§ L'insegnamento di Einaudi

Italiani contate su voi stessi




Carlo Azeglio Ciampi



Sul piano istituzionale, si deve muovere dalla sottolineatura forte, che Einaudi ripetutamente traccio, dei limiti da porre alla presenza, al ruolo, all'ingerenza dello Stato nell'economia e nella società. Si trattava di un richiamo non astratto né preconcetto, per certi versi più empirico che teorico, a cui nuove motivazioni critiche aveva aggiunto l'esperienza di economia corporativa voluta dal fascismo. Al tempo stesso non vi è mai in Einaudi l'accettazione acritica del laissez faire, il rifiuto della politica economica, la rinuncia alla responsabilità primaria dello Stato di fissare principii e regole, di farsi carico dell'andamento generale dell'economia e della società. Si intitolava Riforma sociale la grande rivista, che ereditò da Luigi Roux e da Francesco Saverio Nitti nel 1902, alla quale dedicò assidue Cure fino a quando la testata non venne sospesa con decreto prefettizio nel 1935.
Una società che egli voleva, in primo luogo, articolata al suo interno. Nella sfera economica, il presupposto basilare era nella concorrenza. E' di George Stigler, premio Nobel per l'economia nel 1982, l'affermazione secondo cui "il senso ultimo della concorrenza è nell'evitare la concentrazione del potere", economico, ma non solo economico. Parole simili a quelle di Einaudi, che individuava nella negazione della concorrenza, nel monopolio, "il danno supremo dell'economia moderna", l'origine più profonda e vera dei mali sociali.
Chiara doveva essere per lui, quindi, la gerarchia, la scansione delle norme, delle competenze. Fissati i principii, e solo quelli, nella Carta Costituzionale, spetta alla legislazione ordinaria di risolvere i problemi economici che la società avverte come importanti. La quotidiana gestione va lasciata agli amministratori, pubblici e privati. La politica deve rispettare la Pubblica Amministrazione, una volta stabilite le direttrici di fondo.
Grandissimo giornalista - de La Stampa, del Corriere della Sera, dell'Economist - diede prova concreta, fece magistero, della funzione che una informazione chiara, essenziale, fondata sulla cultura e sulla competenza specifica nella materia trattata, è chiamata a svolgere in una società pluralistica, dove opera il vaglio di un'opinione pubblica consapevole.
In una società siffatta, "non esistono mezzi taumaturgici"; nulla è dovuto al fato. La composizione di interessi anche confliggenti può avvenire, per il bene comune, se i cittadini hanno precisa certezza dei costi e dei benefici in gioco. Lo stesso miracolo del risanamento monetario dell'Italia postbellica, allorché l'inflazione correva ai ritmi del cento per cento l'anno e oltre, potrà attuarsi, Einaudi ebbe a dire nel suo discorso di insediamento nella carica di Governatore, se vi sarà la volontà di usare "l'unico mezzo noto ed efficace, pur nel contrasto necessario delle idee, la vicendevole sopportazione in compromessi chiari precisi ed osservati, i quali consentano l'attuazione di un comune programma d'azione".
Un atto di volontà, fondato sulla consapevolezza dei termini del problema che solo un'informazione obiettiva, un'analisi attenta possono dare: conoscenza e volizione, il loro concatenarsi e fondersi nel libero realizzarsi dell'attività dei cittadini, come singoli e come collettività, è quanto si richiede, allora come oggi, alla società italiana per la soluzione delle diverse questioni che il volgere dei tempi le pone dinnanzi.
L'inflazione era per Einaudi un elemento disgregatore della società. La sua monografia sull'inflazione in Italia durante il primo conflitto mondiale, nella quale ampio spazio veniva dato alla descrizione delle privazioni subite dalle classi medie, ha aperto prospettive di analisi storico-sociali sulle origini del fascismo che meriterebbero tuttora di essere approfondite. Con questo libro di Einaudi, con l'altro di Bresciani Turroni sulla Germania di Weimar, la letteratura economica italiana ha prodotto due fra i capolavori dell'analisi e della storiografia dell'inflazione.
L'inflazione, il primo dei mali, è da ultimo legato alla troppa moneta. Einaudi segue un filone di teoria quantitativa qualificata, con molti "dipende" che attenuano la rigidezza del legame fra "M" e "P". Egli segnala con forza la indispensabilità del controllo della quantità di moneta da parte della Banca Centrale. Il controllo monetario dipende crucialmente dagli assetti istituzionali, dalla "costituzione monetaria". Dipende anche dalla tenacia degli uomini a cui è affidato. L'apporto del Governatore Einaudi è stato determinante per affermare, dal dopoguerra, l'autonomia della Banca d'Italia.
