La scadenza comunitaria
del 1993 e i successivi, ma non molto lontani, traguardi monetari
richiamano in forma perentoria gli impegni degli adeguamenti rispettivi
e reciproci dei Dodici, la determinazione della reale e valida identità
europea anche nelle interrelazioni con le altre parti del mondo, la
pratica sempre più coerente e naturalmente univoca delle strategie
conseguenti.
E' questo un vecchio e ricorrente discorso, che ha tuttora i suoi
momenti di accelerazione o di brusca frenata ed infine anche di contraddizioni,
come ad esempio quella che accenna alla possibilità, per taluni
alla necessità, di un'Europa a due velocità.
Per quanto in particolare concerne l'Italia, mentre è fuori
discussione la sua vocazione politica di natura europeistica -e siamo
certamente fra gli antesignani più motivati di essa; il discorso
è tuttora aperto per quanto riguarda capacità e stato
del nostro allineamento e del nostro adeguamento. I nostri differenziali
nell'ambito dei Dodici sono ancora tanti e molti di essi particolarmente
gravosi, e ciò a doppio titolo: per la loro dimensione qualitativa
e quantitativa e per la persistenza di difficoltà e di ostacoli
al riequilibrio.
Ma ci sono due altri aspetti che preliminarmente vanno considerati.
Il primo è costituito dall'ampiezza della scelta di campo della
nostra economia, con riguardo al rapporto fra pubblico e privato,
alla pratica del mercato, alla carica sociale - e qui le enfasi demagogiche
sono ancora tante -, nonché dalla particolare flebilità
della stabilità di governo e dalle frequenti carenze decisorie.
Il secondo aspetto è rappresentato dall'ampiezza dei vuoti
che si devono riscontrare nella pratica e nell'adozione delle direttive
comunitarie, nonostante il colpo di acceleratore che si è avuto
durante il semestre italiano di presidenza della Cee.
Come si vede, il cammino da compiere, pur in un ormai ristrettissimo
arco di tempo, è ancora tanto ed ha a monte fattori che vanno
oltre i problemi contingenti e investono in sostanza ed alle radici
il sistema Italia, istituzionale e di Azienda.
I grandi differenziali
Le diagnosi sul nostro status, comparativamente considerato, sono
molto ampie e documentate, non solo in forza del nostro impegno conoscitivo
- di cui la Banca d'Italia è principale operatrice: forse è
l'unico medico che enuncia le proprie diagnosi senza la preoccupazione
di accontentare ingiustificatamente i parenti dell'ammalato, ma anche
a ragione di indagini, rilievi, moniti spesso, dei vari qualificati
organismi internazionali, e cioè Cee stessa, Ocse, Fondo Monetario
Internazionale, e così via.
Mentre qualcuno, anche autorevole, si contenta di seguire e talvolta
di forzare la gerarchia delle potenze maggiormente industrializzate
del mondo (e c'è chi ci attribuisce o rivendica il quarto o
quinto posto, per classifiche che tutto sommato si fondano su dati
e riferimenti parziali, non coerenti con l'indicazione globale che
si pretende emblematicamente di ricavarne: e questa è anche
la sorte del paniere formativo dei nostri prezzi al consumo), concretezza,
realismo, sincerità responsabile ci portano a considerare i
grandi differenziali che ci sono di fronte. Essi a grandi linee concernono:
- lo stato della finanza pubblica, con il suo straordinario grado
di indebitamento, che fra l'altro trascina l'inconsueta elevatezza
dei nostri tassi d'interesse ed il convogliamento di parte prevalente
del risparmio nei titoli pubblici, con la penalizzazione degli investimenti
direttamente produttivi;
- il nostro tasso di inflazione, a livelli quasi doppi di quelli degli
altri Paesi Cee maggiormente avanzati, e improntato ad un rialzo non
certo rassicurante dal punto di vista dell'auspicata controtendenza
già manifestata da altri Paesi della Comunità;
- il progressivo indebolimento della nostra capacità competitiva,
conseguente ad una minore produttività, ad un pesante carico
del costo del lavoro oltre che alla ricordata elevatezza del costo
del denaro;
- il degrado dei servizi pubblici, con il duplice gravame che ne deriva
per gli operatori, in funzione del maggiore conseguente prelievo fiscale
e del recupero che essi ricercano nei servizi sostitutivi o integrativi
privati;
- il ritardo nel potenziamento dei servizi ed il complesso delle lacune
da colmare nel campo creditizio e finanziario;
- la più mirata messa a fuoco della nostra condotta di politica
economica e finanziaria e, perciò, dell'entrata in funzione
delle condizioni anche politiche ed istituzionali che devono promuoverla
e garantirla;
- le reticenze ed i ritardi nei nostri comportamenti comunitari.
