Era già
stupefacente l'ultimo dato ufficiale: il debito dello Stato aveva
superato il milione e 330 mila miliardi di lire: 300 mila miliardi
in più di due anni fa, quando chi era stato chiamato a risanare
quel debito, l'ex Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, aveva
annunciato il giro di boa, col debito pubblico oltre quota un milione
di miliardi. Carli ce l'aveva messa tutta, ma i risultati gli avevano
subito dato torto, e la realtà ora continua a peggiorare: ci
stiamo avviando verso il milione e mezzo di miliardi di lire, e le
relazioni di Carli sono percorse da un crescente senso di angoscia,
provocato dall'incapacità di allungare almeno le scadenze del
debito. La vita media dei titoli di Stato, infatti, è sempre
ferma a due anni e sei mesi; e non tutti quanti i debiti contratti
dallo Stato sono contabilizzati dalla Direzione generale del debito
pubblico, al ministero del Tesoro.
A restar fuori non sono poche lire spicciole. Tra i crediti d'imposta
e le tasse che i contribuenti hanno pagato in eccesso e che hanno
pieno diritto a vedersi rimborsate, si tratta di circa 70 mila miliardi,
la cui contabilità è tenuta dal ministero delle Finanze.
Altri 20-25 mila miliardi di lire sono spese che non compaiono mai
nei bilanci statali e che tuttavia regolarmente, di anno in anno,
ci si accorge che qualcuno ha fatto alla chetichella, senza alcuna
copertura. Sono spese che, direttamente, finiscono con l'ingrossare
il debito dello Stato: le chiamano "regolazione dei debiti pregressi",
e sono vero e proprio debito ancora prima di essere contabilmente
"spesa", e servono in grandissima parte a coprire il costo
del sistema sanitario nazionale.
E poi ancora ci sono gli infiniti rivoli dei debiti ancora non riconosciuti,
ma già aperti, e che in un modo o nell'altro saranno addossati
al Tesoro. E' il caso, ad esempio, del debito imponente della Regione
Puglia, un "buco" che prima o poi finirà nella contabilità
del Tesoro, malgrado la resistenza del ministro.
Sono debiti dai quali non sarà agevole rientrare, neanche facendo
ricorso ad un megamutuo. Ammesso che si trovi chi sia disposto a concederlo,
un mutuo quindicennale per un milione e mezzo di miliardi di lire
comporterebbe, agli attuali tassi di mercato, un rateo di rimborso
mensile (capitale e interessi) compreso fra i 25 e i 26 mila miliardi.
Il che significherebbe mangiarsi qualcosa come il 60 per cento dell'intero
bilancio statale italiano. O, in alternativa, vorrebbe dire caricare
ogni italiano, neonati e vegliardi compresi, di una sovrattassa di
ammortamento del mutuo di circa 450 mila lire al mese, con una media
di 1,3 milioni per famiglia! E queste considerazioni hanno convinto
Moody's a declassare il nostro Paese, trasferendolo subito in serie
cadetta.
Coloro i quali sono stati colti in contropiede hanno tentato di giustificarsi:
"Non è stato tanto l'ammontare del debito che ha impressionato
i tecnici di Moody's - hanno spiegato - quanto il rincorrersi di annunci
su manovre grandiose che poi non si sono fatte. L'economia italiana
è molto meno finanziarizzata di quella di altri Paesi, come
ad esempio il Regno Unito o gli Stati Uniti. Da noi c'è un
grosso debitore pubblico, ma l'insieme dell'economia è poco
indebitato e i dati fondamentali sono sostanzialmente sani. Alla Moody's
invece si sono fatti impressionare da questa politica ballerina e
volatile, Crediamo che il loro sia un invito a predisporre manovre
più realistiche. L'Italia non ha bisogno di misure drammatiche,
né di bagni di sangue".

Sarà. Ma
proprio nei giorni in cui gli esperti dell'agenzia americana erano
nella capitale italiana per interrogare studiosi, politici, economisti,
per compulsare dati, cifre e documenti, la Commissione per la spesa
pubblica metteva nero su bianco e consegnava al Parlamento una durissima
requisitoria contro la politica di bilancio degli ultimi anni: "La
politica di risanamento della finanza pubblica si è sviluppata
con esiti non del tutto positivi. La crescita della spesa pubblica
è stata sempre superiore ai valori programmati. La crescita
della pressione tributaria e di quella contributiva è servita
a pagare il costo crescente degli interessi e della spesa al netto
degli interessi: solo marginalmente è andata a ridurre la quota
di fabbisogno sul prodotto interno lordo. La dinamica della finanza
pubblica italiana non appare tale da consentire quella convergenza
sugli standard europei che è richiesta dal processo di integrazione
in atto". L'analisi, difficile da non condividere, ha traumatizzato
il ministero del Tesoro, accusato di avere più volte trasmesso
"al pubblico e ai mercati finanziari scenari di rigore e di sacrifici
spesso inesistenti". Di impopolare si sono inventate solo nuove
tasse, si sono creati quasi esclusivamente nuovi balzelli, con i quali,
comunque, non è stato ridotto il deficit, ma si è allargata
la sfera dello sperpero, in una spirale viziosa dalla quale sembra
si sia incapaci di uscire.
