§ Debito pubblico

Con l'acqua alla gola




M. C. Milo, F. Albini, A. Foresi
Collab. R. Adamanti, C. De Francisci, F. Cardignano



Era già stupefacente l'ultimo dato ufficiale: il debito dello Stato aveva superato il milione e 330 mila miliardi di lire: 300 mila miliardi in più di due anni fa, quando chi era stato chiamato a risanare quel debito, l'ex Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, aveva annunciato il giro di boa, col debito pubblico oltre quota un milione di miliardi. Carli ce l'aveva messa tutta, ma i risultati gli avevano subito dato torto, e la realtà ora continua a peggiorare: ci stiamo avviando verso il milione e mezzo di miliardi di lire, e le relazioni di Carli sono percorse da un crescente senso di angoscia, provocato dall'incapacità di allungare almeno le scadenze del debito. La vita media dei titoli di Stato, infatti, è sempre ferma a due anni e sei mesi; e non tutti quanti i debiti contratti dallo Stato sono contabilizzati dalla Direzione generale del debito pubblico, al ministero del Tesoro.
A restar fuori non sono poche lire spicciole. Tra i crediti d'imposta e le tasse che i contribuenti hanno pagato in eccesso e che hanno pieno diritto a vedersi rimborsate, si tratta di circa 70 mila miliardi, la cui contabilità è tenuta dal ministero delle Finanze. Altri 20-25 mila miliardi di lire sono spese che non compaiono mai nei bilanci statali e che tuttavia regolarmente, di anno in anno, ci si accorge che qualcuno ha fatto alla chetichella, senza alcuna copertura. Sono spese che, direttamente, finiscono con l'ingrossare il debito dello Stato: le chiamano "regolazione dei debiti pregressi", e sono vero e proprio debito ancora prima di essere contabilmente "spesa", e servono in grandissima parte a coprire il costo del sistema sanitario nazionale.
E poi ancora ci sono gli infiniti rivoli dei debiti ancora non riconosciuti, ma già aperti, e che in un modo o nell'altro saranno addossati al Tesoro. E' il caso, ad esempio, del debito imponente della Regione Puglia, un "buco" che prima o poi finirà nella contabilità del Tesoro, malgrado la resistenza del ministro.
Sono debiti dai quali non sarà agevole rientrare, neanche facendo ricorso ad un megamutuo. Ammesso che si trovi chi sia disposto a concederlo, un mutuo quindicennale per un milione e mezzo di miliardi di lire comporterebbe, agli attuali tassi di mercato, un rateo di rimborso mensile (capitale e interessi) compreso fra i 25 e i 26 mila miliardi. Il che significherebbe mangiarsi qualcosa come il 60 per cento dell'intero bilancio statale italiano. O, in alternativa, vorrebbe dire caricare ogni italiano, neonati e vegliardi compresi, di una sovrattassa di ammortamento del mutuo di circa 450 mila lire al mese, con una media di 1,3 milioni per famiglia! E queste considerazioni hanno convinto Moody's a declassare il nostro Paese, trasferendolo subito in serie cadetta.
Coloro i quali sono stati colti in contropiede hanno tentato di giustificarsi: "Non è stato tanto l'ammontare del debito che ha impressionato i tecnici di Moody's - hanno spiegato - quanto il rincorrersi di annunci su manovre grandiose che poi non si sono fatte. L'economia italiana è molto meno finanziarizzata di quella di altri Paesi, come ad esempio il Regno Unito o gli Stati Uniti. Da noi c'è un grosso debitore pubblico, ma l'insieme dell'economia è poco indebitato e i dati fondamentali sono sostanzialmente sani. Alla Moody's invece si sono fatti impressionare da questa politica ballerina e volatile, Crediamo che il loro sia un invito a predisporre manovre più realistiche. L'Italia non ha bisogno di misure drammatiche, né di bagni di sangue".

