§ Economia e morale

Il nuovo capitalismo




Michael Novak



Giovanni Paolo II intitola solennemente uno dei capitoli della sua nuova enciclica L'anno 1989. In effetti l'89 è stato un anno di miracoli, se non altro nel senso che il crollo del socialismo reale, pure previsto cento anni or sono da Leone XIII nella Rerum Novarum, ha stupito il mondo intero per subitaneità e completezza. In modo del tutto inaspettato è caduto il muro di Berlino, si èdisintegrata la cortina di ferro, l'impero sovietico ha cominciato a implodere. Il prestigio del socialismo reale è svanito come uno sbuffo di fumo. Al volgere del secolo XX il mondo entra in un'era post-socialista. A coloro che rifiutano la povertà e la miseria delle economie tradizionali del Terzo Mondo si sono aggiunti coloro che voltano le spalle alle rovine del socialismo reale in Europa orientale e nell'Urss. Il Premio Nobel James M. Buchanan ha scritto sul The Economic Journal: "Il secolo post-socialista sarà contrassegnato dalla convergenza delle concezioni scientifiche tra coloro che si dicono economisti". Oggi siamo tutti capitalisti, perfino il papa. Sia il metodo tradizionalista (il Terzo Mondo) sia quello socialista hanno fallito; oggi il mondo dispone di una sola forma di teoria economica.
E' dunque curioso lo spettacolo dei cittadini dell'ex mondo del socialismo reale che, come Rip van Winkle, si svegliano da un lungo sonno. Molte immagini ce li mostrano mentre, stropicciandosi gli occhi dalla meraviglia, riscoprono il mondo normale dell'esperienza umana. Per esempio, nello scorso aprile un giovane di Leningrado ha aperto legalmente un negozietto di oggetti per la casa, diventando in questo modo uno dei primi commercianti privati dell'Unione Sovietica dopo settant'anni. "E' nella natura degli esseri umani che se Lino ha qualcosa, quella cosa è sua", afferma; "e si lavora con uno stato d'animo completamente diverso se qualcosa ci appartiene".
Guardate con questi occhi, le fondamenta del capitalismo appaiono alquanto diverse, rispetto a come le vede lo stanco Occidente. Gli ex socialisti scorgono i vantaggi morali del capitalismo, ne rilevano le qualità umanitarie; laddove i nostri antenati aristocratici consideravano con disprezzo le attività commerciali, coloro che hanno conosciuto l'economia controllata giudicano proprio tali attività un progresso morale. Insomma, oggi l'Est scopre il fondamento morale del capitalismo negli umili eventi della vita quotidiana, come la scoperta della proprietà privata. Un altro esempio è la semplice esperienza di essere un consumatore libero e adulto.
Scrive un cittadino bulgaro: "Diversi intellettuali e uomini politici tedeschi hanno avuto parole dure per i concittadini che si sono precipitati nei negozi tedesco-occidentali appena hanno potuto... Quelle parole potevano essere pronunciate solo da chi ha dimenticato, o non ha mai conosciuto, l'umiliazione personale dovuta alla mancanza perenne dei beni di consumo più elementari: l'umiliazione di code silenziose e ostili, l'umiliazione inflittavi da commessi che sembrano seccati di vedervi lì intorno, l'umiliazione di dover sempre comprare quel che c'è e non ciò di cui si ha bisogno. La penuria sistematica di beni materiali ferisce la dignità morale dell'individuo". Perfino il semplice accesso alle cose materiali costituisce una lezione morale per chi ha vissuto sotto il socialismo e ha fatto code per due, tre, quattro ore ogni giorno.
La lezione complessiva degli avvenimenti in Europa orientale a partire dal 1989 è che non esiste una "economia socialista". A giudizio di tanti europei dell'Est, il socialismo non funziona - e non esiste una "terza via". Esiste una sola forma di economia, che contempla: a) i mercati; b) la proprietà privata; c) gli incentivi; d) l'innovazione, l'iniziativa, l'intraprendenza. Forse che gli economisti occidentali non hanno sempre saputo tutto questo? Non proprio.
Un illustre marxista americano, Robert Heilbroner, ha scritto che virtualmente non un economista di sinistra, e neppure di centro, ha previsto o predetto la caduta del socialismo. Gli è stato penoso riconoscerlo, ma i soli che avevano effettivamente predetto questo esito erano economisti quali Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, entrambi tenuti in ben scarsa considerazione dalla teoria economica prevalente negli Usa e in altri Paesi. Dov'è che sbagliavano questi economisti?