Ora, poiché niente e nessuno vola più rapidamente della
cattiva fama, sulla scorta del giudizio Moody's l'Italia è
stata "rimandata a ottobre" da ministri finanziari della
Comunità europea, in vista della seconda fase dell'Unione monetaria
europea, dal momento che il piano di risanamento dei suoi conti messo
a punto dal governo di Roma non ha convinto che in parte, e forse
in parte minima. Il commissario Cee, un rude olandese tutto d'un pezzo,
si è limitato a precisare quali sono i criteri-base cui si
devono attenere i singoli Paesi per abolire o ridurre al minimo le
disparità fra i partners. Ma per l'Italia non ci sono stati
ammiccamenti: solo la realtà nuda e cruda, che la mette a distanze
preoccupanti dalle economie sviluppate e poco indebitate.
In realtà, lo stato di salute dei Dodici è molto differenziato
e, se per alcuni non migliorerà entro il 1994, momento in cui
dovrebbe scattare appunto la seconda fase dell'Uem, la spaccatura
in due gruppi sarà fatalmente inevitabile. I parametri che
la Cee ha preso come riferimento sono l'inflazione (prezzi al consumo
e costo del lavoro), le finanze pubbliche (fabbisogno e indebitamento,
rapportati al Prodotto nazionale lordo), conti con l'estero (bilancia
dei pagamenti e risparmio nazionale). E dall'analisi dei dati - sono
stime per il 1991 - alla graduatoria, il passo è stato breve.
Il primo della classe è risultato il Lussemburgo, che ha tutti
gli indicatori in perfetto ordine. Fanalino di coda è la Grecia,
che non registra neanche un solo dato positivo. Ma l'Italia non ha
di che stare allegra. Infatti, se l'inflazione è superiore
alla media Cee ma non è drammatica, le finanze pubbliche sono
oltre il livello di guardia e, quel che è peggio, quest'anno
l'indebitamento registrerà un peggioramento del 2,6 per cento,
arrivando a rappresentare il 103,3 per cento dei prodotto nazionale
lordo. Insieme con il Belgio, il nostro Paese è l'unico dei
Dodici a non dare segni di miglioramento sul fronte finanziario, mentre
gli altri partners più deboli, come la Grecia e il Portogallo,
stanno risalendo pian piano la china.
E non finisce qui. La ben consolidata idea che gli italiani siano
un popolo di risparmiatori sembra trovare una clamorosa smentita:
il rapporto risparmio-prodotto nazionale lordo pone l'Italia solo
al nono posto nella Comunità, ma questo esclusivamente perché
uno Stato spendaccione finisce col divorare buona parte del risparmio
delle famiglie.

La creazione dell'Uem, che si tradurrebbe in una moneta unica e nella
costituzione della Banca centrale, presuppone, soprattutto a parere
dei tedeschi, la convergenza delle economie dei Dodici, senza la quale
"sarebbero necessarie imponenti compensazioni finanziarie tra
- ad esempio - Danimarca e Grecia, due Paesi tra i quali le divergenze
sono analoghe a quelle tra Germania e Italia". Ma chi finanzierebbe
gli enormi trasferimenti di risorse necessari? Invece, sarebbero in
grado di farlo, questo passo, a giudizio della stessa Germania e dei
suoi vicini (Francia, Benelux, Danimarca ed eventualmente Austria,
che continua a sollecitare l'adesione alla Cee) Paesi il cui tasso
d'inflazione risulta di livello analogo. Non èquesto il caso
di altri Stati (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e Inghilterra),
dove il tasso d'inflazione è più elevato di quello presente
nel primo gruppo. Per questi sarebbe estremamente difficile fissare
in maniera irrevocabile i tassi di cambio e trasferire alla Banca
centrale europea la loro sovranità in materia di decisioni
circa i tassi d'interesse e la loro liquidità. In buona sostanza,
soltanto Paesi le Cui economie presentino caratteristiche omogenee
(cioè tassi d'inflazione, livelli di produttività e
di competitività sui mercati esteri, non differenziati) possono
affrontare senza troppi rischi l'avventura dell'Uem. Mettendo, al
contrario, tutti i Paesi nella stessa barca si andrebbe incontro agli
stessi guai che è costretta ad affrontare l'ex Germania Federale
dopo l'unificazione con l'Ex Repubblica Democratica: un gigantesco
riversamento di capitali, con gravi rischi per l'economia dell'ex
Rft e con passaggi politico-economici molto delicati.