Sarà. Ma proprio nei giorni in cui gli esperti dell'agenzia americana erano nella capitale italiana per interrogare studiosi, politici, economisti, per compulsare dati, cifre e documenti, la Commissione per la spesa pubblica metteva nero su bianco e consegnava al Parlamento una durissima requisitoria contro la politica di bilancio degli ultimi anni: "La politica di risanamento della finanza pubblica si è sviluppata con esiti non del tutto positivi. La crescita della spesa pubblica è stata sempre superiore ai valori programmati. La crescita della pressione tributaria e di quella contributiva è servita a pagare il costo crescente degli interessi e della spesa al netto degli interessi: solo marginalmente è andata a ridurre la quota di fabbisogno sul prodotto interno lordo. La dinamica della finanza pubblica italiana non appare tale da consentire quella convergenza sugli standard europei che è richiesta dal processo di integrazione in atto". L'analisi, difficile da non condividere, ha traumatizzato il ministero del Tesoro, accusato di avere più volte trasmesso "al pubblico e ai mercati finanziari scenari di rigore e di sacrifici spesso inesistenti". Di impopolare si sono inventate solo nuove tasse, si sono creati quasi esclusivamente nuovi balzelli, con i quali, comunque, non è stato ridotto il deficit, ma si è allargata la sfera dello sperpero, in una spirale viziosa dalla quale sembra si sia incapaci di uscire.
Ora, poiché niente e nessuno vola più rapidamente della cattiva fama, sulla scorta del giudizio Moody's l'Italia è stata "rimandata a ottobre" da ministri finanziari della Comunità europea, in vista della seconda fase dell'Unione monetaria europea, dal momento che il piano di risanamento dei suoi conti messo a punto dal governo di Roma non ha convinto che in parte, e forse in parte minima. Il commissario Cee, un rude olandese tutto d'un pezzo, si è limitato a precisare quali sono i criteri-base cui si devono attenere i singoli Paesi per abolire o ridurre al minimo le disparità fra i partners. Ma per l'Italia non ci sono stati ammiccamenti: solo la realtà nuda e cruda, che la mette a distanze preoccupanti dalle economie sviluppate e poco indebitate.
In realtà, lo stato di salute dei Dodici è molto differenziato e, se per alcuni non migliorerà entro il 1994, momento in cui dovrebbe scattare appunto la seconda fase dell'Uem, la spaccatura in due gruppi sarà fatalmente inevitabile. I parametri che la Cee ha preso come riferimento sono l'inflazione (prezzi al consumo e costo del lavoro), le finanze pubbliche (fabbisogno e indebitamento, rapportati al Prodotto nazionale lordo), conti con l'estero (bilancia dei pagamenti e risparmio nazionale). E dall'analisi dei dati - sono stime per il 1991 - alla graduatoria, il passo è stato breve.
Il primo della classe è risultato il Lussemburgo, che ha tutti gli indicatori in perfetto ordine. Fanalino di coda è la Grecia, che non registra neanche un solo dato positivo. Ma l'Italia non ha di che stare allegra. Infatti, se l'inflazione è superiore alla media Cee ma non è drammatica, le finanze pubbliche sono oltre il livello di guardia e, quel che è peggio, quest'anno l'indebitamento registrerà un peggioramento del 2,6 per cento, arrivando a rappresentare il 103,3 per cento dei prodotto nazionale lordo. Insieme con il Belgio, il nostro Paese è l'unico dei Dodici a non dare segni di miglioramento sul fronte finanziario, mentre gli altri partners più deboli, come la Grecia e il Portogallo, stanno risalendo pian piano la china.
E non finisce qui. La ben consolidata idea che gli italiani siano un popolo di risparmiatori sembra trovare una clamorosa smentita: il rapporto risparmio-prodotto nazionale lordo pone l'Italia solo al nono posto nella Comunità, ma questo esclusivamente perché uno Stato spendaccione finisce col divorare buona parte del risparmio delle famiglie.


La creazione dell'Uem, che si tradurrebbe in una moneta unica e nella costituzione della Banca centrale, presuppone, soprattutto a parere dei tedeschi, la convergenza delle economie dei Dodici, senza la quale "sarebbero necessarie imponenti compensazioni finanziarie tra - ad esempio - Danimarca e Grecia, due Paesi tra i quali le divergenze sono analoghe a quelle tra Germania e Italia". Ma chi finanzierebbe gli enormi trasferimenti di risorse necessari? Invece, sarebbero in grado di farlo, questo passo, a giudizio della stessa Germania e dei suoi vicini (Francia, Benelux, Danimarca ed eventualmente Austria, che continua a sollecitare l'adesione alla Cee) Paesi il cui tasso d'inflazione risulta di livello analogo. Non èquesto il caso di altri Stati (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna e Inghilterra), dove il tasso d'inflazione è più elevato di quello presente nel primo gruppo. Per questi sarebbe estremamente difficile fissare in maniera irrevocabile i tassi di cambio e trasferire alla Banca centrale europea la loro sovranità in materia di decisioni circa i tassi d'interesse e la loro liquidità. In buona sostanza, soltanto Paesi le Cui economie presentino caratteristiche omogenee (cioè tassi d'inflazione, livelli di produttività e di competitività sui mercati esteri, non differenziati) possono affrontare senza troppi rischi l'avventura dell'Uem. Mettendo, al contrario, tutti i Paesi nella stessa barca si andrebbe incontro agli stessi guai che è costretta ad affrontare l'ex Germania Federale dopo l'unificazione con l'Ex Repubblica Democratica: un gigantesco riversamento di capitali, con gravi rischi per l'economia dell'ex Rft e con passaggi politico-economici molto delicati.
