Quando
Colombo, al termine del suo primo avventuroso viaggio verso Occidente,
s'imbattè negli abitanti del Nuovo Mondo, ne dette una descrizione
idillica. I miti Taino, fiduciosi e di bell'aspetto, inermi e bisognosi
di tutto, parvero al Genovese facilmente civilizzabili: tanto più,
in quanto questi indigeni sembravano assolutamente alieni da ogni credenza
idolatrica. Il curioso è che Colombo non mutò opinione
neppure quando dovette constatare l'esistenza di capanne in cui si riunivano
gli adulti e diriti connessi con la sepoltura. Ma si può parlare
di assenza di credenze (idolatriche o religiose che siano) quando ci
troviamo in presenza di riti funebri? Questo atteggiamento è
però comprensibile se evidenziamo l'intendimento di Colombo:
quello di proporre ai sovrani di Spagna il quadro di una terra ricca
di risorse e popolato di esseri miti e facili da convertire (e dunque
riducibili a docili sudditi).
Solo alcuni anni dopo missionari e conquistatori delineavano un quadro
ben differente: infatti non soltanto si enfatizzava la presenza di credenze
e culti indigeni, ma spesso se ne sottolineava la ridicola consistenza
e la diabolica ispirazione. Adoratori di Satana erano gli Haitiani per
Oviedo, mentre Benavente dichiarava che gli indios ogni notte - all'insaputa
dei missionari - celebravano demoniache feste.
Non sarò qui ad analizzare l'esattezza di queste affermazioni:
giova piuttosto osservare che le relazioni scritte da viaggiatori e
missionari tra Cinque e Ottocento ci testimoniano l'intenso ritualismo
e l'enfatizzazione delle sacre tradizioni che, appunto, contraddistinguono
le società "orali" (o "primitive").
Questo orientamento - ancora oggi constatabile dagli etnologi - è
ben diverso da quello che ha sviluppato la nostra cultura (scientista
e storicizzante): l'orizzonte quotidiano, laico e profano delle società
occidentali, infatti, si è venuto dilatando (almeno a partire
dall'età dell'Umanesimo) a scapito di un orientamento mitico-rituale.
Di questo si avvidero in parte - tra Otto e Novecento - quegli speculatori
nostalgici (Otto, Hahn, Frobenius, Jensen) che pretendevano restaurare
in Europa una dimensione istintuale e sacrale del vivere: si idoleggiò
pertanto quell'uomo "primitivo" che sarebbe vissuto totalmente
immerso nella sfera del sacro, pago delle spirituali vibrazioni che
derivavano dal mistico rapporto con le entità sovrumane, governanti
l'uomo e la natura. Viceversa - come ha dimostrato la scuola storico-religioso
di Roma - non si può non riconoscere all'indigeno extra-europeo
(ossia all'uomo "primitivo" della tradizione germanica) un'apprezzabile
facoltà speculativa e interlocutoria, un cosciente e generoso
impegno ad affrontare le evidenze quotidiane, una spiccata vocazione
alla socializzazione ed alla vita comunitaria. Ma, al tempo stesso,
sarebbe antistorico e non realistico ipotizzare un qualsivoglia ritorno
dell'uomo occidentale alla dimensione "mitica" del vivere
propria delle società orali. Questa dimensione, infatti, comporta
un rifugio protettivo nel mito e nel rito (come ha ben detto De Martino)
a causa di una mancata elaborazione degli strumenti tecnico-scientifici
e di uno scarso potere operativo riconosciuto all'uomo.
Il membro di una società orale tende infatti a ripetere quotidianamente
ciò che mitiche entità sovrumane - al tempo delle origini
- avrebbero detto di fare ritualmente. O più precisamente (come
ha scritto Sabbatucci): il mito èun dire le cose come sono da
sempre, garantendosene la non mutabilità; il rito è un
fare le cose che gli antichi esseri hanno detto di fare, per padroneggiare
le possibili evenienze. Di qui il succedersi quasi ininterrotto, nelle
comunità indigene "tradizionali", di riti e festività
che scandiscono il ciclo della vita individuale (dall'imposizione del
nome alle iniziazioni tribali, dal matrimonio agli eventi bellici, dalle
malattie alla morte) ed i cicli stagionali: tutti insieme dovrebbero
garantire le società tradizionali dai molti rischi insiti nel
divenire storico. Celebrare la fine di una stagione e inaugurare ritualmente
quella successiva (sono queste le "feste di capodanno" studiate
da Lanternari) vuoi dire appunto ridurre le proprie responsabilità
operative nel vivere quotidiano, annullando i rischi che l'avvenire
dischiude giorno dopo giorno, e demandare le responsabilità a
quegli esseri mitici che - una volta per tutte - avrebbero stabilito
il modello di vita ottimale e gli accorgimenti stessi per attuarlo o
conservarlo.
Di qui il senso di quell'intenso ritualismo che caratterizza le società
extraeuropee (e che Colombo non volle vedere).
La conquista
/ Il genocidio di un popolo
Dal mito alla
realtà
La "conquista
dell'America" è solo un feticcio della cultura occidentale.