La risposta a questa domanda può portarci a riflettere in modo affatto nuovo sull'economia. Buchanan si domanda: "Perché gli economisti non hanno capito che gli incentivi restano pertinenti in tutti gli assetti di scelta? Perché gli economisti hanno completamente scordato la semplice difesa aristotelica della proprietà privata? Perché tanti economisti trascurano la psicologia del valore, che attribuisce la valutazione alle persone, non alle merci? Perché tanti esperti di analisi della scelta non riescono a cogliere i prerequisiti in materia di informazione che condizionano, a livello sia logico sia empirico, un'economia controllata centralmente? Perché si è verificata un'incapacità quasi totale di incorporare il potenziale creativo della scelta umana nei modelli dell'interpretazione umana?".
Per un teologo, gli interrogativi posti da Buchanan sono molto stimolanti. Essi conducono gli economisti in un territorio che anche i filosofi e i teologi sono costretti a esplorare. Incentivi? Proprietà privata? Una psicologia del valore? Persone anziché merci? Potenziale creativo, scelta umana? Si tratta di concetti che hanno stimolato per secoli filosofi e teologi, anzi si tratta di concetti che i filosofi e i teologi sono stati i primi a trarre dalle brume dell'esperienza umana.
Il problema sollevato da Heilbroner ci riporta al pregiudizio anticapitalista degli intellettuali - non solo degli economisti, ma anche dei teologi. Nel 1891 papa Leone XIII condannò il socialismo, definendolo vano oltre che perverso e iniquo, ma si mostrò riluttante ad elogiare il "capitalismo liberale" così come lo osservava nel 1891. Operò assiduamente per riformarlo. Papa Pio XI, nel paragrafo 101 di Quadrigesimo Anno (1931), richiamò esplicitamente l'attenzione su questo tentativo.
Ma perché gli intellettuali, sia laici sia religiosi, erano così ostili al "capitalismo liberale"? In generale, ne vedevano soltanto gli aspetti negativi. Temevano pericoli quali "l'eccessivo individualismo", il "materialismo", "l'impulso ad acquisire", le "concentrazioni eccessive del potere economico" in monopoli oppure in circoli finanziari ristretti. Non sbagliavano a paventare tali pericoli e molti abusi reali, tuttavia hanno sistematicamente sottovalutato le risorse spirituali dei Paesi in cui il capitalismo realmente esisteva, e in particolare di quello profondamente rispettato, e restavano forti le tradizioni religiose dell'ebraismo, del cristianesimo e anche di un certo umanitarismo etico. Nel corso dei decenni, i primi Paesi capitalisti, soprattutto nel mondo angloamericano, hanno introdotto varie forme di riorganizzazione sociale. Per la verità, Giovanni Paolo II, in quest'ultima enciclica, ha riconosciuto tali trasformazioni interne, sollecitandone tuttavia molte altre.
Una delle ragioni per cui gli intellettuali hanno ignorato le capacità del capitalismo di autoriformarsi, là dove si è innestato su forti tradizioni democratiche e morali/religiose, può essere connessa al fatto che la vita intellettuale moderna ha le sue radici in taluni profondi pregiudizi aristocratici. L'economia moderna, infatti, non è certo nata in un clima neutrale quanto al giudizio su commercio e industria.
Lo storico dell'economia Jacob Viner ha scritto: "Tra i filosofi greci e romani un atteggiamento ostile o sprezzante nei riguardi del commercio e del mercante era comune e nasceva essenzialmente da un pregiudizio aristocratico e snobistico, privo o quasi di argomentazioni razionali di tipo economico. Pertanto Aristotele sostenne che il commercio era un'attività sconveniente per nobili o gentiluomini, un'attività "biasimevole". Affermò sì che la ricchezza era essenziale per la nobiltà, ma doveva essere ricchezza ereditata. La ricchezza era altresì un'esigenza essenziale dello Stato, ma andava ottenuta attraverso la pirateria o il brigantaggio e le guerre per fare schiavi, e mantenuta con il loro lavoro [ ... ]. I primi padri cristiani assunsero nel complesso un atteggiamento di diffidenza se non di aperta ostilità verso il mestiere del mercante o del mediatore, in quanto era peccaminoso o induceva al peccato [ ... ]".