I tedeschi non hanno lesinato critiche all'Italia, Paese ad alto indice di sviluppo e ad alto livello di indebitamento pubblico. E i nostri reggitori, che comunque hanno reagito, sono stati in ogni caso costretti a riconoscere la necessità eli ridurre l'inflazione e il debito pubblico dato che, come ha sottolineato il Governatore Azeglio Ciampi, "l'unione economica e monetaria dell'Europa significa abbattimento dell'inflazione e del debito pubblico sul livello medio degli altri Paesi industrializzati".
Analizziamo, per sintesi, i motivi di preoccupazione sull'avvenire dell'Italia. L'inflazione nel 1990 era di nuovo aumentata (+6,1 per cento, tasso medio annuo), contro una media del 4,2 per cento per i nove principali Paesi industrializzati (Germania, Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Spagna, Stati Uniti, Giappone) e una media del 5,7 per cento per i soli Paesi della Comunità. La bilancia commerciale italiana ha registrato nello stesso anno un disavanzo pari a circa 14.121 miliardi, inferiore di circa 3.000 miliardi rispetto al 1989, ma sempre pesante. E' da notare, anche, che il miglioramento ha interessato soltanto alcuni comparti (minerali ferrosi e non ferrosi, il settore agro-alimentare, quello tessile), mentre in quelli chimico, energetico e dei mezzi di trasporto lo sbilancio si è ampliato. Se si prendono poi in considerazione le quantità esportate, l'incremento è stato limitato ad un 3,3 per cento nell'intero anno. La bilancia dei pagamenti ha posto in evidenza un saldo attivo di 15.137 miliardi, contro i 15.386 dell'anno precedente. E' tuttavia noto che si tratta di un avanzo attribuito in larga misura ad afflussi dall'estero di capitali attratti dal livello dei tassi d'interesse che da noi è più elevato. In parole semplici, si tratta di prestiti dall'estero al sistema bancario e allo Stato italiano. E', dunque, un attivo artificiale.
Quando poi si parla di debito pubblico superiore al prodotto interno lordo, ci si riferisce al superamento del milione e 307 mila miliardi prodotti dagli italiani e ad una cifra superiore spesa dallo Stato. Nel 1989 e nel 1990 il disavanzo dello Stato ha corrisposto a circa il 10 per cento del prodotto interno lordo. Nello stesso biennio, invece, in Francia esso è sceso dall'1,5 all'1,2 per cento del Pil; in Belgio, dal 3 al 5,9 per cento; in Canada, dal 3,4 al 3,1 per cento.
Dal 1988 si sono registrati addirittura leggeri avanzi di bilancio nel Regno Unito, anche se probabilmente non si ripeteranno nel 1991 (-0,2 per cento del Pil, secondo le previsioni). Molto più consistenti quelli conseguiti nello stesso periodo di tempo dal Giappone (+2,1 per cento nell'88, +2,7 per cento nell'89, + 3,1 per cento nel '90). Un caso a parte è quello della Germania, che ha avuto un disavanzo nell'88 (-2,1 per cento del Pil), un modesto avanzamento nell'89 (+0,2 per cento), e un disavanzo vicino al 4 per cento nel 1990, ma dovuto alle immediate ripercussioni del costo dell'unificazione. Quasi sicuramente questo disavanzo si accentuerà per la Germania nei prossimi anni per l'onere eccezionale che l'erario di quel Paese dovrà sopportare per risolvere gli enormi problemi economicosociali dell'ex Ddr.
