§ Italia a due velocitą

Repubblica del Nord feudi del Sud




Maria Rosaria Pascali



L'economia italiana avanza ad una duplice velocità. Corre il Nord, dove si concentrano i più alti tassi di crescita del Prodotto interno lordo. Nel Sud, invece, la crescita economica si ridimensiona e spesso, questa parte del Paese, assume tutti i caratteri del sottosviluppo. Permane, quindi, il carattere duale del nostro sistema. E non c'è alcun segnale che faccia sperare in un'inversione di tendenza. Anzi. Il Nord è sempre più opulento; il Sud sempre più povero. E' quanto emerge dal Rapporto annuale sul reddito per il 1989, redatto dall'Istituto Tagliacarne (Centro di ricerca dell'Unioncamere).
Dalla graduatoria delle province più ricche del Paese risulta, infatti, che le prime dieci a più alto reddito procapite sono settentrionali, con Mantova in testa, seguita da Cremona, Milano, Bologna, Trieste, Varese, Vercelli, Bergamo, Modena e Brescia. Le ultime dieci, invece, sono tutte meridionali, con Agrigento come fanalino di coda e poi, risalendo la graduatoria, Enna, Reggio Calabria, Potenza, Catanzaro, Cosenza, Oristano, Lecce, Napoli, Nuoro. In fondo, sono le stesse presenze che si contavano nel 1980, con l'eccezione di Napoli e di Lecce, allora sostituite da Benevento e Avellino. La differenza che corre tra la provincia più ricca e quella più povera è di ben 17 milioni di lire in reddito pro capite: mentre a Mantova si guadagnano quasi 26 milioni e mezzo a testa ogni anno, nella Valle dei Templi la cifra scende al di sotto della metà, cioè a 9 milioni e ottocentomila lire.
Con Mantova, che Bossi ha proposto come capitale della "Repubblica del Nord", trionfa tutta la Lombardia. Sono sei le province lombarde presenti nella graduatoria delle più ricche. Un dato che sembra smentire i sostenitori della Lega quando dicono di essere stati dimenticati dallo Stato.
Un Nord vittorioso, dunque. Ma non mancano le sorprese. L'Emilia Romagna perde posizioni: Modena, prima nel 1980, scende al nono posto; Reggio Emilia e Parma escono dalla graduatoria; Ferrara cala dal diciannovesimo al trentanovesimo posto. Solo Bologna conserva la quarta posizione, che ormai detiene da anni.
Il modello emiliano, che ha imperato per tutti gli anni '70 e '80, è entrato dunque in crisi. In effetti, dopo il processo di ristrutturazione industriale della prima metà degli anni '80, regioni come la Lombardia, il Piemonte, ma anche il Veneto, sono cresciute ad un saggio molto più veloce di quello emiliano, grazie soprattutto all'espansione dei servizi. Per contro, l'industria emiliano-romagnola ha perso competitività, con costi di produzione e di lavoro sempre più elevati.
Altra provincia esclusa dalle prime posizioni è Aosta, sesta nel 1980; oggi solo dodicesima.


