§ Il cerchio sacro

Ballando con i Sioux




Ada Provenzano



Prima ancora di Ballando coi lupi, scritto da Michael Blake e portato sugli schermi da Kevin Costner, c'era stato Inverno nel sangue, di James Welch, incentrato sulla vita degli indiani in una riserva del Montano e sul rapporto tra quotidiano e memoria; e c'era stato The indian Lawyer, che raccontava la vicenda di un discendente dei Piedi Neri, più esattamente del guerriero Yellow Calf, divenuto avvocato di successo, difensore dei diritti territoriali di un gruppo di Sioux Ballando coi lupi, interpretato da Sioux, in realtà narrava una vicenda di Comanci. Nel 1863, (il 29 dicembre ci fu lo sterminio di Wounded Knee), gli indiani più lontani dalla civiltà erano proprio i Comanci, che ai giorni nostri sono pressoché estinti; i Sioux, e meglio ancora i Sioux Lakota, hanno tuttora una cultura vivissima, una identità che custodiscono gelosamente, e sono cacciatori di bisonti, a differenza dei Comanci, come gli Apaches e i Piedi Neri, insieme con i quali dividevano i territori immensi delle praterie e quelli delle colline, nel cuore di una "Terra" senza nome, prima di chiamarsi America. Era esclusivamente e semplicemente "Terra".
Oggi, gli indiani urbanizzati sono poco meno di mezzo milione. Vivono in condizioni drammatiche, senza quasi piú retroterra culturale, discriminati, senza potere economico, dunque senza potere politico. Una forte percentuale è dedita all'alcol, che porta alla follia, alla reclusione, persino al suicidio. Gli altri, e sono qualche milione, sono stanziati nelle riserve, dove custodiscono usi, costumi, tradizioni, la familiarità con la poesia (per motivi storici, mitici, mitologici), e "la parola che crea, dà origine alle cose che nomina": perché - dicono - le parole "hanno valore in sé e per sé stesse. Esse sono ed esprimono il nulla, e dal nulla si trasformano in essere. Sono create dall'immaginazione e danno significato e vita alla voce". E questa parola può essere trovata solo nei poeti, che sono pellerossa; e non negli americani, che per questo sono dediti, o per lo meno hanno maggior familiarità col romanzo, con la prosa.
Nel 1868 il governo americano e le tribù Lakota firmarono un trattato che garantiva ai Sioux la sovranità sulle terre che abitavano. Ai coloni americani era proibito insediarvisi o attraversarle. Meno di dieci anni dopo, sulle Colline Nere (Black Hills), sacre ai Lakota, venne scoperto l'oro. Accadde allora quel che si sta verificando oggi per gli indios dell'Amazzonia: l'oro attirò torme di avidi cercatori, di uomini senza scrupoli, di avventurieri pronti a tutto. Fu allora, com'è oggi, sterminio.
Sulle Colline Nere era il "Cerchio sacro" dei Sioux, il recinto inviolabile dei loro riti, il tempio dei loro morti, il monumento ai foro eroi. i popoli Lakota lo difesero per dieci anni, fino al 1890, quando, in un freddo 15 dicembre, venne assassinato il leggendario Toro Seduto. Allora incominciò l'invasione delle Chiese (cattolica, presbiteriana, protestante innanzitutto): si volevano cristianizzare i pellerossa; per i quali, invece, vigeva il principio dei beni comuni e della generosità, piuttosto remoto dai "valori" di ricchezza individuale, di proprietà e di divisione di terre recintate in auge presso le terre dell'Est americano.
Ebbe inizio, allora, la formazione di States nell'Ovest: il territorio che era stato dei Lakota e dei Dakota venne sezionato: nacquero il North Dakota e il South Dakota, il Montana, il Wyoming, il Nebraska. I popoli pellerossa furono costretti ad emigrare, portandosi dietro donne e bambini, armi e masserize, pelli di bisonte e le profezie di Toro Seduto e di Alce Nero: se fossero sopravvissuti fino alla settima generazione, se fino a questa generazione avessero mantenuta viva, come il fuoco sotto la cenere, la loro identità culturale, avrebbero potuto ricomporre il "cerchio sacro".


