§ Chiesa e redenzione sociale

Beati saranno i poveri




Sergio Zavoli



La speranza pasquale, fondata sulla promessa della redenzione, pone degli interrogativi di natura laica e storica - non solo personale, ma anche antropologica - a chiunque voglia interrogarsi sul rapporto con l'interiorità. A questo dialogo non può rimanere estranea, ovviamente, la Chiesa. E' vero che l'uomo d'oggi va liberandosi dalla paura della propria anima? Forse c'è qualcosa, nella fede, che sta regolando vecchi conti con il pensiero dell'uomo. Con Dio, l'orgoglio delle proprie certezze; con tutti, il modo in cui garantisce la salvezza.
Possiamo allora sperare in una Chiesa profondamente rinnovata nella sua testimonianza? Cioè in una Chiesa che non lotti per far pesare le ragioni dell'infallibilità su quelle del servizio, attenta ai segni dei tempi come a occasioni per leggervi il segno della perdizione oltre che della salvezza? Che non soltanto s'inchini al povero, allargandogli le braccia, ma sia essa stessa povera? Che prenda sulle proprie spalle, come peccato anche suo, la condizione di quanti non hanno né pane, né casa, né diritto o hanno tutto ciò al di là dei lecito? Oppure l'uomo sarà costretto a cercare Cristo a suo rischio, fuori dalle chiese, in una patria dell'anima senza insegne e confini? Che cosa volle dire Cristo quando confidò a una bellissima donna di Samaria: "Verrà giorno, o donna. nel quale adorerete Dio non nei templi di pietra, ma dentro di voi in spirito e verità"? Forse c'è una risposta nel Vangelo, là dove dice: "E' necessario perdere la propria anima per salvarla"?
Per una Chiesa che ha alle spalle venti secoli di storia e tanta venerazione, l'invito a "perdersi" costituisce davvero un inutile scontro con la sua "saggezza"? Eppure questo invito al rischio è carico di promesse. La Chiesa non dovrà gettarsi nelle acque senza aver paura di affondare e rendersi conto che il mondo di oggi è in subbuglio anche per sua colpa? Non dovrà altresì proclamare che il ridurre la liberazione dei poveri annunciata dal Vangelo alla sola dimensione spirituale resta al di qua della pienezza cristiana, perché dimentica l'unità spirituale-corporale dell'uomo, così chiara nel messaggio evangelico?
Nella "Pacem in Terris" Giovanni XXIII auspicava una "comunità mondiale nella quale tutti i membri siano soggetti consapevoli dei propri doveri e dei propri diritti, operanti in rapporto di uguaglianza nell'attuazione dei bene comune universale". Paolo VI, nella "Populorum Progressio", riconosce a suo volta che "bisogna affrettarsi: troppi uomini soffrono e aumenta la distanza che separa il progresso degli uni e la stagnazione, se non pur anche la regressione, degli altri [ ... ]. Lo sviluppo esige delle trasformazioni audaci, profondamente innovatrici". E Giovanni Paolo II, parlando ai pellegrini di Pasqua, dice: "Oggi abbiamo bisogno del rinnovamento dell'uomo per una più equa distribuzione delle ricchezze del mondo".
Esso, d'altronde, sta sperimentando non un normale passaggio di generazione, ma un trapasso di epoca; non un travaglio di questa o quella ideologia e confessione, ma un mutamento globale, un coinvolgimento planetario, una compromissione totalmente ecumenica. Mentre nell'Occidente -segnato dalle sue leggi, dal suo denaro, dalla tecnica immensa del suo benessere, ma anche dalle sue crescenti contraddizioni - nuove coscienze cercano un salvatore che ha anche il nome di Cristo, ad altri popoli sembra passata la mano della storia e la primogenitura dei Padre. La Chiesa può trovare scopi rinnovati ovunque: fra gli uomini alienati dall'opulenza e là dove la profezia si confonde con l'urlo della fame.
Se si è potuto dire fra i cristiani che l'opulenza fabbrica i poveri, è sulla terra bruciata da questa insopportabile logica che la Chiesa deve rivolgere il suo magistero, consapevole che i poveri non sono stati creati dalla vita, ma dal nostro egoismo. S'impone, così, il passaggio dalla strategia delle verità catechistiche alla strategia dell'amore senza codici. Lo stesso Jean Danielou, pur affermando che riguardano la parte più intimo e vitale della nostra esistenza, dice che "troppo spesso i dogmi cristiani, la Trinità, l'Incarnazione, la Redenzione (qualche volta mi dispiace dover usare questi vocaboli perché rischiano di mascherare le cose) ci possono apparire come verità più o meno astratte, che non riguardano direttamente la nostra vita".