Si ricorderà che Adam Smith, l'inventore della scienza economica, da giovane aveva studiato teologia e si occupò professionalmente per tutta la vita dell'insegnamento della filosofia moraletuttavia, la teologia era allora profondamente imbevuta delle usanze, immagini e pratiche dei secoli passati. La prospettiva in cui si ponevano i teologi era radicata alla terra e al possesso terriero tanto quanto quella dei proprietari terrieri e dei contadini, era antagonistica al commercio e all'industria, ed era aristocratica. Il punto di vista di quella teologia era nel complesso favorevole alla ricchezza ereditata (o alla ricchezza conferita per decreto reale), ma alquanto ostile alla ricchezza guadagnata, in particolare quella guadagnata con il commercio e l'industria. Celebrava le arti del Governo e della guerra, del divertimento e del convivio, della magnificenza e della munificenza, della cerimonia e del gioco. Non vedeva altrettanto di buon occhio le arti sporche e faticose consistenti nel procurare beni e servizi, nel comprare e vendere, nell'aprire la via all'innovazione tecnica e alla produzione industriale. Amava le categorie delle arti liberali e guardava dall'alto in basso le "servili" arti industriali e commerciali; definiva "nobili" le arti liberali e "meramente utili" quelle commerciali; le prime erano encomiate come un modo di "essere", le seconde disprezzate in quanto crassamente "utilitarie". Da parte loro gli economisti, di fronte a siffatto rifiuto, cominciarono a considerare irrealistica e non pertinente la meditazione religiosa, quando non addirittura dannosa per la condizione dei poveri e per un'onesta indagine empirica.
La nuova enciclica di Giovanni Paolo II rivela il vivo desiderio di comporre finalmente il dissidio tra religione ed economia. Di fronte al crollo del marxismo, papa Wojtyla porta a compimento il tentativo avviato un secolo fa da Leone XIII di indicare le riforme necessarie per una forma di capitalismo democratico, osservante delle leggi e antropologicamente sana.
Cento anni fa Leone XIII si distinse come il "papa delle associazioni", in quanto mise al centro della sua dottrina sociale la libera associazione; analogamente, fra cento anni papa Giovanni Paolo II potrà esser divenuto famoso come il "papa dell'iniziativa economica", in quanto ha messo al centro della sua dottrina sociale "l'iniziativa economica personale". In Sollecitudo Rei Socialis, egli ha dichiarato che il diritto all'iniziativa economica personale è un diritto umano fondamentale, secondo soltanto al diritto alla libertà religiosa; al pari di quest'ultima ha le sue radici nell'immagine del Creatore impressa in ogni essere umano. Egli ha suggerito che uomini e donne, come il loro Creatore, sono chiamati ad essere co-creatori nella sfera economica.
Probabilmente, chi si è formato nelle discipline economiche coglierà immediatamente la portata di questa intuizione teologica. Schumpeter, Hayek e Kirzner ci hanno insegnato che la causa della ricchezza delle nazioni è l'innovazione, la scoperta, l'iniziativa. Pertanto, sotto certi importanti aspetti, il capitale umano viene prima del capitale morale. Quindi, Giovanni Paolo II, guardando alla storia della creazione nella Genesi come guida alle sue meditazioni sull'economia, ha trovato un modo per sanare la frattura tra la religione e l'economia di cui l'Occidente ha sofferto per duecento anni. Questa scelta gli permette infatti di esaltare la creatività dell'essere umano - in un certo senso la priorità del capitale umano sul capitale materiale. inoltre essa consente la riconciliazione tra economia e riflessione religiosa, dopo un lungo allontanamento durato quasi due secoli.
Tutte queste novità ci permettono di riconsiderare la storia degli ultimi due secoli, in particolare lo sviluppo dell'inventiva. Il nuovo ordine dei secolo XVIII - la "repubblica commerciale" - si raccomandava alla civiltà occidentale in primo luogo per la sua superiorità morale sul vecchio ordine. Esso proponeva leggi e contratti consensuali in luogo del brigantaggio e della guerra. "Commercio e pace" era il motto della commerciale città di Amsterdam.
Quando la via per la ricchezza fu tracciata dal l'innovazione, dall'industria e dallo scambio anziché da saccheggi, conquiste e brigantaggio, l'Occidente realizzò una grande conquista morale.