In Toscana, Arezzo supera Firenze (trentaquattresima), assestandosi al ventinovesimo posto, mentre Pistoia, Siena e Livorno continuano a scendere. Passando all'Italia Nord-orientale, si assiste ad una crescita, sia pure limitata, del Veneto e del Friuli-Venezia Giulia. Nel Veneto, Belluno, Padova, Verona e Vicenza guadagnano terreno rispetto all'area di Rovigo, Treviso e Venezia. Addirittura Venezia risulta, a sorpresa, la più povera del Nord, collocandosi al 31° posto. Nel Friuli, Trieste e Gorizia scavalcano Udine e Pordenone. Proprio Trieste diventa la novità dell'anno: per lungo tempo in crisi, oggi dimostra una notevole ripresa, balzando dal diciottesimo al quinto posto nella graduatoria delle province a più alto reddito pro capite. Una ripresa che può avere dell'incredibile se non la si riconnette allo sviluppo del credito e delle assicurazioni dominante in provincia.
Fra le regioni centrali, il Lazio occupa la posizione migliore: un tempo ultimo di quest'area, oggi passa al primo posto, con un prodotto per abitante assai vicino a quello dell'Italia settentrionale. Roma domina la scena, passando dal 57° al 30° posto, con un reddito che per il 45% risulta prodotto dai servizi privati diversi dal commercio, alberghi e pubblici servizi.
Ma al Centro si fermano le novità positive. Scendendo più giù, il quadro è sconfortante. Ad andare male è tutto il Sud. La spaccatura fra le due parti del Paese, infatti, è netta. Il reddito meridionale, che nel 1980 era solo il 67,8% di quello medio italiano, nel 1989 scende ulteriormente al 66,7%. Alle province meridionali spettano, inoltre, le ultime trentadue posizioni della classifica dei redditi. Si staccano dal fondo solo due province, entrambe abruzzesi: L'Aquila che, nonostante occupi la cinquantacinquesima posizione, è considerata la più ricca del Sud, e Teramo, sessantaduesima.
Dopo Agrigento, che conserva il triste primato di provincia più povera del Paese, già detenuto nell'80, è la volta di Enna, che perde due posizioni rispetto a dieci anni fa. Reggio Calabria, invece, penultima fino al 1988, conquista una posizione. Ma i dati più significativi ci vengono dalle due nuove entrate nella classifica delle più povere: Lecce e Napoli che, abbiamo visto, sostituiscono la fuoriuscita di Avellino e di Benevento.
La caduta della provincia di Lecce è espressione di una crisi che ha colpito tutta la Puglia, in passato regione modello di sviluppo del Sud. Infatti, eccetto Bari che realizza un recupero di cinque posizioni, tutte le altre province pugliesi marciano in discesa.
Dal canto suo, anche Napoli ha registrato un pessimo risultato. Dal rapporto si legge che "il reddito per abitante è meno del 64% del valore medio nazionale ed il 46% di quello della provincia di Mantova".
E può sembrare strano che al Sud lo scatto migliore sia proprio quello di una provincia limitrofa a Napoli, ossia di Avellino. Oltre ad essere una delle poche province in cui, negli ultimi dieci anni, è aumentata la quota dell'industria (4,9%), Avellino è anche una provincia che è riuscita a compiere un salto di quattordici posizioni nella graduatoria del prodotto pro capite, salendo dal 90° al 76° posto.
Ancora, a livello regionale, la qualifica di gambero spetta alla Basilicata: Matera perde 19 posizioni, precipitando dal 65° posto all'84° posto. Potenza ne perde quattro e diventa novantaduesima. Più povera della Basilicata, oggi, è solo la Calabria, con un reddito pro capite di 12 milioni 116 mila lire. Anche la Sicilia è riuscita a superarla (14 milioni 334 mila a testa). In effetti, tutte e tre le province calabresi rientrano nella graduatoria delle ultime dieci: Cosenza al novantesimo posto, Catanzaro al novantunesimo, Reggio Calabria al novantatreesimo.
E' l'Italia che non cambia. Comunque, un'Italia complessivamente in stallo. Con un processo di deindustrializzazione che dura ormai da un decennio e che ha comportato un drastico ridimensionamento del prodotto interno lordo.
Le imprese stanno attraversando una fase di crescita zero: le nuove entrate non superano per entità quelle costrette a chiudere. Nel -corso dell'ultimo decennio, la quota dell'industria sulla produzione totale è scesa in media del 5,4%. Nel 1989, solo in 14 province l'incidenza del prodotto industriale sul prodotto interno lordo continua a superare il 40%. Si tratta delle province di Asti, Novara, Torino, Vercelli, Bergamo, Brescia, Corno, Varese, Treviso, Vicenza (che detiene la percentuale più alta, pari al 51,8%), Bologna, Reggio Emilia, Arezzo.
Il Mezzogiorno, che pure era presente nella classifica dell'80 con le province di Taranto, Latina e Frosinone, è pressoché assente nell'attuale graduatoria.
D'altro canto, solo in sette province la produzione industriale ha aumentato il suo peso nella formazione del prodotto interno lordo: nelle province, cioè, di Avellino, Asti, Caltanissetta, Catania, Vercelli, Ragusa e Rovigo. Mentre a Milano, Terni, Brescia, Grosseto, Udine, Massa Carrara e Livorno, l'incidenza del reddito industriale sul reddito totale si è ridotta rispetto all'80 di oltre il 10%.
Si ridimensiona, inoltre, il saggio di crescita del Pil, che nel 1990 non supera il 2%, contro il 3,2% del 1989 e il 4,2% del 1988.
L'impulso più forte allo sviluppo del Paese è dato dall'Italia nord-orientale, dove comunque non mancano, come abbiamo visto, situazioni differenziate: così, il saggio di crescita, che in Lombardia è del 3% e in Trentino del 2,8%, in Piemonte è solo dello 0,6%.
Nel Sud, la crescita è ancora più modesta, di poco superiore all'1%. Ma in Puglia è pari allo 0,6%, mentre in Calabria assume il valore negativo del -1,4%.
A fronte del processo di deindustrializzazione, sta un notevole sviluppo del terziario e, soprattutto, del terziario avanzato. Si osservi che l'ascesa dei servizi ha toccato tutto il Paese, ma ne ha premiato solo alcune parti, in particolare il Nord. Il primo posto, comunque, spetta a Roma, dove il 61,6% del prodotto deriva da questo settore. D'altra parte, proprio il boom dei servizi spiega la magica ascesa di città in continua crisi economica, come Trieste e Avellino.