Un triangolo
perverso
Ma cosa dicono in concreto tutte le cifre, che sostanziano quanto
fin qui ricordato e che con le sollecitazioni che forniscono sono
certo più stimolanti e vere di quelle che quasi a titolo assolutorio
ci offre la "lode" di cosiddetta quinta (o quarta) potenza
industriale del mondo?
Cominciamo dallo stato della finanza pubblica, riservandoci nella
graduatoria dei differenziali ricordati di soffermarci, in questa
occasione e più oltre, sulla tematica concernente la struttura
creditizia.
Orbene, su questa materia c'è, come è noto, il Documento
di programmazione economico-finanziaria del Governo, che prevede che
in un biennio dovremmo aver compiuto il primo decisivo passo di stabilizzare
il rapporto fra debito pubblico e prodotto lordo, per poi ridurlo.
Si tratta naturalmente di propositi e di obiettivi che non quantifichiamo
in questa sede, perché le cifre prima di valere qualcosa debbono
dimostrare di contare coerentemente sin dalle prime ipotesi. E ciò
finora non è avvenuto, tant'è che oggi tardivamente
si ricorda e si dice di volere applicare il famoso articolo 81 della
Costituzione. Nel perseguimento di questa strada, ci sono la previsione
di consistenti crescite dei ricavi tributari, con basi stabili e non
occasionali, e l'entrata in lizza soprattutto di una riforma fiscale
che recuperi basi imponibili erose ed imposte evase (ci sono, per
esempio, certi redditi dominicali che vengono addirittura applicati
ad aziende agro-industriali, con imponibili inferiori di gran lunga
a quelli singolarmente percepiti dai semplici dipendenti). in questa
materia, e soprattutto in quella delle franchigie, delle tolleranze
normative ed applicative, dei privilegi corporativi, non ci dobbiamo
certamente discostare dai livelli delle imposizioni della Comunità,
nelle incidenze concernenti redditi di lavoro, di impresa, delle attività
finanziarie.
Si tratta invece di uniformarci il più possibile e prontamente
alla realtà comunitaria anche in questa materia, perché
altrimenti ci porremmo nettamente in contraddizione con la formazione
del mercato unico. Con i livelli delle quote impositive siamo ai tassi
più avanzati che si conoscono, ma con la distribuzione e la
formazione dei carichi fiscali c'è da fare tanto e certamente
molto di più di quanto si promette di fare. La strada maestra
della fiscalità equa e perequativa, e perciò solo così
rettamente rigorosa, è ancora molto lunga, e non si sa cosa
possa realmente prometterci prima del 1993.
Veniamo all'altro addendo differenziale, quello dell'inflazione. Prendiamo
a riferimento il primo trimestre di quest'anno. Da esso risulta che
il tasso medio d'inflazione dei 12 Paesi ha registrato in marzo la
variazione più bassa degli ultimi diciassette mesi: uno 0,2%
in più, contro lo 0,5% del mese precedente. Sennonché
proprio l'Italia è nella cordata di terza linea, perché,
di fronte a Paesi come la Germania e il Belgio (dove l'inflazione
ha addirittura segni negativi, rispettivamente -0,1% e -0,4%), e Francia,
Danimarca e Lussemburgo con tassi inflazionistici non superiori allo
0,2%, registra un +0,4%, pur essendo già il nostro tasso inflazionistico
annuo a quota 6,8%, con un crescendo sia pure contenuto in quest'ultima
fase. La Gran Bretagna, è vero, sta ad un livello superiore
al nostro, ma non sono certamente paragonabili le condotte economico-finanziarie
dei due Paesi, con i ben diversi contesti politici e di scelte decisorie
che li distinguono.
Per noi, si può dire - e lo ha fatto nella sua ultima Relazione
all'Assemblea della Banca d'Italia il Governatore Ciampi -, esiste
il triangolo perverso (che nei Paesi più avanzati della Cee
non si riscontra) oltre che del deficit prima ricordato, del costo
del lavoro e dei servizi, che blocca tutto il sistema, dividendo l'Italia
in due, nello stesso momento in cui essa deve presentarsi unita e
forte nel contesto comunitario che si viene predisponendo.
