema proporzionale, nel 1919, segnano la perdita della maggioranza parlamentare da parte delle forze liberali e l'avvento dei partiti di massa, socialista e cattolico popolare. Si sviluppa un forte movimento nazionalista di destra, dal partito socialista si stacca la costola marxista-leninista, gli operai occupano le fabbriche, gli imprenditori cominciano a dover fare i conti con l'ipotesi di uno sbocco autoritario della crisi. Alla vigilia della marcia su Roma, Alberto Pirelli, Camillo Olivetti e Antonio Benni tentano di "costituzionalizzare" il fascismo emergente: ma non è l'alta borghesia capitalistica ad esprimere il fascismo, quanto la piccola borghesia, messa al riparo dalle crisi, con la compressione dei salari operai e con la rivalutazione della lira a quota 90.
Un certo processo di modernizzazione esiste anche sotto il fascismo, nonostante il ruralismo e l'antiurbanesimo conclamato dal regime. Le grandi imprese imparano a conoscere i principi dell'organizzazione scientifica del lavoro, per la prima volta nella storia italiana il 1936 vede il reddito prodotto dall'industria superare quello rappresentato dall'agricoltura.
Ma l'Italia non diventa per questo un'autentica società industriale. La nascita, dopo la grande crisi del 1929, dello Stato banchiere e imprenditore con la creazione dell'Iri contribuisce a perfezionare un capitalismo ancora primitivo, assistito e protetto. La borghesia è presente anche in questa fase con un degno campionario di manager pubblici e privati come Alberto Beneduce, Donato Menichella, Raffaele Mattioli, Oscar Sinigaglia, Agostino Rocca, tecnocrati della nuova industria e della banca a partecipazione statale, convinti che lo Stato debba svolgere una propria funzione dinamica e regolamentatrice. I posti di comando nell'economia rimangono tuttavia
nelle mani dei vecchi capitani d'industria, diventati nel frattempo "grandi feudatari", come scrive nel suo "Diario di un borghese" Ettore Conti.
La rigidità di un sistema che non prevede mediazione politica, il culto delle tradizioni, l'antiurbanesimo, gli sbarramenti autarchici configurano una società organica, controllata dall'alto, fondata sulla gerarchia e sullo spirito gregario: intorno a questi principii, che sono la negazione di una società industriale capitalistica, il fascismo pianifica il consenso delle masse, superando la fase critica della recessione e arrivando diritto alla guerra.
Mentre il ceto medio trova occasioni di sopravvivenza nella burocrazia statale ingigantita dal regime e coltiva l'illusione di uno status distinto e superiore a quello del proletariato di fabbrica, qualche voce di dissenso si leva dalle corti dei grandi feudatari. Gino Olivetti, esponente della Confindustria (nel 1938 riparerà all'estero per sfuggire alle leggi razziali), protesta contro la demagogia di alcune misure economiche del regime. Giovanni Agnelli, senatore, non nasconde la sua avversione ai principii autarchici. Il dissenziente più clamoroso, il dandy della finanza, il magnate della seta artificiale, Riccardo Gualino, che osa indirizzare a Mussolini una pesante lettera di denuncia dell'isolamento in cui è destinato a cadere il nostro sistema industriale dopo la forzata rivalutazione della lira, viene spedito al confino e, dopo, resta tagliato fuori (almeno formalmente) dalle posizioni di potere. in molti approfittano dell'autarchia, in pochi si mostreranno favorevoli a un mantenimento dell'Italia fuori dal conflitto: non belligeranza, se non neutralità, vogliono Giovanni Agnelli, Felice Guarnieri, Alberto Pirelli. In tempo, prima della disfatta finale, trasferiscono le loro centrali finanziarie in Svizzera. Da lì trattano con monarchia e Alleati per un passaggio indolore alla pace.
Si torna al regime democratico, ma non si arriva alla moderna società industriale neppure col tumultuoso dopoguerra. Forte dei dogmi della Terza Internazionale, la sinistra punta sul crollo finale del capitalismo e discute a tavolino dell'andata al potere della classe operaia. La borghesia laica perde il treno per la seconda volta. Luigi Einaudi e la vecchia scuola liberista guidano l'economia, sulla base di un semplice ritorno agli automatismi di mercato. La deflazione voluta nel 1947, una volta sbarcate le sinistre dal governo, punisce la grande industria e avvia una grave recessione. Le forze che vincono alla distanza sono quelle cattoliche, educate all'ombra delle parrocchie e dall'Azione cattolica, emergenti dalla piccola borghesia di provincia, dalle catacombe di un mondo pressoché dimenticato, le vecchie leghe bianche, le casse rurali, le cooperative.