"Le Capitali del benessere"
Sono 25 le città d'Italia dove si vive meglio. Il Censis le ha denominate "piccole Capitali" o "Peonie" del benessere. E, in effetti, sono dei veri e propri piccoli paradisi, nei quali sembrano lontani i problemi economico-sociali che attanagliano il resto del Paese. Eccone la mappa: Bologna, Padova, Cremona, Pavia, Bolzano, Viterbo, Aosta, Pisa, Trento, Sondrio, Macerata, Siena, Brescia, Treviso, Lecco, Vicenza, Biella, Pordenone, Reggio Emilia, Udine, Varese, Corno, Vercelli, Mantova e Bergamo. E' facile notare che, tranne Macerata e Viterbo, sono tutte province situate al Nord, soprattutto nella Padania, che detiene il primato incontrastato della vivibilità.
Pur essendo città di media grandezza, esse non hanno nulla da invidiare ai grandi centri urbani. Anzi, si collocano al primo posto nella classifica della qualità della vita sia rispetto alle metropoli internazionali di Roma e di Milano sia alle altre quattro categorie di comuni esistenti in Italia: le "città metropolitane", ossia con un'area metropolitana, come Torino, Firenze, Genova, Venezia, Empoli, Bari, Catania, Monza, Palermo e Cagliari; le "standard", tra cui Modena, Lodi e Perugia; le "emergenti", come Latina, Cosenza e Oristano; e, infine, le "città della crisi", che vantano un passato di relativo benessere, ma che oggi sono in continua decadenza.
Per quanto riguarda quest'ultima categoria, si può osservare che essa comprende tutte città del Meridione, in particolare della Sicilia (ben sette, quindi il 40%, appartengono a questa regione). Più precisamente, si tratta delle città di Terni, Messina, Taranto, Sassari, Ragusa, Crotone, Torre del Greco, Massa Carrara, Caltanissetta, Trapani, Enna, Agrigento, Vibo Valentia, Matera, Siracusa, Reggio Calabria, Foggia e Brindisi.
Rispetto alle varie categorie di città ora menzionate, le venticinque "sorelle" dimostrano un notevole sviluppo di potenzialità, che le fa divenire le città in cui "si sta meglio in assoluto" e in cui varrebbe davvero la pena di trasferirsi.


Innanzitutto, esse hanno un reddito medio annuo pro capite di 20 milioni di lire, superiore, quindi, non solo alla media nazionale, che è di 16 milioni e 300 mila, ma anche a quello delle grandi metropoli di Roma e di Milano, che vantano il più modesto reddito medio di 18 milioni e 600 mila lire per abitante. Ma non c'è solo maggior guadagno. Ci sono anche maggiori investimenti. In ognuno di questi centri, sono presenti 76 operatori economici ogni mille abitanti, mentre nelle grandi metropoli sono solo 71 e 42 nelle "città della crisi".
Sempre in queste "Peonie", inoltre, è molto più semplice trovare casa: nel 190, sono stati stipulati 25 nuovi contratti ogni mille abitanti, contro i 15,9 della media nazionale.
Dal benessere materiale al benessere sociale: se si scende nel cuore della qualità della vita, quindi dei servizi offerti al cittadino, il discorso non cambia. Gli ospedali "esistono" e offrono adeguate garanzie, con una media di 11,4 posti letto ogni mille abitanti: media insidiata solo dalle "città emergenti", che ne vantano 10,5.
Infine, le venticinque sono piene di biblioteche, di librerie e di musei. Abbondano anche i divertimenti: in esse si contano ben nove cinema ogni centomila abitanti, contro i quattro delle "metropoli internazionali" e i sette delle "città standard".