La colonizzazione del Grande Paese è un falso, nel senso che
le pianure tra la Baia dì Hudson e le Montagne Rocciose, tra
il Mississippi e la Florida erano popolate, all'arrivo degli europei,
da una civiltà evoluta: quella degli Indiani. L'insediamento
delle colonie inglesi e francesi, la penetrazione dei bianchi, lo
sviluppo industriale, The Birth of a Nation, la nascita di una Nazione,
come proclamava un celebre film di David W. Griffith, furono possibili
solo grazie alla collaborazione offerta dalle tribù dei pellerossa.
I bianchi europei non sarebbero stati in grado di sopravvivere, al
di là dei villaggi messi in piedi sulla costa orientale, senza
l'aiuto materiale dei "selvaggi". Tutta l'epopea della frontiera
è un bluff e le vicende dell'America del Nord dovrebbero essere
riscritte. E' la tesi di un libro di storia che sembra un romanzo
d'avventura: L'invasione dell'America. Indiani, coloni e miti della
Conquista, dì Francis Jennings. L'autore scrive di essersi
ispirato alle opere dello storico Francis Parkman, e di essere rimasto
"affascinato dal loro stile drammatico anche se leggermente pomposo,
eppure sempre più tormentato dal dubbio che vi fosse qualcosa
che non andava".
Gli Indiani di Parkman sembravano inconciliabili con quelli studiati
nei corsi di antropologia. "Spinto dalla curiosità, cominciai
a studiare le fonti per confrontarle". Da quelle ricerche è
nato il libro: per dimostrare che la storia dei rapporti tra bianchi
e pellerossa è frutto di una "falsificazione premeditata".
Innanzitutto, Jennings contesta i dati sulla popolazione indigena.
Quanti abitanti poteva avere l'America del Nord quattro secoli fa,
all'epoca dell'insediamento delle prime colonie? Da un milione a un
milione e mezzo, secondo la storiografia tradizionale. Ma la materia
registrerebbe, secondo Jennings, una stupefacente e penosa povertà
di ricerche. Dopo pazienti indagini, egli considera attendibile la
cifra di dieci o dodici milioni di abitanti (indicata da H. F. Dobyns
in uno studio del 1966).
Questo dato sarebbe stato tenuto nascosto dalla storiografia ufficiale
per non dover ammettere un vero e proprio genocidio: "Il continente
americano più che vergine rimase vedovo: vedovo del suo popolo.
Non è vero che gli europei trovarono un deserto: è vero
invece che, forse involontariamente, ne crearono uno [ ... ]. La cosiddetta
colonizzazione dell'America fu piuttosto una ricolonizzazione: la
seconda occupazione di una terra resa spoglia dalle epidemie e dalla
demoralizzazione seguite all'arrivo dei nuovi coloni".
Nel 1709 il viaggiatore John Lawson scriveva in merito agli indiani
della Carolina: "Sono convinto che nel raggio di duecento miglia
dai nostri insediamenti non viva neppure un sesto dei selvaggi che
vi abitavano cinquant'anni fa". Il naturalista svedese Peter
Kalm a metà del Settecento notava che le comunità indiane
sembravano "dissolversi nel nulla". Secondo i dati dei censimenti
degli inglesi, sull'isola di Martha's Vineyard si trovavano nel 1642
circa 3.000 indiani Wampong; ma nel 1764 erano solo 313.
Secondo informazioni raccolte dai gesuiti, i Susquehanna che abitavano
l'odierna Pennsylvania si ridussero in un secolo da 6.000 a 250. Nel
1674 nel Massachusetts erano rimasti 300 Pequot: il sovrintendente
delle riserve Daniel Gookin interrogò gli anziani, scoprendo
che prima dell'arrivo degli inglesi le tribù Pequot potevano
raccogliere quattromila uomini abili alla guerra: "La realtà
della catastrofe demografica - scrive Jennings - non può essere
messa in dubbio". Quella catastrofe rappresentò la distruzione
non soltanto di un popolo, ma della sua civiltà. Boston, Detroit,
Chicago, Montreal furono fondate in località precedentemente
abitate dagli indiani. Lo stesso vale per Jamestown, Plymouth, Salem,
Providence, New Amsterdam, Filadelfia.
Gli indiani, scrive Jennings, sfamarono i primi colonizzatori: "Insegnarono
loro come affrontare colture sconosciute, per esempio il tabacco",
e "consegnarono agli europei aree già sfruttabili e riserve
di caccia disboscate". I coloni di Jamestown si salvarono dalla
fame "solo grazie ai doni degli indiani" e alle provviste
di granoturco acquistate dalle eccedenze delle tribù vicine.
Le poche colonie che non stabilirono alleanze con gli indiani non
riuscirono in genere a sopravvivere.
La rete di sentieri sui quali si spostavano i cacciatori indiani "era
disegnata con tale accortezza che su di essa sarebbero stati tracciati
poi i sentieri dei pionieri e quindi le moderne autostrade".