Avendo a che fare con questo triangolo perverso, il termometro, anzi
i vari termometri che misurano la temperatura (a cominciare da quelli
ufficiali per finire a quello della società di certificazione
Moody's) possono dire poco, nella determinazione di quadri non contingenti
e di potenzialità reali e più o meno costanti, pur nel
confronto con le sopravvenienze congiunturali.
Il crocevia dove in effetti si svolge la partita, e non solo quella
comunitaria, èquello della produttività (oggi per alcuni
mercati la chiamano qualità globale) e della competitività:
due termini che suscitano in noi grandi preoccupazioni e negli operatori,
necessariamente e per vocazione, grandi stimoli.
Il livello concorrenziale dell'azienda Italia continua a registrare
flessioni, nel momento stesso in cui quello dei Paesi comunitari e
dell'Occidente in genere (ma bisogna tenere conto anche delle spinte
che vengono da Paesi come la Corea e da altri Stati asiatici) avanza
ed accresce perciò il nostro distacco: un distacco che fa sentire
tutto il suo peso sul ritmo di aumento del nostro export a quello
che in opposto si registra nel nostro import.
La crescita degli investimenti potrà certamente fare la sua
parte nello sforzo di recupero della maggiore competitività,
ma essa non ha solo a che fare con la maggiore disponibilità
di beni strumentali ed anche di capacità manageriali, perché
bisogna affrontare i problemi a monte, facendo derivare le pronte
conseguenze che sono necessarie.
E fra questi problemi, oltre alla mirata condotta della politica industriale
che è indispensabile allo scioglimento dei nodi inflazionistico
e del costo del denaro, sono da sottolineare la migliore messa a punto
del tipo di economia di mercato che intendiamo seguire (ed il rapporto
fra pubblico e privato è al primo posto), nonché la
soluzione del grosso problema del costo del lavoro.
Orbene, da entrambi questi due ultimi punti, siamo molto distanti
da quanto si verifica negli altri Paesi occidentali ed oggi anche
in taluni Paesi dell'Est per quanto riguarda le privatizzazioni, mentre
per quello che si riferisce alla politica salariale e sociale siamo
appesantiti da un sistema che non trova analoghi precedenti nelle
realtà industriali occidentali. Non solo abbiamo a che fare
con livelli di partenza, composizione di salari, incidenze della contribuzione
sociale lontani da quelli dei Paesi con i quali dobbiamo competere,
ma dobbiamo anche rilevare una dinamica superiore a quella denunciata
dagli altri. Contro, ad esempio, una nostra crescita salariale valutata
in Ecu pari nel decennio 1980-90 al 64% vi è il 42% della Germania.
A non diverse valutazioni conduce il costo del lavoro per unità
di prodotto, con l'aggiunta che fra il 1980 ed il 1990 esso è
triplicato, mentre in Germania - sempre per riferirci a questo Paese
di avanguardia nella Cee e nel mercato mondiale - è aumentato
solo di una volta e mezza. Sempre per rimanere su questo terreno,
il confronto fra noi e gli altri mette in evidenza, dall'angolazione
comunitaria, che:
- Nel nostro Paese, come in Germania ed in Danimarca, non esiste alcuna
forma di salario minimo garantito dalla legge o comunque in modo uniforme
a livello nazionale, ma ciascuna categoria fissa i propri minimi salariali
nell'ambito dei relativi contratti collettivi. Negli altri Paesi è
previsto un livello base obbligatorio. Quanto all'allineamento Cee,
è da rilevare che essa non ha competenze al riguardo, ma vuole
regole uniche per il reddito garantito. Le categorie dal canto loro
domandano, anche nell'ambito comunitario, maggiore flessibilità
da parte degli imprenditori e più ampie garanzie da parte dei
sindacati.
- Nessun Paese fra i maggiori d'Europa registra misure di automatismo
nell'adeguamento delle retribuzioni al costo della vita, come il nostro.
Siamo gli unici (o quasi) a mantenere una scala mobile con incidenze
così massicce di automatismi nell'adeguamento dei salari al
costo della vita, mentre altrove (come ad esempio in Germania) la
scala mobile è vietata per legge e ad opporsi agli adeguamenti
automatici dell'indicizzazione sono addirittura i sindacati, che anche
in quest'ottica intendono evitare che si restringano i margini delle
negoziazioni contrattuali.