Ma il Sud è cicala?

Benessere senza sviluppo

E sono venute fuori le solite accuse: questi meridionali hanno proprio deciso di farsi mantenere dalla collettività nazionale. Si mangiano quasi tutto quello che guadagnano. E nessuno che si domandi che cosa significhi veramente la tabella diffusa dall'Istituto Tagliacarne. Che si interroghi sul perché siano dodici province meridionali (sei delle quali siciliane) a guidare la graduatoria delle aree dove la maggior parte dei reddito èdedicata ai consumi e la minore ai risparmi. Che si faccia sfiorare dal dubbio che ci può pure essere chi fa la cicala per forza e non per vocazione, che risparmia poco perché guadagna poco e di quel che riesce a portare a casa non resta molto da mettere da parte.
Senza togliere alcun merito alla sagacia dei ricercatori dei benemerito Istituto, i loro dati rappresentano solo una conferma, preziosa quanto si vuole ma sempre una conferma, di quanto già si sapeva. L'importante è che il reddito pro capite prodotto nel Mezzogiorno continui, nonostante tutti gli sforzi profusi in quarant'anni, a rimanere inferiore dei 60 per cento a quello dei Centro-Nord. Poco cambia se poi i meridionali finiscono per godere di un reddito più alto di questo 60 per cento, giacché non è una novità il fatto che una parte delle risorse impiegate ai Sud (tanto per i consumi, tanto per gli investimenti) provenga dal di fuori. Fornita dallo Stato o dai privati: industriali che investono a sud dei Garigliano, emigrati che mandano soldi ai parenti rimasti a casa.
Ciò non rappresenta certo uno scandalo. ma è solo la conseguenza di una politica di sviluppo che si risolve sempre in un trasferimento di risorse. il guaio è che, come ha già detto il Censis, nei Mezzogiorno c'è magari benessere (e anche il "Tagliacarne" lo conferma), ma non c'è sviluppo.
Ed è questo il nocciolo dei problema, al di là delle prediche sui troppi soldi dati al Sud, oltre tutto non corrispondenti al vero. in quanto la spesa pubblica pro capite è in quelle regioni più bassa che nel resto dei Paese. E anche al di 16 della disputa sulla nostra posizione nella graduatoria dei Paesi industrializzati, che sale o scende a seconda delle stagioni.
Non si tratta di sottovalutare il sorpasso effettuato, o subito, nei confronti della Gran Bretagna, ma dei modo come si occupa il posto che ci spetta o che ci viene assegnato. E il più degno per occuparlo è senza dubbio quello dei raggiungimento dell'unità economica, centotrentanni dopo quella politica.
Questo traguardo non si raggiunge se non si eliminano prima gli intoppi che ne hanno impedito il conseguimento. Anzitutto con una politica economica generale in contrasto con quella intrapresa nel Mezzogiorno. Per cui al Sud si toglieva con la sinistra ciò che si dava con la destra, in una singolare interpretazione del comandamento evangelico.

Paradossi economici

Un Nord e un Sud anche nel risparmio

La provincia più ricca: Milano. Quella più povera: Enna. La più prodiga: Ragusa. Le regine dei risparmio: Aosta e Campobasso. Chi consuma di più: Bologna. Chi consuma di meno: Catanzaro. Tra formiche e cicale, si sviluppa la geografia economica del Bel Paese., che rivela contraddizioni e paradossi. E' l'Istituto Guglielmo Tagliacarne, Centro Studi delle Camere di Commercio, ad aver compilato queste insolite classifiche, che fotografano le province italiane. Forti le differenze tra Nord e Sud quando si confronta il prodotto, meno forti se il paragone è fatto sulla base dei redditi disponibili. Agrigento, fanalino di coda, da un prodotto per abitante che è poco più della metà della media nazionale; ma Enna, ultima nella graduatoria della ricchezza. vanta un reddito che giunge a due terzi dei livello medio nazionale.
Differenze notevoli tra Nord e Sud emergono anche per i consumi: gli abitanti della provincia di Bologna hanno speso più del doppio di quelli di Catanzaro. Ma nella graduatoria dei rapporto tra consumo e reddito i primi dodici posti sono occupati da province dei Mezzogiorno. I meridionali, cioè, mettono meno soldi da parte. Il risparmio è infatti il fenomeno che divide maggiormente le due Italie. Nella provincia di Ragusa sono stati accantonati un milione e 75 mila lire a testa, un quarto dei quattro milioni e 185 mila lire risparmiati nella provincia di Aosta. Tra le quindici province che superano dei 30 per cento la media nazionale del risparmio pro capite, tredici sono dell'Italia settentrionale e due di quella centrale, mentre le dodici con valori inferiori alla media del sessanta per cento stanno tutte nel Meridione.