Naturalmente un'economia nuova non era - non è - sufficiente; dobbiamo essere capitalisti democratici, nel senso che una forma piena e fiorente di economia libera richiede un sistema politico sano, fondato sul consenso dei cittadini, nonché la guida di un sistema morale e culturale profondo, compassionevole, realistico. L'economia, così, sarà sempre più vista come lo studio della scelta umana; per citare ancora Buchanan, "l'economia politica è già artificiale; essa è stata costruita dalle scelte umane". La scelta diverrà ancor più centrale nell'analisi economica, e ciò significa che l'essere umano diverrà più centrale. Ora che quasi all'unanimità il mondo guarda a forme di economia politica che estendono lo spazio della scelta in campo politico, economico e morale/culturale, dobbiamo approfondire la conoscenza della politica pubblica. Sotto un aspetto importante, l'economia si concentrerà necessariamente di più sulla capacità umana di riflettere e di scegliere, diventerà cioè più umanitaria.
La tradizione cattolica afferma da lungo tempo che proprio in queste due attività, la riflessione e la scelta, si può dire propriamente che l'essere umano è fatto a immagine di Dio. Nel corso dei secoli sono state usate molte metafore per descrivere Dio. Egli è come le montagne o come gli oceani sconfinati, come le stelle fisse o come la chioccia che protegge i pulcini sotto le sue ali. Ma le analogie più convincenti sono quelle che riguardano la forma più complessa di vita sulla terra: l'essere umano. Nessuno ha visto Dio - ma, qualunque cosa Egli sia, noi immaginiamo che somigli alle attività della riflessione e della scelta - di capire e di amare - più che a ogni altro fenomeno nel mondo dell'esperienza umana. A partire per lo meno dall'epoca di Platone e di Aristotele, non si è trovato dentro l'essere umano nulla di più simile a Dio della capacità dell'uomo di comprendere e di scegliere: la fiaccola luminosa, il vivo desiderio del bene che tanto hanno animato la civiltà occidentale. Forte anche di quel che ha scritto Buchanan, mi arrischio a predire che una nuova visione si formerà intorno al concetto di scelta -scelta pubblica e scelta privata. Come abbiamo visto, la scelta fondata sulla comprensione è l'attività umana più simile a Dio nella tradizione religiosa: è l'attività umana preminente. La scelta è anche l'attività in cui si legano più strettamente la libertà religiosa (la prima libertà) e la libertà economica (la seconda libertà). Entrambe, secondo Giovanni Paolo II, hanno la medesima radice nell'immagine del Creatore conferita ad ogni essere umano. Il papa ha scritto che "la libertà religiosa [ ... ] è il fondamento di tutte le altre libertà ed è inseparabilmente legata a tutte loro in virtù di quella autentica dignità che è l'essere umano [ ... ]".
Già nella Laborem Exercens (1981) Giovanni Paolo Il aveva scritto che il libro della Genesi "insegna che l'uomo deve imitare Dio suo Creatore nel lavoro, perché solo l'uomo possiede la caratteristica unica della somiglianza con Dio". E nella Sollicitudo Rei Socialis egli collega la libertà religiosa ed economica alla libertà di associazione e ad altre libertà fondamentali: "La negazione o la limitazione dei diritti umani - quali per esempio il diritto alla libertà religiosa, il diritto di partecipare alla costruzione della società, la libertà di organizzarsi e di formare sindacati o di prendere l'iniziativa in campo economico - non impoveriscono forse l'essere umano altrettanto se non più della privazione dei beni materiali?".
La libertà è però un concetto che ci impone di procedere adagio. Non è il concetto più facile da comprendere. In particolare, la tradizione del diritto romano (e il codice napoleonico) dà origine a una concezione della libertà diversa da quella insita nel diritto consuetudinario. In gran parte dell'Europa continentale la libertà - la liberté francese, la libertà italiana e forse la libertas latina - sembra riguardare la sfera di ciò che è consentito e non vietato. All'interno di questo orizzonte libertà e diritto sono concepiti virtualmente come opposti: da una parte le cose ordinate o vietate, dall'altra parte quelle non contemplate dalla legge, vale a dire quelle libere. La concezione angloamericana (la concezione Whig) è affatto diversa. in essa la libertà è concepita come la forma interiore del diritto. L'intellegibilità del libero atto deriva dalla ragione, dalla legge, dal dovere o da una coscienza ben regolata.