- Il nostro rapporto fra salario percepito dai lavoratori e costo
globale del lavoro a carico delle imprese in conseguenza delle incidenze
contributive è fra i più pesanti per le imprese e per
gli stessi lavoratori, la cui busta paga nella disponibilità
reale da parte loro raggiunge quasi la metà dell'importo a
carico dell'azienda. Collegato a questo problema è anche per
l'Italia quello della riforma del sistema previdenziale, sollecitata,
oltre che dalla nostra particolare situazione in materia, dalle scelte
in atto negli altri Paesi maggiormente industrializzati, che prospetta
fra l'altro lo sbocco in un sistema previdenziale integrativo più
consistente, tale da evitare che l'unica o prevalente gravitazione
sia quella sulla previdenza sociale. I modelli ai quali attingere
sono tanti anche fra i Paesi Cee, mentre sembra che qualche cosa,
con molte resistenze come al solito, cominci a muoversi anche in Italia.
Con una prospettiva, comunque, largamente diluita nel tempo, e con
un decennio - quello corrente prevalentemente di assaggio.
Avendo a riferimento questi fattori, ma altri indubbiamente sono da
aggiungere, la chiave di volta è quella indicata dal Governatore
della Banca d'Italia: una politica incisiva dei redditi, attenta all'evoluzione
di tutti i redditi, assicurando a ciascun comparto che la rincorsa
fra prezzi e salari in altri settori non vanificherà il contenuto
reale delle loro retribuzioni. Altrimenti il tasso programmato d'inflazione
cosa ci starebbe a fare? A questo punto il travaglio delle relazioni
in corso e l'indirizzo programmatico politico (naturalmente non velleitario)
dovranno darci una risposta.
Il modello
di economia
Ma ritorniamo all'altro differenziale, di cui prima parlavamo, e cioè
a quello del modello di economia da perseguire ed al rapporto fra
pubblico e privato. Il ventaglio da considerare e da adeguare è
molto ampio. Riguarda non la contestazione, ma il costante adeguamento
del capitalismo, da non penalizzare pregiudizialmente, da non far
oggetto di dosaggi quantitativi con intenti punitivi, da controllare,
ma non perseguire nella sua dinamica, che costituisce per esso un
fatto naturale. Infatti il capitalismo vive, in quanto non è
fisiologicamente statico. Ciò presuppone la capacità
delle istituzioni di stabilire regole motivate e coerenti, che da
noi difettano con il corollario di sanzioni e di controlli (eccessivi
e spesso controproducenti), da ricercare nella realtà e non
già nelle ideologie o addirittura nei rapporti di forza. Da
qui nasce la logica anche delle privatizzazioni, con l'esperienza
in atto negli altri Paesi, nei quali la parte del pubblico si assottiglia
ed il volume delle dismissioni aumenta in una misura più consistente
e voluta di quanto in Italia si registri. E' vero che, facendo un
raffronto nell'ambito dei 7 Paesi maggiormente importanti del mondo,
l'intervento pubblico in Italia, pur tanto elevato rispetto al nostro
potenziale finanziario ed economico, non si discosta molto da altri
Paesi europei (in Italia siamo al 48,2% rispetto al PIL di fronte
al 46,7% della Gran Bretagna e al 48,0% della Germania).
Ma è anche vero che la media dei 7 Grandi è del 39,6%,
che ovunque si cerca di fare macchina indietro (e non già nella
misura tanto ridotta rispetto al possibile e al necessario, come in
Italia), che la scelta operativa dell'intervento pubblico è
molto più selettiva di quella che invece dobbiamo registrare
in Italia. D'altra parte a questo riguardo si possono utilmente richiamare
due fatti.
Il primo riguarda (ed il riferimento non è occasionale in queste
pagine) il comparto delle banche e delle assicurazioni. Per esso è
da rilevare - e la tendenza non si riscontra altrove - che oltre due
terzi del credito, quello che non passa dalle banche private e da
quelle popolari, è in mani pubbliche. In Francia, siamo a 4.200
sportelli delle banche private contro i 6.400 pubblici. In Germania
siamo ad una presenza pubblica e privata alla pari.
L'altro fatto, sempre esemplificativo, ha a che fare con la nostra
singolare maniera d'intendere e praticare l'intervento pubblico.