I pellerossa di oggi, quelli che hanno ripetuto per cinque anni il percorso a ritroso, verso Wounded Knee, sono della settima generazione. Essi cavalcano cavalli senza selle e senza staffe, perché il contatto sia diretto con la Terra, e pregano ad ogni passo, e si fermano dove erano accampati i loro antenati. E ogni giorno è dedicato ad alcuni uomini della loro Nazione: il primo al bambini; il secondo agli anziani; il terzo agli ammalati; il quarto alle donne; il quinto alla Madre; il sesto alla "wolakota", cioè alla pace e alla comprensione fra gli uomini di tutte le Nazioni; il settimo a tutti i morti e agli eroi indiani di Wounded Knee e agli uomini delle prossime sette generazioni. "Con la Cavalcata andiamo indietro nel passato, per scoprire ciò che abbiamo perso. Questo ci serve per migliorarci, oggi, per capire il presente e per andare verso il futuro. Avevamo e abbiamo compassione dell'uomo bianco. perché non ha una comprensione delle cose e della vita molto profonda".
Così, i Sioux Lakota stanno ricostruendo il foro "cerchio sacro". E' una conoscenza antica, "che ci viene dalle sorelle nel cielo, dalla stella del mattino, dalla stella della sera; una conoscenza che ci ha insegnato a dividere i giorni in giorni rossi, quelli buoni e giusti, e in giorni blu, quelli in cui perdiamo l'armonia".
Dice la memoria sacra dei Sioux: "Secondo la nostra conoscenza, vi fu prima un mondo, un'epoca dello spirito; siamo poi passati attraverso quello che chiamiamo il mondo delle radici, in cui eravamo Wahukta Oyate, e cioè Nazione delle radici; poi venne il mondo degli esseri a quattro zampe, in cui siamo venuti su questa Terra sotto forma di bisonte; infine c'è il mondo di oggi, in cui esistiamo come esseri a due zampe.
Sono quattro parti della nostra vita che si concluderanno in un quinto mondo, un mondo nuovamente spirituale. Da qui ritorneremo a far parte ancora una volta del Tutto". Ballando con l'infinito tempo e con l'infinito spazio della Terra, del Cielo, delle Stelle. Con l'infinito della poesia.

Santo schiavista o eroe?

L'inafferrabile Colombo

E' probabile che qualche vascello, prima delle caravelle di Colombo, sia stato buttato dal caso sulle coste dell'America. Ma nessuno lo seppe o se ne accorse e il mondo continuò ad essere quello di prima. Viceversa, tra le date che segnano il passaggio da un'epoca ad un'altra, il 12 ottobre 1492 non è una semplice convenzione geografica, ma un cippo, uno spartiacque che divide nettamente il Medioevo dall'Età Moderna.
Non furono né la fortuna, né un uragano a sospingere Colombo sulla spiaggia dell'isola di San Salvador, nelle Bahamas. Fu la eccezionale combinazione della sua straordinaria personalità con la cultura rinascimentale italiana e con la nascente potenza spagnola. Se il Rinascimento segna la scoperta dell'uomo e del mondo, l'evento di cui parliamo, a cinquecento anni di distanza, è un capolavoro rinascimentale, come la Cappella Sistina.
E' vero che Colombo sognava di sbarcare in Oriente, navigando per Occidente, e alle due del mattino, quando la vedetta della "Pinta" gridò due volte "Tierra!", non si rese conto di essere giunto in America, perché all'epoca era impossibile immaginare un altro continente al di là dell'Atlantico; ma è anche vero che fu il primo a metter piede su una terra sconosciuta, dove Carlo V fondò la metà più ricca dell'impero nel quale "non tramontava mai il sole". E' certo che ad ogni nuova isola che Colombo scopriva si rafforzava la caparbia convinzione di aver toccato un arcipelago giapponese, ma è altrettanto certo che, durante il terzo dei suoi quattro viaggi, comprese che al di là di quelle isole doveva esserci un altro continente, o, come scrisse, un "otro mundo".
Ebbe la straordinaria folgorazione quando, giunto nel golfo di Paria, incominciò a costeggiare il Venezuela e, osservando l'imponente massa d'acqua dolce che fluiva dai numerosi rami dell'Orinoco, dedusse che soltanto una grandissima estensione di terra poteva alimentare un tal fiume. Alla stessa conclusione giunsero qualche anno dopo altri due italiani, Pietro Martire che coniò la definizione di "Nuovo Mondo", e Amerigo Vespucci che disegnò le prime carte geografiche e nautiche dell'America.