E' opportuno analizzare più a fondo questa nozione, in quanto avvicina la riflessione religiosa alla nozione di "scelta razionale" formulata dagli economisti, e al tempo stesso la arricchisce. Sottolineo che "razionale" non significa puramente "utilitario", o puramente "materialistico". Sul piano empirico tale nozione appare abbastanza sensata: in effetti, la riflessione conferma che gli esseri umani spesso agiscono sulla base di motivi non puramente materialistici e non utilitari nella accezione angusta del termine.
Il mio filosofo prediletto sul tema della libertà è il grande laico e storico cattolico inglese Lord Acton. Per Acton, l'espansione della libertà umana è la chiave che spiega il disegno della Provvidenza per la storia umana e il cristianesimo è la principale forza storica che inserisce questa chiave nella storia. "Non è esistita libertà al di fuori del cristianesimo", egli scrive, dimostrando puntigliosamente in che modo lo sviluppo di istituzioni di libertà abbia dovuto attendere il risveglio della coscienza personale, al di là di tutti i vincoli di sangue o di appartenenza, nella fede cristiana, e aggiungendo: "La nozione cristiana di coscienza esige tassativamente un livello corrispondente di libertà personale. Il senso del dovere e della responsabilità nei confronti di Dio è l'unico arbitro delle azioni di un cristiano. A nessuna autorità umana può essere permesso di interferire in questo. Siamo obbligati a estendere al massimo grado e a difendere da ogni invasione la sfera in cui possiamo agire in obbedienza alla sola voce della coscienza, prescindendo da ogni altra considerazione [ ... ]. il centro e l'obiettivo supremo della libertà è il regno della coscienza".
Inoltre la coscienza, nella concezione di Acton, non è lasciata, a se stessa o arbitraria, ma risponde alla ragione. Egli ha in mente una coscienza regolata rettamente. Tra le altre sue "definizioni di libertà", segnaliamo le seguenti: "La ragione regna sulla ragione, non la volontà sulla volontà"; "la ragione prima della volontà".
Prima di procedere, mi sia consentito riportare altre riflessioni di Acton sulla libertà. "Non è esistita libertà al di fuori del cristianesimo. La Provvidenza, che ha chiamato una larga parte dell'umanità a godere della verità, che è la benedizione della religione, ha anche chiamato una larga parte dell'umanità a godere della libertà, che è la benedizione dell'ordine politico - la libertà deve essere religiosa, e la religione deve essere libera". E ancora: "La libertà religiosa non significa il diritto negativo di restare al di fuori di una religione particolare, così come l'autogoverno non significa anarchia. Significa invece il diritto delle comunità religiose alla pratica dei loro doveri, al godimento della loro costituzione e alla protezione della legge, che garantisce imparzialmente a tutte il possesso della loro indipendenza [ ... ]".
Queste citazioni dimostrano che la definizione angloamericana della libertà è peculiare: significa libertà sotto la legge e non libertà dalla legge; significa libertà di fare ciò che dovremmo fare, non libertà di fare ciò che desideriamo. Sotto questo aspetto la libertà, nella concezione angloamericana, è simile alla definizione del buon senso pratico in Aristotele. Per quest'ultimo il giudizio èrecta ratio, una ragione regolata (recta), (diretta da una buona volontà), così come nell'accezione americana la libertà è libertà regolata.
Nei circoli religiosi tradizionalisti l'idea di libertà si scontra con due problemi. In primo luogo, i tradizionalisti confondono la libertà col libertinaggio; non capiscono che nei Paesi capitalisti democratici le leggi sono costruite sul consenso dei cittadini, sicché il rispetto per la legge è elevato, e la libertà è regolata dal diritto, dalla ragione e dalla coscienza; è diffuso il riconoscimento che non si può conseguire libertà senza legge. In secondo luogo, i tradizionalisti pensano che la libertà debba sfociare nel caos. Là dove c'è libertà, dicono, ognuno prenderà una strada diversa, secondo il suo capriccio o perseguendo il proprio crasso interesse senza alcun ordine. A loro modo di vedere, solamente la legge o un leader forte (un caudillo) possono mettere un freno alle volontà altrui, incanalarle e far funzionare le cose.