E difatti la Cee si dichiara pronta ad aprire un'inchiesta sui 110
mila miliardi di dote alle Partecipazioni statali (e ciò nel
quadro della verifica se le erogazioni sono compatibili con il comportamento
di un investitore commerciale, vale a dire di un privato mosso da
motivazioni razionali). Si deve poi aggiungere, per quanto concerne
la validità e l'efficienza delle prestazioni assicurate dall'intervento
pubblico, che, limitate e doverose eccezioni a parte, non si può
non constatare che la qualità e la produttività di quasi
tutte le principali prestazioni pubbliche non sono paragonabili a
quelle dei Paesi più avanzati della Cee. In particolare ciò
si registra nei servizi pubblici destinabili alla vendita, con riguardo
anche alla profondità delle distorsioni fra le tariffe. Rilevano
alcuni osservatori che, salvo che nel campo dell'energia elettrica,
i nostri servizi perdono quasi sempre la sfida con quelli della Francia,
della Germania, della Gran Bretagna: sono i Paesi con i quali dobbiamo
maggiormente confrontarci e con i quali siamo vivacemente in lizza,
quando aspiriamo ad un gradino in più o dichiariamo di averlo
superato.
Poste, telefoni, aerei, alta velocità nelle ferrovie, denunciano
ritardi rispetto al modello europeo più avanzato che si traducono
oltre tutto in costi più elevati, oggi, ma anche per un domani
più o meno prossimo per il quale non si intravvede alcun recupero
a prossima scadenza.
Un esempio: l'alta velocità per le ferrovie è in atto
in Francia e in Germania, mentre in Italia la si realizzerà
solo fra cinque o sei anni. C'è qualcuno che dice che si possono
abbreviare i tempi con la privatizzazione della gestione. Ma c'è
veramente chi crede che l'acceleratore delle privatizzazioni, non
sollecitato neppure dalla necessità di vendere per ragioni
di bilancio i gioielli di famiglia, possa entrare in funzione solo
con motivi di efficienza e di razionalità gestionale, e non
già - come purtroppo avviene - in ragione del tatticismo politico
e partitico che vediamo tanto presente e spesso determinante in questa
materia?
C'è in sostanza un'efficienza di servizi pubblici da condurre
sicuramente a livello europeo, e ciò per quanto concerne qualità
e tempestività e come conseguenza di una metodologia che anche
in Italia ha preso corpo nell'individuazione di strutture, attrezzature,
personale, ma tarda ad imboccare la strada maestra, premiando al momento
più la strategia delle riforme (per giunta molto spesso vaghe
e precostituite in funzione del nascere e rafforzarsi di nuovi rapporti
di forza) che non quella della reale efficienza da conseguire.
Adeguamenti
disattesi
Lungo la strada del nostro adeguamento, c'è anche un altro
tratto che fin qui non abbiamo decisamente ed organicamente battuto.
Ci riferiamo all'attuazione delle direttive Cee. Molte di esse non
solo non sono state applicate da parte nostra, ma rischiano anche
di non essere adottate a causa delle secche e dei ritardi con i quali
si muove la cosiddetta legge comunitaria per il '90. La Cee attende
- si dice addirittura con impazienza - che l'Italia si metta in regola,
ma qualche cosa si è mossa da parte nostra solo per qualche
tema particolare, e cioè per quello degli appalti dei lavori
pubblici.
In lista d'attesa sono invece tante altre problematiche e materie,
fra le quali figurano le direttive in materia bancaria sui conti annuali
e consolidati degli istituti di credito, sulle ammissioni alle quotazioni
di borsa e sui fondi di investimento, le direttive in materia di tutela
dei consumatori, sulla pubblicità ingannevole (per questa rischiamo
addirittura una condanna della Corte di Giustizia), sulla etichettatura
dei prodotti, sulla sicurezza dei giocattoli e sui cosmetici. E questa
è solo un'esemplificazione che denuncia ritardi ed omissioni,
non solo rispetto alle Cee, ma anche nei riguardi dei cittadini e
delle garanzie alle quali essi hanno diritto.
Purtroppo in queste materie, oltre la sostanza della direttiva comunitaria,
si manifestano renitenze e resistenze interpretative, con impostazioni
difensive non sempre coordinate con il fine complessivo da raggiungere.