Non esiste un progetto generale di riforma e di modernizzazione. C'è la nuova tecnologia, prestata dall'America, ci sono le grosse riserve di manodopera a buon prezzo. Si lascia fare alla voglia della gente, al mercato. Pochi nella borghesia produttiva dimostrano di andare più in là della pura ricerca di espansione del prodotto lordo. Dietro il miracolo economico ci sono sette milioni di contadini che si riversano in breve tempo nei principali distretti industriali. Vengono dal precapitalismo, chiedono solo lavoro stabile e sicuro. Non conoscono le regole del gioco democratico, come non le conoscono nuovi ampi strati di popolazione guadagnati da rendite di posizione e interessi corporativi. li tentativo di un nuovo indirizzo politico e di una nuova cultura economica, fatto col centro-sinistra, ha per unico risultato la nazionalizzazione dell'energia elettrica. La crisi di consenso intorno all'industria e ai modelli di democrazia industriale diventa acuta nella seconda metà degli anni '60. L'ondata di tensione e insofferenza esplosa nelle fabbriche mette in discussione il sistema stesso dell'impresa ed è il segno tangibile del ritardo culturale con cui si muovono le forze sociali italiane, sia quelle di comando sia quelle d'opposizione.
Come l'Italia sia riuscita a interrompere la spirale perversa della conflittualità sociale sommata alla recessione economica innescata dall'esterno, è storia di ieri e di oggi. Noi vogliamo ricordare soltanto il ruolo decisivo della provincia italiana, delle tante piccole e medie imprese, diffuse non più e non solo nel "triangolo industriale", ma anche in nuove aree geografiche del Nord-Est e del Centro-Sud. E qui c'è una sorprendente conti nuità storica e culturale con i nostri caratteri originari. Dice Castronovo: "Nell'Italia dei comuni, la prosperità nasceva da mille botteghe, di artigiani e mercanti. In più, oggi chi lavora in fabbrica spesso ha anche un pezzo di terra da coltivare, è l'operaio-contadino di cui parla Adriano Olivetti". Nel frattempo, si sono verificate altre due cose importanti: la sinistra ha riscoperto l'esigenza fisiologica del profitto e delle regole del mercato; la grande industria ha recuperato efficienza e competitività, producendo non più disavanzi, ma reddito netto. Oggi nessuno più dubita che si tratti di un processo evolutivo autentico e non di un fenomeno effimero sorretto (o sorretto esclusivamente) da evasione fiscale e da lavoro nero. Insomma: siamo più o meno la quinta potenza industriale del mondo. Ma ancora molti ostacoli ritardano il nostro ingresso nella democrazia adulta (la nostra società essendo, come dice Kenneth Galbraith, uno spettacolo di "splendore privato nel pubblico squallore"). il nostro Paese è un centauro, con la testa in Europa e gli zoccoli nel Mediterraneo. Siamo una società che ha gettato in un pozzo certi vincoli del passato, ma ancora non si è allineata con l'Occidente più progredito. Ora i tempi stringono. E i margini di manovra si restringono sempre di più. Allora, chi ha paura di entrare nel futuro?

Sud e borghesia

Le rovine del '99

La ricorrenza dei bicentenario della Rivoluzione Francese non è stato soltanto un memorabile anniversario, ma un'occasione per rimeditare una cultura politica di grande valore storico attuale: in un mondo che sembra avere bisogno di orientarsi verso i valori della democrazia politico e verso una concezione non autoritaria della trasformazione sociale. Del resto - come è stato acutamente notato per le vicende italiane - la scarsità di una lettura borghese coeva e successiva agli sconvolgimenti provocati e indotti anche in Italia dalla Rivoluzione Francese denuncia una sorta di rimozione collettiva delle proprie origini, animata dalle preoccupazioni di svelare le radici storiche, appunto, di una possibile evoluzione del sistema delle libertà verso più diffuse eguaglianze e più ampie forme di socialità.
La rimozione è stata precoce e più radicale nel Mezzogiorno, sintetizzata nella noto commemorazione, nel primo centenario, del meridionale Crispi capo del governo, secondo il quale - come ricorda Croce - quella rivoluzione apportò sconvolgimenti e danni al Mezzogiorno e all'Italia tutta e, se essa non fosse accaduto e se il moto riformistico, protetto dalle monarchia, fosse continuato, le nostre sorti sarebbero state migliori, facendo risparmio di altre rivaluzioni.