Può darsi che nelle culture tradizionali le cose stiano così, ma nelle culture che si fondano sui liberi mercati dinamici le attività puramente centrifughe sono autodistruttive. C'è infatti un segreto, nella società libera, che i tradizionalisti non colgono: il libero mercato è una forza centripeta e, là dove è realmente dinamico e si fonda sull'invenzione e sull'innovazione, costringe coloro che vogliono affermarsi in esso a prestare attenzione agli altri, perfino ai loro bisogni e desideri inespressi, alla loro aspirazione al rispetto e alla dignità.
Diversamente da un ordine aristocratico, un ordine basato sul mercato comincia con l'assunzione che tutti coloro che vi accedono sono uguali, che ciascuno ha la sua dignità e merita rispetto. Se mancano questi presupposti, al mercato manca qualcosa e coloro che vi prendono parte se ne lamenteranno a gran voce. L'ideale del mercato è che ogni scambio sia fondato sul pieno consenso di coloro che vi partecipano. Nella situazione ideale non solo le due parti di uno scambio dovrebbero essere soddisfatte, ma, in un certo senso, ciascuna dovrebbe pensare di essere quella che ha fatto un affare (data la diversità dei bisogni immediati e delle situazioni concrete delle due parti). Ciascuna sarebbe contenta di poter fare di nuovo affari con l'altra. E' questo il senso di un assioma comune, "il cliente ha sempre ragione": se si vuole che i clienti tornino, occorre che si congedino con la sensazione che la loro dignità è intatta e pensando di essere soddisfatti.
Pertanto, l'idea più estranea ai tradizionalisti è quella che le persone intelligenti e pratiche, che agiscono liberamente e in nome del proprio buon senso pratico, possano produrre nei loro liberi scambi un ordine spontaneo, una forma di catallassi, superiore in termini di ragionevolezza a qualunque ordine si possa pianificare, indicare o imporre dall'alto. I tradizionalisti sembrano credere che il solo ordine possibile sia quello imposto dall'alto. Nel loro modo di vedere, l'ordine è una costruzione intellettuale che prima nasce nella mente del leader e poi viene promulgata e quindi realizzata.
In una società libera la concezione dell'ordine è del tutto diversa. Quando persone libere si sforzano di essere ragionevoli e di cooperare e cercano di stipulare contratti ragionevoli con i loro simili, questi stessi sforzi danno vita a un ordine sociale molto più ricco di intelligenza e regolato in modo più ingegnoso e raffinato di tutti quelli pianificati e calati dall'alto. L'affermazione che i liberi mercati producono, a certe condizioni, un ordine sociale superiore, dev'essere presa empiricamente; ciò significa che una affermazione di questo tipo sarà vera solo se si mettono a confronto esperimenti sociali estesi e se ne verificano nella realtà le conseguenze attese. I tradizionalisti prevedono che una società libera sarà priva di qualsivoglia ordine. Coloro che credono nella facoltà dei liberi mercati di promuovere un comportamento ragionevole e cooperativo prevedono che i mercati daranno vita a un ordine più dinamico, attraversato da una migliore intelligenza e da una intelligibilità più diffusa e profonda rispetto a tutte le alternative conosciute. Si verifichino le due ipotesi e si vedrà qual è quella giusta.
Se i filosofi e i teologi tradizionalisti vogliono comprendere la realtà di una società libera, dovranno prestare grande attenzione a questo problema. E' davvero possibile un "ordine spontaneo"? Poiché è evidente che un ordine di questo genere esiste, in che modo si è affermato? Quali sono i suoi elementi costituenti? Che cos'è il dinamismo che gli permette di affermarsi? Sarà necessario esaminare a fondo l'ipotesi della catallassi.
A mio giudizio, se la catallassi non è possibile, allora non è possibile una società libera. Se individui dotati di avvedutezza pratica o di prudenza o di previdenza (tre termini che hanno la medesima radice), nel cercare di realizzare il desiderio di comunanza con i propri simili, non riescono a conseguire risultati ragionevoli e cooperativi, allora è vana ogni speranza di società libera.
Ma nella realtà esistono società libere: nessuna lo è in modo perfetto, molte lo sono in misura considerevole. il nostro compito perciò è quello di cercare di capire in modo più approfondito e fin nei dettagli ciò che abbiamo intorno, non già di dar libero corso all'immaginazione e tanto meno sostenere che ciò che è accaduto non può accadere. Chi può negare infatti che in una società libera, in cui non esiste ministero della pianificazione né governo dittatoriale, i telefoni funzionano, ogni giorno escono i giornali, i treni e gli aerei viaggiano, gli uffici aprono e la vita quotidiana è in larga misura ben regolata? In una società di questo tipo molti cittadini si guadagnano da vivere cercando nicchie che corrispondono a servizi utili non ancora forniti o a procedure adottate non ancora rese efficienti, ingegnandosi per colmare queste lacune. Così l'ordine viene lentamente migliorato, provando e riprovando spontaneamente, senza ordini.