Questo si èverificato e si verifica con riguardo alle materie
definite più deboli, che hanno fin qui investito fisco, sanità,
trasporti. Va bene che alcune materie dovranno essere decise e chiarite
dalla stessa Cee, ma alcuni doverosi presupposti ed alcuni corrispondenti
adeguamenti dobbiamo dichiararli e volerli da parte nostra, senza
sollecitazioni dall'esterno.
I ritardi nel
credito
Si è prima accennato anche ai vuoti ed ai ritardi da colmare,
in sede applicativa di direttive comunitarie, nel campo del credito.
In un settore, cioè, in cui sempre più valida operatività
è essenziale, per agibilità delle erogazioni e relativi
costi, per la dinamica anche normale (per noi pure straordinaria,
in relazione alle particolari esigenze che si riscontrano per il Mezzogiorno,
per l'occupazione, per l'export, per i rapporti con i Paesi dell'Est
e del Terzo Mondo) della comunità economica, civile ed anche
sociale (aspetto quest'ultimo legato pure alla previdenza ed alle
assicurazioni, per queste ultime anche nelle loro interrelazioni con
le banche).
Orbene, da questa segnalazione, gli elementi che ci pare debbano essere
maggiormente sottolineati sono i seguenti:
- il differenziale fra noi ed i maggiori Paesi della Cee, per non
parlare di quelli extra-europei, è tuttora molto forte. E ciò
per strutture e dimensioni dei servizi, per espansione dei raggi d'azione,
per contesto anche normativo, per grado di razionalizzazione delle
gestioni;
- il settore creditizio italiano, pur con questi limiti, è
certamente fra i comparti dell'azienda Italia uno di quelli che si
rivela più pronto e sensibile all'assolvimento degli impegni
che si manifestano in funzione delle scadenze del 1993 e di quelle
successive. Ciò deriva da una lunga tradizione a raggio internazionale
di molti istituti di credito, dalla particolare attenzione che taluni
di essi hanno prestato ad aree estere ora rientranti nella sfera comunitaria,
dalle spinte innovative che esplicitamente e direttamente vengono
dai modelli esteri più avanzati anche dal punto di vista tecnologico,
dal già fitto complesso delle interrelazioni bancarie, dalla
vastità delle incidenze esercitate sul sistema creditizio da
un mercato internazionale sempre più vasto e collegato, dalla
specifica concorrenza che le banche comunitarie possono esercitare
nel nostro Paese, in conseguenza da una parte della libera circolazione
dei capitali e, dall'altra, della costituzione di strutture di Paesi
comunitari negli altri della stessa Comunità;
- la strategia innovativa del sistema creditizio, della sua normativa,
del suo contesto, sta già facendo dei passi innanzi nel nostro
Paese, che certamente pongono il settore in condizioni più
favorevoli di adeguamento e di conformità alla realtà
del 1993 di quanto sia rilevabile in altri settori.
Naturalmente, molti sono ancora gli obiettivi da conseguire ed i rischi
da evitare.
C'è anzitutto il pericolo per noi, ma anche per gli altri,
che il baricentro delle attività finanziarie e bancarie, già
spostato in alcuni punti nevralgici del sistema, consolidi le sue
allocazioni, ed anzi tenda ad allargare i suoi richiami e riferimenti.
E' il caso della CITY, non solo per il suo rapporto fino a dieci volte
superiore a quella che è la potenzialità della nostra
Borsa di Milano, ma anche per il fatto che in essa le contrattazioni
inerenti ai maggiori nostri titoli tendono ad essere sempre più
indicative. E' chiaro che questa panoramica a più largo respiro
è nell'interesse del mercato, di cui per quanto ci riguarda
è necessaria la sempre maggiore ampiezza, ma è anche
chiaro che la prontezza negli adeguamenti, nella creatività,
nelle tecniche, nelle scelte del marketing è altrettanto determinante
e perciò va più decisamente perseguita.