I tedeschi non hanno lesinato critiche all'Italia, Paese ad alto indice
di sviluppo e ad alto livello di indebitamento pubblico. E i nostri
reggitori, che comunque hanno reagito, sono stati in ogni caso costretti
a riconoscere la necessità eli ridurre l'inflazione e il debito
pubblico dato che, come ha sottolineato il Governatore Azeglio Ciampi,
"l'unione economica e monetaria dell'Europa significa abbattimento
dell'inflazione e del debito pubblico sul livello medio degli altri
Paesi industrializzati".
Analizziamo, per sintesi, i motivi di preoccupazione sull'avvenire
dell'Italia. L'inflazione nel 1990 era di nuovo aumentata (+6,1 per
cento, tasso medio annuo), contro una media del 4,2 per cento per
i nove principali Paesi industrializzati (Germania, Francia, Inghilterra,
Belgio, Olanda, Lussemburgo, Spagna, Stati Uniti, Giappone) e una
media del 5,7 per cento per i soli Paesi della Comunità. La
bilancia commerciale italiana ha registrato nello stesso anno un disavanzo
pari a circa 14.121 miliardi, inferiore di circa 3.000 miliardi rispetto
al 1989, ma sempre pesante. E' da notare, anche, che il miglioramento
ha interessato soltanto alcuni comparti (minerali ferrosi e non ferrosi,
il settore agro-alimentare, quello tessile), mentre in quelli chimico,
energetico e dei mezzi di trasporto lo sbilancio si è ampliato.
Se si prendono poi in considerazione le quantità esportate,
l'incremento è stato limitato ad un 3,3 per cento nell'intero
anno. La bilancia dei pagamenti ha posto in evidenza un saldo attivo
di 15.137 miliardi, contro i 15.386 dell'anno precedente. E' tuttavia
noto che si tratta di un avanzo attribuito in larga misura ad afflussi
dall'estero di capitali attratti dal livello dei tassi d'interesse
che da noi è più elevato. In parole semplici, si tratta
di prestiti dall'estero al sistema bancario e allo Stato italiano.
E', dunque, un attivo artificiale.
Quando poi si parla di debito pubblico superiore al prodotto interno
lordo, ci si riferisce al superamento del milione e 307 mila miliardi
prodotti dagli italiani e ad una cifra superiore spesa dallo Stato.
Nel 1989 e nel 1990 il disavanzo dello Stato ha corrisposto a circa
il 10 per cento del prodotto interno lordo. Nello stesso biennio,
invece, in Francia esso è sceso dall'1,5 all'1,2 per cento
del Pil; in Belgio, dal 3 al 5,9 per cento; in Canada, dal 3,4 al
3,1 per cento.
Dal 1988 si sono registrati addirittura leggeri avanzi di bilancio
nel Regno Unito, anche se probabilmente non si ripeteranno nel 1991
(-0,2 per cento del Pil, secondo le previsioni). Molto più
consistenti quelli conseguiti nello stesso periodo di tempo dal Giappone
(+2,1 per cento nell'88, +2,7 per cento nell'89, + 3,1 per cento nel
'90). Un caso a parte è quello della Germania, che ha avuto
un disavanzo nell'88 (-2,1 per cento del Pil), un modesto avanzamento
nell'89 (+0,2 per cento), e un disavanzo vicino al 4 per cento nel
1990, ma dovuto alle immediate ripercussioni del costo dell'unificazione.
Quasi sicuramente questo disavanzo si accentuerà per la Germania
nei prossimi anni per l'onere eccezionale che l'erario di quel Paese
dovrà sopportare per risolvere gli enormi problemi economicosociali
dell'ex Ddr.