Oltre le rilevanti questioni di valore sul rapporto tra riforme e rivoluzione, una rivisitazione della Repubblica partenopea, ad esempio, presenta Interessi vasti e molteplici. Intanto, "la storia feudale del Regno di Napoli si chiude con la tragedia del 1799, donde nasce nuovo ordine di tempi e di cose" (Giustino Fortunato); e la comprensione della transizione al moderno del Mezzogiorno, con le sue modalità, su cui hanno lavorato, fra gli altri, con intensità il Sereni dei residui feudali nelle campagne e il De Martino dei residui magici della cultura meridionale, è In quella tragedia che ha il suo snodo essenziale. Le basi, infatti, e gli stessi protagonisti decisivi del successivo decennio francese appartengono a quel poco più che cinque mesi di esperienza rivoluzionaria dei Governo Provvisorio Repubblicano di Napoli.
La cui fecondità, maturità e lungimiranza di vedute consente a ragione di attribuirgli il merito di essere stato espressione della migliore e più europea delle borghesie che mai più ebbe, anche dopo, il Sud d'Italia. Il Governo Provvisorio si cimentò non solo con l'abolizione del regime feudale, della tortura e con la codificazione di garanzie nei processi criminali, ma con la riforma universitario e con una riorganizzazione dei poteri che, per essere gerarchica e censitaria - per l'appunto, marcatamente borghese - valorizzò operosità e meriti individuali, consentendo di pervenire, poi, nel decennio francese, ad uno effettiva modernizzazione istituzionale dello Stato nel Mezzogiorno, sulla quale siamo ben lungi dall'avere ricevuto gli approfondimenti necessari, se si escludono le meritorie indagini della scuola giuridica napoletano di Raffaele Ajello. Ma, dicevamo, l'interesse è più vasto. La tragedia del 1799 apre spiragli interpretativi sul ruolo delle classi e dei loro conflitti nel Mezzogiorno in epoca contemporanea:
- circa l'arresto di uno sviluppo borghese conseguente, con Il permanere di una filosofia della miseria quale corrispettivo del diffuso miserabilismo sociale e politico, dopo che quella grande borghesia era stato letteralmente fatta a pezzi;
- circa le paure, le esitazioni, la mancanza di rodicalismo, se non il trasformismo, di piccoli ma anche di grandi borghesi di fronte ad ogni moto riformaforò che dalle ceneri rivoluzionarie riattizzasse il fuoco delle rivolte contadine, rinserrandoli per molto tempo, come sapeva Croce, nell'angustia di una duplice lotta "l'una municipale e intestina e spesso feroce, tra famiglia e famiglia l'altra di sospetto e di difesa contro il contadiname";
- circa la persistente valutazione, appunto, del mondo plebeo e contadino come fuori dalla storia e capace di fuoriuscirne, ma solo per farsi lazzaro in città o brigante nelle campagne, secondo un'equazione cara persino a Giustino Fortunato.
La violenza e il sangue, cioè, con cui venne distrutto e spazzato via il movimento giacobino condizionò la cultura, non solo politica, e le iniziative di democratici e di conservatori nel Mezzogiorno. Ben oltre la consolatoria versione e sistemazione moderato che, da Cuoco a Croce, espungendo il radicalismo del '99, fa approdare quel movimento nel moto risorgimentale, dopo che l'"esperienza aveva ammaestrati quei patrioti, dissipate molte loro illusioni, screditate le astrattezze, richiamato in onore il divario fra il desiderato e il possibile".
Non di illusorie astrattezze, in realtà, si trattò; ma di rivoluzione vera, che sommosse città e campagne, che coinvolse, da una parte e dall'altra, masse organizzate - nella sola, piccola Basilicata di 450 mila abitanti migliaia furono i morti, migliaia i sopravvissuti rei di Stato -; in cui fu forte l'autonomia di borghesi, plebi urbane e contadine; e il cui dramma vero non fu nell'attività degli uni e nella passività degli altri, ma nel mancato incontro, anzi nell'abisso che li separò.
Sulle cui ragioni si può ben partire dalla generale, e precedente, connotazione di angustia e di separatezza di tutta la società meridionale fatta dal Galanti ("Ogni classe ed ogni individuo non sembra di altro sollecito che di fare dei vantaggi propri sulla salute pubblica"), ma andando oltre. Ed esplorando, come per fortuna si è cominciato a fare, non solo i rapporti tra riflusso rivoluzionario in Francia e insuccessi della Repubblica Partenopeo, ma soprattutto l'orientamento comune al roussoviano Vincenzo Russo e al vichiano Mario Pagano che, da punti teorici opposti, approdano all'analogo convincimento sul ruolo fondamentale del potere politico nel riportare ad eguaglianza i rapporti fra le classi e fra gli uomini e nel restaurare dalle Fondamenta la società.
Il quale punto di vista, dei Giacobini, ma poi' anche del movimento socialista, è ben più produttivo di conoscenze, anche sul 1799, e sull'abisso fra città e campagne, che non l'accusa di astrattezza e di ingenuità.


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