C'è ancora il rischio che la concorrenza fra mercati nazionali
possa pregiudicare la tutela degli operatori, e fra l'altro coinvolgerla
in conseguenza di vigilanze meno rigorose. C'è al riguardo
l'Atto Unico europeo che precisa l'esigenza di realizzare un mercato
interno integrato nel settore bancario e finanziario fra gli Stati
appartenenti alla Cee contestualmente ad una compiuta armonizzazione
delle normative rilevanti al riguardo. Gli impegni relativi sono in
cammino in questa direzione, taluni di essi già sono recepiti
o stanno per esserlo nel nostro sistema (basti pensare ai prospetti
di offerta pubblica dei valori mobiliari, all'insider trading, alle
informazioni dovute in occasione di importanti cessioni o acquisti
di azioni quotate in Borsa, alla funzionalità della Consob,
al rapporto banche-industria, alla portata ed agli effetti della riforma
Amato, ecc.). Tuttavia il cammino dei vari Paesi verso questi obiettivi
dovrà essere certamente meglio armonizzato, dando maggiore
corpo, in piena sintonia fra i Paesi partecipanti, a quei principi
di diritto comunitario, in qualche parte ancora abbozzati ed incompleti,
e pertanto bisognosi di maggiore chiarezza e di più valida
vigenza. Gli esperti citano al riguardo l'esempio costituito dalla
tematica del ruolo delle norme sulla concorrenza con riferimento all'attività
bancaria.
Si tratta conclusivamente di puntare su di una concorrenza nell'efficienza
ed al riparo da strozzature e da deviazioni che al contrario con i
ritardi l'incrinerebbero.
Ma le cose da aggiustare sono tante. Ce lo ricorda anche una vasta
indagine conoscitiva fatta dalla nostra Associazione Bancaria, che
non solo mette a confronto sistemi, ma evidenzia anche metodi di lavoro
da seguire e tappe da raggiungere, sulla base di strategie idoneamente
mirate e non rese esecutive all'ultim'ora.
C'è, ad esempio, la gestione dei patrimoni, di cui gli enti
creditizi detengono la quota maggiore. Orbene, in questa materia le
differenze sono relative, ma esistono, e sono rigorose a favore degli
investitori, comportando ovviamente per la loro validità adeguamenti
da parte degli altri: ad esempio, per quanto concerne il divieto esplicito
a demandare a terzi i poteri di gestione e le decisioni nelle scelte,
che da noi esiste ed altrove no.
C'è inoltre da mettere ordine nella maniera di presentarsi
al regime di mutuo riconoscimento del 1993 per quanto attiene alle
operazioni in valori mobiliari per proprio conto o per conto della
clientela, in base alla seconda direttiva di coordinamento bancario
(n. 646 del 15 dicembre 1989).
Ad esempio, il trattamento fiscale relativo alla negoziazione dei
titoli azionari ci trova molto lontani gli uni dagli altri. In Italia
per le azioni nominative esistono una ritenuta d'acconto del 10% ed
un'imposta sul reddito con il sistema del credito d'imposta. Per le
azioni di risparmio, invece, la ritenuta è unica, del 15% a
titolo definitivo. Invece i contratti di negoziazione sono esenti
da imposta nel Regno Unito, nella Germania, ecc., contro uno 0,50%
in Italia.
Diverso è anche il trattamento fiscale delle obbligazioni,
forse - caso non frequente - con qualche vantaggio per l'investitore
italiano.
Un altro importante punto di riferimento è costituito dallo
sbocco rappresentato per il risparmio dai Fondi Comuni di investimento.
E' questo un settore nel quale il divario che si manifesta fra le
situazioni in atto nei vari Paesi è particolarmente ampio.
Le indagini dicono che il risparmiatore italiano investe ancora molto
poco nei Fondi, e qui entrano in ballo i tanti fattori che si conoscono
e che vengono richiamati soprattutto nel peggio quando i dati che
vengono pubblicati sulla raccolta e sui riscatti sono maggiormente
marcati in rosso. Il fatto è che in questa materia, che in
alcuni Paesi esteri è caratterizzata da una tradizione strutturale
e di richiamo più solida ed antica della nostra (come si sa
molto recente e travagliata), rischiamo di divenire terra di conquista.
Le cose intanto da noi si muovono per questo appuntamento del 1993
e cominciano ad essere più consistenti.
Riguardano l'aumento degli sportelli bancari: in nove mesi la Banca
d'Italia ha autorizzato l'apertura di 1928 sportelli ed il trasferimento
di 728, ad indicazione per questi all'impegno di maggiore razionalizzazione
del servizio e di scelte più vantaggiose per lo stesso utente.