In sintesi: se si fa eccezione per la Grecia (-18,4 per cento del
Pil nell'89; -18,3 per cento nel 1990), il disavanzo pubblico dell'Italia
risulta il più elevato rispetto alla media dei Paesi dell'Ocse
(dove è stato pari all'1,1 per cento del Pil nell'89 e all'1,6
per cento nel 1990) e, all'interno dell'Ocse, a quello dei Paesi europei
(2,3 per cento nell'89 e 3,2 per cento nel 1990). Questo primato negativo
dovrebbe resistere nei prossimi anni.
Per quel che riguarda il grado di competitività dei nostri
prodotti, è sufficiente ricordare quanto ha affermato Pininfarina,
secondo il quale nell'ultimo triennio l'Italia avrebbe subìto
un calo del 5 per cento rispetto agli Stati Uniti, di circa il 6 per
cento rispetto ai Paesi europei e addirittura del 28 per cento rispetto
al Giappone.
Non susciterà dunque meraviglia che, stando così le
cose, le più recenti previsioni non contemplino una crescita
del nostro Pil nel 1991 superiore all'1 per cento, (fa eccezione l'Isco,
che indica un 2 per cento di aumento, ma tutti gli osservatori ritengono
che si tratti di una prognosi eccessivamente ottimistica), a fronte
di un 2 per cento dei Paesi dell'Ocse e di un 2,1 per cento di quelli
europei all'interno della stessa area dell'Ocse.
D'altro canto, se si considera un indicatore attendibile dell'andamento
probabile dell'attività produttiva nel breve-medio periodo
qual è quello degli ordinativi del settore industriale, di
può trovare conferma di questa previsione. Gli ordinativi hanno
denunciato un calo di ben il 10,9 per cento, nel 1990, rispetto all'anno
precedente; e quest'anno le cose non sembra siano andate in modo diverso.
Gli industriali non hanno dubbi: non potrebbe essere altrimenti, se
si tien conto che il costo del lavoro risulta in media più
elevato in Italia che negli altri Paesi nostri diretti concorrenti.
Secondo la Confindustria, nel comparto del tessile-abbigliamento,
ad esempio, (e si tratta di uno dei settori trainanti nelle nostre
esportazioni) il costo del lavoro è più elevato del
60 per cento rispetto a quello degli Stati Uniti, del 60-65 per cento
rispetto a quello della Gran Bretagna e del 40 per cento rispetto
a quello della Francia.
A questo fattore negativo occorre aggiungere gli ingenti oneri "impropri"
rappresentati dalle inefficienze della pubblica amministrazione centrale
e periferica che rendono ai nostri operatori economici tutto più
complesso e costoso.
Senza contare l'alto costo del denaro, conseguenza del disavanzo pubblico
che obbliga lo Stato a procedere ad emissione di Bot e Cct a tassi
elevati per rendere appetibili i propri titoli. Da ultimo, occorre
ricordare la presenza della malavita organizzata in una vasta parte
del nostro territorio, che contangenti e balzelli fa lievitare i costi
di produzione, quando non scoraggia del tutto gli investimenti. La
manovra economica per ridurre il disavanzo pubblico è concettualmente
abbastanza semplice: agire sulla spesa e/o sulle entrate. Si tratta
però di strade di difficile percorribilità per diversi
motivi. L'azione più promettente sotto il profilo dei risultati
sembrerebbe quella della riduzione della spesa, ma perché essa
risulti proficua occorrerebbe tagliare i finanziamenti agli enti locali
(aumentati nel 1990 del 13 per cento) e alla Sanità (dove si
è registrato un incremento del 10 per cento); e bisognerebbe
lasciar fallire le imprese pubbliche non produttive, bloccando ne
o stesso tempo le assunzioni nel settore pubblico (dove le spese per
il personale sono aumentate nel 1990 del 10 per cento). Ma tutto questo
presuppone la volontà politica di infliggere un colpo mortale
al clientelismo e alla corruzione. Ha queste intenzioni la nostra
classe politica?
L'aumento delle entrate è un obiettivo altrettanto difficile
da perseguire, perché la pressione fiscale ha raggiunto in
Italia un livello (questo, sì, europeo) non facilmente valicabile,
se non si desiderino azioni, già vissute in altri Paesi, di
rigetto (aumento dell'evasione, disaffezione al lavoro, riduzione
della propensione al risparmio, ecc.). E occorrerebbe combattere in
maniera incisiva, e non spettacolare soltanto, l'evasione tributaria:
si calcola che essa raggiunga annualmente i 200.000 miliardi di lire.
Questi, gli scenari italiani. E non a caso qualche tempo fa l'autorevole
Times, in un articolo dedicato alla nostra situazione, intitolava:
"Roman Ruines". Le rovine di Roma. Chi oserebbe dargli torto
?