L'ordine capitalista democratico non è un ordine statico; nuove invenzioni lo sconvolgono in continuazione. Prima che si affermasse una cultura dell'automobile, c'era una cultura capitalistica democratica dei cavalli e dei carri. Prima che fossero inventati i word processors, esistevano solo le macchine per scrivere, che peraltro costituivano già un grande progresso rispetto alla penna e al calamaio. Prima della rivoluzione elettronica si è avuta una rivoluzione industriale (caratterizzata da pulegge, stantuffi e olio per le macchine), Il fatto sorprendente di una civiltà costruita sulla scelta è che si tratta di una civiltà dotata di straordinario dinamismo.
Per giunta, questo principio del cambiamento sembra presentare una caratteristica affascinante: la direzione del cambiamento non appare casuale, al contrario, esso avviene con buona regolarità nella direzione di un'espressione più pura e più diretta della mente umana. Se la macchina per scrivere sembrava già obbedire alla mente umana, il display elettronico del word processor sembra rifletterla in modo ancor più trasparente. Di fronte allo schermo del computer la mente umana non ha bisogno di fermarsi a pensare per vedere un'espressione di sé. La logica insita nel computer sollecita nuovamente la mente umana a prendere il volo, a immaginare macchine ancor più docili.
Noi siamo giunti al termine della serie di esperimenti sociali volti a costruire un ordine sociale degno della mente e dell'anima umane, però abbiamo scoperto che esistono tre ordini fondamentali di libertà: la libertà politica, la libertà economica e la libertà culturale. Perfino la struttura del ben noto documento del Vaticano Secondo sulla Chiesa e il mondo, Gaudium et Spes, era opportunamente divisa in tre parti, una per ciascuna di queste tre sfere della libertà.
Il fatto piuttosto singolare è che i tentativi del mondo moderno di creare istituzioni che esprimano in modo più compiuto la capacità umana di libertà in tutte e tre le sfere hanno determinato un mondo più interdipendente di quanto sia mai stato. Ancora una volta, possiamo dedurne che la libertà regolata è una forza centripeta: lungi dallo sfociare nell'anarchia, essa porta all'interdipendenza; lungi dal determinare uniformità, alimenta la diversità culturale, tanto che raramente nella storia i movimenti di differenziazione etnica, religiosa, culturale e linguistica sono stati più forti. Di norma essi si esprimono all'interno delle potenti forze centripete dell'interdipendenza, e da queste sono bilanciati. In un certo senso non secondario, il motto di tale mondo potrebbe essere: Et pluribus unum.
E' tempo di concludere. Mi proponevo di dimostrare che libertà economica e libertà religiosa hanno la medesima radice teologica: entrambe vengono conferite simultaneamente a ciascun essere umano dal Creatore, che ha fatto tutti a Sua immagine. Come ha osservato Lord Acton, la storia ha bisogno di molto tempo, di molti tentativi e di molti errori per inventare e mettere alla prova istituzioni pienamente adeguate a esprimere queste tre libertà fondamentali. Ma la Provvidenza, che agisce come il lievito nella pasta, sembra in realtà spingere la storia umana nella direzione di una piena espressione delle tre libertà fondamentali - politica, economica e morale/culturale - in tutte le istituzioni della società civile.
Mi proponevo inoltre di dimostrare che i due grandi campi della filosofia/teologia e dell'economia, che per due secoli hanno condotto le loro ricerche l'uno separatamente dall'altro, oggi si stanno avvicinando. Con la morte del socialismo, è evidente in primo luogo che esiste una sola teoria economica; in secondo luogo, è chiaro che tale teoria è destinata a preoccuparsi in misura maggiore dei problemi della scelta umana, sia pubblica sia privata, e questo è proprio il terreno privilegiato dei filosofi e dei teologi.