Secondo i dati rilevati, all'interno di una stessa regione possono esserci notevoli differenze tra le propensioni delle varie province, come in Campania tra Avellino (risparmio) e Caserta (consumo), in Puglia tra Brindisi (risparmio) e Taranto (consumo), in Sardegna tra Nuoro (risparmio) e Cagliari (consumo). Ma quali sono i motivi di fante e spesso così nette differenze? E perché Aosta risparmia e Ragusa no? L'istituto Tagliacarne non dà una risposta e non potrebbe essere altrimenti. Si limita a fornire dati e classifiche. Il resto spetta di diritto ai sociologi e agli economisti.

Unità d'Italia

Sotto il segno di stecche e mazzette

Su Milano incombe la nera nuvola del malaffare. Sembra materializzarsi, da tempo, il mostro creato dallo fantasia di Buzzati, che incombeva - nel celebre racconto - come un'impalpabile condanna, sulla città. Lo ha affermato, nell'inchiesta di prima pagina, un settimanale insospettabile ed autorevole come il rizzoliano Il Mondo, sotto un titolo impietoso: "Milano, ex capitale morale". Vengono allo scoperto, come storie di normale amministrazione, la corresponsione automatica di tangenti per forniture di enti pubblici (non occorre chiederle, la prassi le impone, anche se non costituiscono ancora una clausola espressa dei capitolati); appalti aggiudicati con ribassi impossibili che, attraverso il collaudato meccanismo dell'aggiornamento prezzi, raggiungono importi iperbolici; l'esistenza di un comitato d'affari trasversale a tutti i partiti, che lottizza nomine, commesse e mazzette.
E, al di fuori della corruzione generalizzata, prende corpo l'inefficienza: opere pubbliche che non finiscono mai, appalti sospesi in attesa di definizione di richieste e vertenze. Acquista il lucido e sinistro valore di profezia la denuncia che qualche anno fa, voce solitaria, fece Piero Bassetti, presidente della Camera di Commercio milanese: "Il problema - disse - non è la stecca (versione meneghina dei termine "mazzetta"), ma è il fatto che la stecca è diventato fine a se stessa. Non viene più pagato per fare le cose, ma per tirarle a lungo. La corruzione è entrata in corto circuito con l'efficienza".
Gli esempi abbondano: una linea della metropolitano che è diventata una macchina mangiasoldi e che non arriva mai al capolinea; la ristrutturazione dei "Piccolo" ferma da oltre tre anni; il passante ferroviario che rimane una grande incompiuta... Un affresco agghiacciante, che riporto alla memoria cronache e inchieste che la grande stampa ha sempre riservato al Sud, come teatro naturale e perimetrato di corruzione e rassegnato lassismo amministrativo. Con la morale finale, implicito o espressa, che dirottare risorse a Mezzogiorno significasse, nella generalità dei casi, alimentare mafie e camorre di vario tipo e finanziare progetti assurdi e appalti interminabili.
Nel riferire questi risultati sconvolgenti non ci attacchiamo al filo della soddisfazione ipocrita dei mai comune mezzo gaudio. C'è, piuttosto, la constatazione amara di una corruttela senza confini che inquina i gangli della pubblica amministrazione, che si alimento della complicità necessario dei partiti, che toglie slancio e limpidezza allo sviluppo del Paese. E anche per questo appaiono fuori di ogni onesta considerazione della realtà le forsennate campagne di stampa che vorrebbero stabilire sul corso dei Garigliano i confini tra rigore e ruberie, tra moralità e delinquenza.
Certo, le differenze ci sono, e sono grandi. Non è certo omologabile la Milano che istituzionalizza le tangenti e quasi le giustifica ("Siamo ricchi, abbiamo via Montenapoleone, i politici devono pur vivere") con la Palermo in cui gli appalti si decidono a colpi di lupara. Ma, al limite, la differenza sembra consistere in un paio di quanti gialli. Troppo poco per impancare campagne velenose e razzistiche. Troppo poco per tracciare un perimetro tutto meridionale dell'area dei malaffare e del dissesto morale.


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