Allora? Quale deficit va colmato? Occorrono amore e rispetto per la coscienza dell'uomo, per la sua inviolabile libertà, per gli spazi creativi dei suo pensiero, della sua fantasia e dei suo gusto di tentare. E occorre dare ascolto alla voce dell'uomo, ma anche al suo silenzio. Ciò significa una fede che possa gridare "beati i poveri nello spirito" senza parlare al vento, senza fare della poesia, senza insinuare strettoie teologiche consunte dalla storia. Quel che resta è la provocazione di Cristo: "Prendi la tua croce e seguimi", "Lascia tuo padre e tua madre e vieni con me", "Non puoi amare Dio e la potenza: scegli". Sono scelte che mortificano e sollecitano, affascinano e inquietano. In nome della tranquillità bisognerebbe eliminarle, ma non è facile. Per molti è impossibile.
Dio e l'uomo, così, continuano a confrontarsi su un terreno privilegiato, la libertà, evitando il dilemma delle rispettive "competenze". L'uomo si inoltra nel suo destino come se gli pesasse addosso il passato e il futuro, come se fosse non solo tutto ciò che è, ma anche tutto ciò che vorrebbe essere, che non è, che non riesce ad essere. Nello stesso tempo è una libera creatura, mai come oggi impegnata a sottrarre la sua esistenza agli umori dei destino e a liberarla persino dal "peso di Dio". Rifiuterà, col tempo, lo scontro fra accettazione e diniego? Per accettare che cosa? Solo se stesso? In ogni caso dovrà restare un uomo, e per questo sa di non avere altra risorsa che la logica della sua libertà, anche quando essa prende il nome di Dio.
Il problema è di sapere se questa risorsa ha un limite. Nell'assumersi tutta la sua libertà, infatti, l'uomo intuisce di dover sopportare anche un'uguale responsabilità. Ma mentre verso la libertà sembra disposto naturalmente, appare restio e disorientato di fronte al peso del diritto-dovere di cui questa libertà necessariamente lo carica. Da sempre aveva lasciato alla volontà di Dio gran parte di ciò che lo riguardava. nel bene e nel male. sulla Terra; ora va convincendosi che di tutto quanto gli accade il primo responsabile è lui.
I più giovani, soprattutto, aspirano a questa responsabilità; sentono che l'uomo dovrà tutto gestire come se tutto dipendesse esclusivamente da lui. Perciò ogni rifiuto di libertà, ogni delega, ogni ambiguità - nella scienza, nella filosofia. nella religione stessa - si configura come un tentativo di fuga dal reale.
Certo, dietro la morte c'è l'ombra immensa di Cristo, ci sono la croce e la speranza. Ma c'è anche il suo rifiuto della morte. Non ha ripetuto papa Giovanni che "siamo nati per vivere e non per morire"? Non è la vita l'idea di Dio? Allora andrebbe detto, prima di cercare il senso della morte, qual è il senso della vita. Non si può educare a morire se prima non si afferma che la morte non va affatto scontata vivendo. Per chi è vissuto fuori dei tempo, nei suoi dolori muti, mai chiamato per amore, mai persuaso di sé e perciò mai incline a una certezza, cos'è la fine se non il panno nero che si prende un uomo separandolo da quella complicità con la vita che i poveri debbono pur stabilire dentro la loro storia per essere almeno "la società dei dolore", come la chiamava Tolstoi?
La morte povera non può trovare consolazione, specie per gli intimiditi nello spirito, con l'ottimismo pasquale. Per una vita vissuta come in un sepolcro, la lama di luce che vi entrerà è una speranza che non può annullare del tutto il conto della violenza patita, dell'identità negata. Bisogna pur credere a una speranza che passa attraverso la storia e paga questo conto. Può essere mai a dispetto di Dio la speranza di adesso, di subito? Di riscattare qui, già qui, la sorte dell'uomo? La fede non dovrà dire più spesso liberare che redimere? Non è un tempo privilegiato per l'umanità questo in cui il valore sacro della speranza che l'uomo riscopre è l'uomo stesso? In ogni caso, "due pericoli mortali minacciano l'uomo: la disperazione e la speranza senza fondamento". Sono parole di Sant'Agostino.

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