Si può pertanto pensare che nel secolo XXI i filosofi e i teologi perverranno a una conoscenza dell'economia assai più raffinata di quella che hanno al giorno d'oggi. Si può inoltre prevedere che gli economisti acquisiranno una capacità ben superiore di elaborare categorie umanitarie -filosofiche e teologiche - adeguate ai fenomeni complessi della scelta umana che cercano di interpretare. Fondamentalmente, il soggetto centrale sia dell'economia sia della filosofia/teologia è l'essere umano e la comunità umana, nella loro creatività e nel loro reciproco sostenersi.
Nel secolo XXI, le discipline dell'economia e della meditazione religiosa convergeranno.


Cento anni dalla "Rerum Novarum"

E Leone XIII uscì dal ghetto

Nel maggio scorso si sono celebrati i cento anni della Rerum Novarum, pubblicata da Leone XIII. Il vero nome del documento era "De condicione opificum", ma è finito nell'oblio. Hanno prevalso, più che l'argomento dei testo, (la condizione operaia), quelle due prime parole che valgono un manifesto e un programma. In effetti, le cose nuove di cui parlava il Papa un secolo fa sono certamente le trasformazioni in atto nella società, nella cultura, nella politica. Ma la vera novità è rappresentata dall'atteggiamento della Chiesa: una svolta nei confronti del mondo moderno. Dopo gli anni delle scomuniche e degli anatemi, la Chiesa cattolica sceglie la via della comprensione e dei dialogo. Prende le mosse allora quel lungo e faticoso cammino pastorale destinato ad animare le vicende della comunità ecclesiale e della vita civile.
In cento anni è un susseguirsi di documenti che mettono progressivamente a punto il pensiero sociale della Chiesa, da quelli che ritengono ancora possibile una società cristiana e prospettano una sorto di terza via tra capitalismo e socialismo (basti pensare alla Quadrigesimo Anno, di Pio XI, nel 1931), sino alle espressioni a noi più vicine per mentalità, cultura, approccio: la Mater et Magistra (1961), e la Pacem in Terris (1963) di Giovanni XXIII. Sono gli anni del Concilio, della Chiesa che guarda "con gioia e speranza" al mondo, che recupera il proprio ruolo di "Evangeli nuntiandi".
Da dottrina sociale, magari come sistema ideologico, l'insegnamento sociale diviene un momento dell'evangelizzazione, un modo di andare incontro agli uomini, a tutti gli uomini. Al metodo deduttivo si sostituisce quello che parte dalla realtà, dai problemi della gente, dalle profonde trasformazioni sociali. Sulla frontiera del vivere sono misurate le proposte che Bibbia e Vangelo suggeriscono.
Gli interventi dei magistero ricorrono al supporto delle scienze economiche e sociali per consentire ai pastori di comprendere meglio le dinamiche.
Al contributo di tecnici e di studiosi ricorrono non solo il Papa, ma anche le conferenze episcopali. Se vuole parlare con il mondo, la Chiesa deve apprenderne il linguaggio, la capacità di lettura, il senso di marcia, ricorrere all'apporto specifico e qualificato dei fedeli laici, riconoscere e valorizzare l'autonomia delle realtà terrene, delle leggi specifiche di ogni singola materia. Ma il magistero ecclesiale non si limita ad attingere conoscenze. Papi e vescovi da tempo stimolano le singole scienze ad affrontare sempre più coraggiosamente i nodi irrisolti dello sviluppo dei popoli, a farsi strumento di approfondimento e quindi di liberazione.
L'intervento dei magistero non è dunque pacifico. Non è una novità, stando al Vangelo. L'insegnamento sociale si muove quotidianamente tra Scilla e Cariddi.
Dall'interno dello stesso mondo cattolico c'è chi ne contesta un rischio: che la Chiesa finisca nel novero dei propugnatori di riforme sociali e che prevalga quindi un messaggio sostanzialmente terreno. Da parte laica è sempre viva la reattività di fronte a una presunta ingerenza ecclesiale nelle vicende dei mondo.
Rispetto ai suoi predecessori, con la Laborem Exercens (1981) e con la Sollecitudo Rei Socialis (1987), Giovanni Paolo Il ha scelto una strada ardua: entrare nel merito delle scelte (come i recenti interventi sulla pace), con il rischio di una lettura politica, e insieme rilanciare una concezione dell'uomo ben diverso dall'Homo Oeconomicus che sembra prevalere oggi. Le cose nuove secondo Papa Wojtyla, insomma, dopo cento anni, non sembrano più la fabbrica o il mercato, il socialismo o il capitalismo, ma i valori religiosi. Insomma, cose antiche.


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