Non si tratta solo di sportelli che vengono aperti o spostati, ma
anche di nuove strutturazioni che vengono prescelte. Si attivano i
cosiddetti sportelli legge, con organici e locali dimensionati, con
la presenza di servizi specializzati connessi alla filiale di riferimento,
con gestione personalizzata dei rapporti, con attività consulenziale
particolarmente articolata con filiali che possono viaggiare addirittura
su un TIR. E la fantasia e creatività ci dicono molte altre
cose, nel solco di Bancomat e di teleborse, le quali ultime risalgono
ad oltre 30 anni fa (e chi scrive, proprio allora, all'indomani delle
dirette conoscenze acquisite negli USA in un viaggio di studio, è
stato l'iniziatore, promotore ed oggi ne è continuatore, attraverso
un siffatto organismo che opera da Milano e da Roma). Un inizio anche
questo di un lungo processo da svolgere che comunque a prescindere
dalla stessa qualificazione tecnica delle nuove agenzie è richiesto
dal fatto che il 24% degli 8.065 Comuni italiani è tuttora
privo di filiali bancarie.
Ma la tecnologia che ha svolto fin qui questo ruolo, uno certamente
è destinato a coprire in misura ancora più consistente
per rendere l'Europa più vicina, come ha detto il Governatore
Ciampi nell'ultima Relazione all'Assemblea della Banca d'Italia.
Ricorda infatti il Governatore che si era formato un sistema integrato
fondato sull'uso della telematica, capace di servire il crescente
diluvio delle transazioni in modo più efficiente e trasparente.
Fra l'altro, lo sviluppo degli sportelli automatici (Atm) nel volgere
di un trienno è stato quanto mai intenso, con il raddoppio
delle unità installate, con la crescita dei terminali POS che
conta ormai oltre 22 mila punti, ecc. Si tratta di continuare su questa
strada, sulla quale siamo ancora in termini di utilizzo inferiori
alla media dei principali Paesi europei e dobbiamo anche riscontrare
i distacchi che dividono le aree del nostro Paese: ad esempio, il
70% degli ATM e POS è concentrato nel Nord dell'Italia.
Come si vede gli obiettivi sono tanti, le mete già raggiunte
sono per noi significative più che altro quali premesse di
quello che si intende fare. C'è tuttavia un nodo preliminare
che occorre sciogliere prontamente ed è quello delle distorsioni
fiscali che pesano sul credito e sul diritto comunitario e che fanno
dire che se manca l'armonizzazione la Banca non parte per l'Europa.
Dobbiamo parlare dei nostri trattamenti fiscali interni, tanto diversi
da quelli dei maggiori Paesi Cee, che procurano sperequazioni alle
imprese presenti nei circuiti dei servizi finanziari e creditizi,
possono determinare deflussi di capitali verso banche Cee, ecc. Dobbiamo
parlare dell'elevatezza dei nostri costi bancari, nello stesso momento
in cui dobbiamo rilevare che le banche, come tutte le imprese, devono
sostenere costi per servizi che, già pagati allo Stato, non
vengono da questo assicurati, ma richiedono interventi privati surrogatori,
ma costosi (il disservizio postale, ad esempio).
L'Italia si presenta all'appuntamento del 1993 con questi problemi,
con quella parte di essi che è valutabile in positivo (avvio
del progresso tecnologico, maggiore trasparenza rispetto al passato
nel rapporto banche-clientela, leggi sulle SIM e l'insider trading,
ecc.) e con quanto non è ancora sulla dirittura d'arrivo (OPA,
maggiore trasparenza oltre l'autodisciplina, ma su base normativa,
ecc.) ma staziona nelle tappe intermedie della realizzazione concreta
dell'armonizzazione e dell'unificazione.
Meta da conseguire
In sostanza, se queste sono le conclusioni che possono trarsi dall'angolazione
bancaria, non diverse sono tutte le altre che discendono dal quadro
che prima abbiamo cercato di riassumere nell'ottica di quanto ci attende
in un'Europa nuova. Ritroviamo in questa sede ingigantiti o più
incisivi i problemi che dobbiamo registrare e risolvere nel nostro
ambito e che riguardano finanza pubblica, inflazione, produttività,
efficienza, competitività del sistema Italia.
Tutto ciò non si configura come una sfida, come si ama frequentemente
dire, ma come uno stato di necessità, che è poi di vera
e propria sopravvivenza nell'Occidente avanzato: meta in vista o già
conseguita per taluni, da conquistare e volere invece per altri. E
noi purtroppo per tante delle cose fin qui sommariamente richiamate
siamo fra questi ultimi: e ciò nell'ottica più di imprenditori
ed economisti che non di politici, come dice il Presidente della Confindustria.