Tutte le comunità avevano sviluppato scambi commerciali: si
ha notizia in Virginia di una popolazione chiamata "Indiani del
tabacco", perché si dedicavano a questa coltura a scopi
mercantili. Gli Huroni scambiavano granoturco con carne e pesce dei
Nipissing, una tribù di cacciatori. L'ossidiana usata per le
punte delle frecce veniva esportata sulla costa orientale da regioni
lontane 1.500 miglia. Le lastre di ardesia facevano invece il percorso
inverso, dalla Costa Est fino al Mississippi. E' stato accertato l'uso
di una moneta: fibre di conchiglie, chiamate wampum.
Quella cultura indiana che gli antropologi e gli etnologi americani
fino a trent'anni fa definivano "neolitica o primitiva"
si rivela nelle pagine di Jennings ricca di conoscenze, tecnologicamente
attrezzata e capace di sviluppare processi produttivi che coinvolgevano
l'intera organizzazione sociale. L'esempio più evidente e suggestivo
è il commercio delle pelli, un "topos" del rapporto
tra bianchi e pellerossa su cui è fiorita tutta una letteratura.
Le pelli non erano una materia prima, fornita dalla caccia quasi come
un prodotto naturale. Dietro questo commercio c'era un lungo lavoro,
che iniziava con la costruzione delle canoe, opera di grande abilità
tecnica, e si concludeva con la concia e la cucitura, alla quale si
dedicavano in genere le donne. Il cacciatore indiano era in realtà
un artigiano autonomo, che si serviva di terzisti, e spesso si procurava
gli attrezzi per il lavoro con capitale prestato dai mercanti europei.
"Il duro lavoro e le abilità tecniche implicite in questa
attività sono state occultate - scrive Jennings - dal mito
del selvaggio indolente". E' questo mito che serve da copertura,
come in tutta la storia delle colonizzazioni. Se gli spagnoli e i
portoghesi giustificavano la schiavitù delle popolazioni sudamericane
con la tesi che gli indigeni non possedevano l'anima, i puritani inglesi
non erano da meno, avendo a disposizione le Sacre Scritture, che conoscevano
a menadito. Nei loro atti, citavano il Libro dei Salmi, versetto 2,8:
"Ti darò le genti pagane in eredità, e in tuo dominio
gli estremi confini della terra". Era lo spirito delle crociate
che riviveva, osserva Jennings. Cita a sua volta l'ineffabile pastore
protestante Samuel Purchas, che nel 1625 dichiarava gli indiani "fuorilegge
dell'umanità".
La seconda parte della ricerca di Jennings percorre con il taglio
del racconto d'avventura una serie di massacri che ebbe per teatro
la Nuova Inghilterra, come la cosiddetta "guerra di re Philips",
in cui gli inglesi si distinsero soprattutto - da bravi esponenti
del Vecchio Continente - per la capacità di usare l'inganno
e il ricatto. E fu allora che storici, politici, militari impressero
al termine "savage" una svolta radicale in senso negativo.
Ma come diceva il reverendo Purchas, gli indiani erano "non persone"
che vivevano in un "non territorio". Le dimore a loro più
congeniali "erano le terre desolate e solitarie".
Ma gli stermini a mano armata sono altrettanto efferati quanto quello
che è stato perpetrato spogliando gli indiani della loro cultura
e negando il contributo che diedero alla nascita della nazione americana,
nell'esplorazione del continente, nell'organizzazione del territorio,
nella diffusione delle colture, nella farmacopea e nella chiroterapia,
nelle guerre tra coloni inglesi e francesi.
In questo senso, il lavoro di Jennings ripara a un torto secolare,
ripercorrendo la storia di Huroni, Irochesi, Pequot, Narragansert,
e di tante altre tribù sparse sul continente americano al tempo
delle colonie. La loro vita, i loro villaggi, quel mondo romantico
evocato nei romanzi indiani di Fenimore Cooper, come "Ammazzafiere",
"Il battitore", e soprattutto "L'ultimo dei Mohicani",
o intravisto in alcuni western anticonformisti, da "L'amante
indiana" a "Il piccolo grande uomo", fino a "Balla
coi lupi", tornano in pagine dense, polemiche, avvincenti, con
una abbondanza di informazioni e una vivezza di descrizioni che ne
fanno la scoperta di una realtà finora malamente conosciuta,
oltre che un atto d'accusa contro l'uomo bianco.
Resta da chiarire perché la cultura americana abbia "falsificato
la storia". Scrive Jennings: "Gli invasori immaginavano,
a ragione, che altri europei avrebbero contestato la moralità
delle loro spedizioni. Si prepararono dunque su due fronti: con fucili
e munizioni per vincere la resistenza indiana e con materiale di propaganda
per vincere gli scrupoli dei connazionali". Questa propaganda
mascherò l'invasione e i suoi orrori con affermazioni e stereotipi
- il pellerossa selvaggio e il bianco civilizzatore, la minaccia indiana,
la sacralità dell'impresa - che divennero gli assiomi e i caratteri
di un'ideologia sancita dalla tradizione. "Ancora oggi essa vive
in mezzo a noi".
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