Tuttavia, Einaudi non avrebbe aderito alla versione estrema assunta dal monetarismo nel suo ritorno di fiamma fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Era troppo consapevole della complessità dei fattori in gioco, delle interazioni fra essi, della sinergia degli strumenti di politica economica necessaria ad assicurare prezzi stabili. In questo era quanto di meno "monetarista" si possa pensare. Da cultore della scienza delle finanze, annetteva primaria importanza, fra i fattori non monetari dell'inflazione, alla "repugnanza alle imposte" presso cittadini e governanti: quindi alla difficoltà di coprire nuova spesa pubblica con nuove entrate fiscali.
Del pragmatismo di Einaudi molto si è detto e scritto. L'interpretazione più semplice è che egli muoveva da pochi, fermissimi principii; rispettati quei principii, aveva ragione Piero Gobetti nel notare che "il centro del pensiero einaudiano consiste in un intimo asetticismo verso tutte le formule (anche le proprie)", e nella "fiducia nella inesauribile attività degli uomini".
La natura, il pregio del suo pragmatismo si esprimono in modo quanto mai chiaro nel terzo campo a cui intendo brevemente riferirmi, quello bancario.
I principii erano fondamentalmente quattro: banche come imprese; autonomia delle banche; concorrenza fra le banche; una vigilanza accorta, non asfissiante, unita al credito di ultima istanza.
Poche, brevi citazioni rendono manifesto il suo pensiero. La premessa di metodo era che "non si possono enunciare dogmi in questa materia, che non è di teoria pura, ma di contingenza concreta".
Affinché le banche restino imprese e possano svolgere la loro funzione preziosa di allocazione delle risorse, vanno evitati due rischi: che esse "debbano pagare tagli alla politica", o all'industria, secondo un "esclusivismo" di rapporti fra l'industriale e la banca che "non è vantaggioso né per l'uno né per l'altro".
Banche in competizione fra loro, sottoposte nella ricerca dell'efficienza "ai fattori della lotta, della rivalità, della concorrenza [ .. ], del non sperare mai di accollare le conseguenze dei propri errori ad altri, al pubblico, ai contribuenti". Sulla base di una nozione lucida dei costi del garantismo e del connesso moral hazard, Einaudi, che aveva letto Thornton, che aveva splendidamente tradotto Bagehot, chiudeva lo schema con la diade vigilanza-credito di ultima istanza, chiamata a conciliare efficienza e stabilità sistemica, a sostenere le banche illiquide distinguendole da quelle insolventi.
La linea sottile che talora divide illiquidità e insolvenza era un motivo in più per improntare i rapporti tra Banca Centrale e sistema bancario al principio del fuge rumores, agli interventi discreti, piuttosto che a rigide regolamentazioni e a misure con forti effetti d'annuncio: "Le bombe improvvise scompaginano posizioni esistenti, arricchiscono gli uni e sacrificano gli altri. Un piccolo modesto prudenziale giro di vite a saggi di riporto, una piccola percentuale di maggiore scarto nei riporti medesimi [ .. ] non producono nessuno sconquasso e raggiungono effetti duraturi. [ .. ]. Alle misure clamorose si sostituisce così l'attuazione silenziosa di una politica precisa".
E' Menichella a ricordare come Einaudi, assunta, con la nomina a Governatore, la direzione di un settore importante della "romana burocrazia", "pensò", come mi disse poi, che questa benedetta faccenda del controllo in fondo "era una questione di dosaggio, di indirizzo, ma non di invadenza, di rigorosa distinzione di funzioni e non di sostituzione del controllore al controllato".
Dopo questi sommari richiami al pensiero e all'opera di Luigi Einaudi - nei quali sul rigore scientifico fa probabilmente premio lo stato d'animo di chi, responsabile di quello stesso Istituto affidato nell'immediato dopoguerra a così sagge mani, trae beneficio del segno che quella presenza seppe imprimere - va respinta la tentazione di un facile passaggio ai problemi dell'oggi.
Non potrei, d'altra parte, che ripetere considerazioni già svolte. Preferisco concludere, facendo ancora una volta parlare Einaudi: "E' necessario che gli italiani non credano di dover la salvezza a nessun altro, fuorché a se stessi [ .. ]. Basta un atto di volontà".

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