In sintesi: se si fa eccezione per la Grecia (-18,4 per cento del Pil nell'89; -18,3 per cento nel 1990), il disavanzo pubblico dell'Italia risulta il più elevato rispetto alla media dei Paesi dell'Ocse (dove è stato pari all'1,1 per cento del Pil nell'89 e all'1,6 per cento nel 1990) e, all'interno dell'Ocse, a quello dei Paesi europei (2,3 per cento nell'89 e 3,2 per cento nel 1990). Questo primato negativo dovrebbe resistere nei prossimi anni.
Per quel che riguarda il grado di competitività dei nostri prodotti, è sufficiente ricordare quanto ha affermato Pininfarina, secondo il quale nell'ultimo triennio l'Italia avrebbe subìto un calo del 5 per cento rispetto agli Stati Uniti, di circa il 6 per cento rispetto ai Paesi europei e addirittura del 28 per cento rispetto al Giappone.
Non susciterà dunque meraviglia che, stando così le cose, le più recenti previsioni non contemplino una crescita del nostro Pil nel 1991 superiore all'1 per cento, (fa eccezione l'Isco, che indica un 2 per cento di aumento, ma tutti gli osservatori ritengono che si tratti di una prognosi eccessivamente ottimistica), a fronte di un 2 per cento dei Paesi dell'Ocse e di un 2,1 per cento di quelli europei all'interno della stessa area dell'Ocse.
D'altro canto, se si considera un indicatore attendibile dell'andamento probabile dell'attività produttiva nel breve-medio periodo qual è quello degli ordinativi del settore industriale, di può trovare conferma di questa previsione. Gli ordinativi hanno denunciato un calo di ben il 10,9 per cento, nel 1990, rispetto all'anno precedente; e quest'anno le cose non sembra siano andate in modo diverso. Gli industriali non hanno dubbi: non potrebbe essere altrimenti, se si tien conto che il costo del lavoro risulta in media più elevato in Italia che negli altri Paesi nostri diretti concorrenti. Secondo la Confindustria, nel comparto del tessile-abbigliamento, ad esempio, (e si tratta di uno dei settori trainanti nelle nostre esportazioni) il costo del lavoro è più elevato del 60 per cento rispetto a quello degli Stati Uniti, del 60-65 per cento rispetto a quello della Gran Bretagna e del 40 per cento rispetto a quello della Francia.
A questo fattore negativo occorre aggiungere gli ingenti oneri "impropri" rappresentati dalle inefficienze della pubblica amministrazione centrale e periferica che rendono ai nostri operatori economici tutto più complesso e costoso.
Senza contare l'alto costo del denaro, conseguenza del disavanzo pubblico che obbliga lo Stato a procedere ad emissione di Bot e Cct a tassi elevati per rendere appetibili i propri titoli. Da ultimo, occorre ricordare la presenza della malavita organizzata in una vasta parte del nostro territorio, che contangenti e balzelli fa lievitare i costi di produzione, quando non scoraggia del tutto gli investimenti. La manovra economica per ridurre il disavanzo pubblico è concettualmente abbastanza semplice: agire sulla spesa e/o sulle entrate. Si tratta però di strade di difficile percorribilità per diversi motivi. L'azione più promettente sotto il profilo dei risultati sembrerebbe quella della riduzione della spesa, ma perché essa risulti proficua occorrerebbe tagliare i finanziamenti agli enti locali (aumentati nel 1990 del 13 per cento) e alla Sanità (dove si è registrato un incremento del 10 per cento); e bisognerebbe lasciar fallire le imprese pubbliche non produttive, bloccando ne o stesso tempo le assunzioni nel settore pubblico (dove le spese per il personale sono aumentate nel 1990 del 10 per cento). Ma tutto questo presuppone la volontà politica di infliggere un colpo mortale al clientelismo e alla corruzione. Ha queste intenzioni la nostra classe politica?
L'aumento delle entrate è un obiettivo altrettanto difficile da perseguire, perché la pressione fiscale ha raggiunto in Italia un livello (questo, sì, europeo) non facilmente valicabile, se non si desiderino azioni, già vissute in altri Paesi, di rigetto (aumento dell'evasione, disaffezione al lavoro, riduzione della propensione al risparmio, ecc.). E occorrerebbe combattere in maniera incisiva, e non spettacolare soltanto, l'evasione tributaria: si calcola che essa raggiunga annualmente i 200.000 miliardi di lire.
Questi, gli scenari italiani. E non a caso qualche tempo fa l'autorevole Times, in un articolo dedicato alla nostra situazione, intitolava: "Roman Ruines". Le rovine di Roma. Chi oserebbe dargli torto ?


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