Per almeno quattro secoli inglesi, spagnoli e portoghesi non si sono rassegnati all'idea che Colombo fosse genovese; così ognuno lo ha ribattezzato secondo la propria lingua. Per negare la italianità di Colombo sono state inventate storie fantasiose e prive spesso di qualsiasi riscontro. Si è immaginato persino che fosse un "marrano", cioè un ebreo spagnolo convertitosi al cristianesimo. Pur di attribuire un po' di gloria ad altri popoli, si è detto che fra i novanta ufficiali e funzionari che accompagnarono Colombo nel suo primo viaggio c'erano un inglese e un irlandese, ma non è vero: i soli "stranieri" a bordo delle tre navi erano un altro genovese, un veneziano e un portoghese.
La tenace rivendicazione della "hispanidad" di Colombo da parte della Spagna nasce dal fatto che il navigatore genovese, diventando ammiraglio al servizio di Isabella la Cattolica e di Ferdinando d'Aragona, mutò il proprio nome e cognome in Cristobal Colón. E Colón si chiamarono i suoi discendenti.
Ciò non deve sorprendere. La scoperta dell'America avviene nello stesso anno in cui muore, con Lorenzo il Magnifico, il delicato equilibrio politico della Penisola, e i quattro viaggi di Colombo - dal 1492 al 1504 - coincidono col periodo in cui incomincia quella che oggi chiamiamo la "fuga dei cervelli": intellettuali, artisti, scienziati, politici e affaristi vanno a cercar fortuna fuori da una patria che ha perso la pace e l'indipendenza. La stesso fanno i grandi marinai: Verrazzano naviga per la Francia, Cadamosto e Vespucci per il Portogallo, Caboto per l'Inghilterra. Ma, benché al servizio degli orgogliosi e suscettibili sovrani spagnoli, Colombo continuò a restare cittadino di Genova che chiamava "quella nobile e potente città in riva al mare" e che ricordò anche nel suo testamento nominando, come esecutore delle sue ultime volontà, il Banco di San Giorgio.
Colombo si preparò alla grande avventura a partire dall'agosto del 1476, quando, venticinquenne, approdò fortunosamente sulle coste del Portogallo. Era a bordo della "Bechalla", un vascello fiammingo noleggiato dai genovesi, che fu assalito da una flotta francese e colò a picco. Benché ferito, Colombo si aggrappò a un remo e venne trascinato dalle correnti a riva.
Sotto l'impulso del principe Enrico il Navigatore, il Portogallo era all'avanguardia nei viaggi di esplorazione e a Lisbona operava il maggior centro europeo di ricerca nautica. Bartolomeo, fratello minore di Cristoforo, già lavorava nella capitale in una "officina" di carte nautiche. E i capitani coraggiosi che al servizio del Portogallo si spingevano sempre più a Sud dell'Africa per circumnavigarla e trovare la via delle Indie erano personaggi leggendari. Ascoltando i racconti delle loro gesta, Colombo maturò l'idea di arrivare alle Indie, ma navigando verso Occidente. Si sentiva predestinato alla gloria, alla ricchezza e alla missione di "portare Cristo" (come diceva il suo nome) oltre Oceano.
La cultura umanistica che aveva ereditato dalla terra natale e arricchito in Portogallo era un misto di antiche superstizioni e di nuove conoscenze. Osservando le fave cavalline o i tronchi di alberi mai visti che le correnti atlantiche portavano fin verso l'Europa, si era realisticamente convinto che al di là dell'orizzonte c'era una terra diversa, ma nello stesso tempo credeva alla favola del Prete Gianni che vi regnava. Conosceva già "Il Milione", dove Marco Polo aveva descritto la Cina e accennato alla favolosa isola di Cipango (il Giappone), forse conosceva il canto di Ulisse nel quale Dante racconta il "folle volo" dell'eroe greco oltre lo Stretto di Gibilterra, sapeva come tutti i suoi contemporanei che la Terra è una sfera.
A Lisbona trovò e studiò le opere dei cosmografi maggiori, in particolare di Tolomeo che, nel secondo secolo dopo Cristo, aveva misurato e diviso in trecentosessanta gradi la circonferenza del globo, anche se si era sbagliato per difetto, perché secondo lui un grado corrispondeva a 50 miglia marine, e non a 60, come in effetti è.
La spinta decisiva a tentare l'impresa - peregrinando per anni, prima di riuscirvi, dal Portogallo alla Spagna e alla Francia - venne al genovese da un altro italiano, il medico e astronomo Paolo Toscanelli, che nel 1474 aveva scritto a un amico portoghese perché convincesse il re a raggiungere, navigando verso Occidente, il Giappone, "fertilissimo in oro", e la Cina. Aveva accluso alla lettera una mappa con la quale dimostrava che il viaggio da Lisbona al Giappone era di sole 3.000 miglia, e di 5.000 fino alla Cina.
Venuto a conoscenza della lettera e della mappa, Colombo si mise in contatto con Toscanelli e ricevette altre informazioni e una nuova mappa. Ma quelle informazioni non sarebbero bastate a garantire il successo dell'impresa; per tentarla e riuscirvi, occorreva una fede rocciosa nell'aiuto divino, insieme con una volontà ferrea, con un vigile senso degli affari, con l'attitudine al comando e, ovviamente, con una profonda esperienza marmara. Colombo possedeva tutte quelle doti, e le perfezionò navigando a lungo sotto la bandiera portoghese, dall'Islanda alle Azzorre, dall'Irlanda a Lisbona.
L'ammiraglio americano Samuel Eliot Morris, che nel 1942 ha scritto una monumentale opera sui viaggi di Colombo, dopo averne ripercorso le rotte, giudica il genovese "il maggior marinaio" del suo tempo, un'epoca che, oltre ai grandi navigatori italiani, conobbe quelli portoghesi come Bartolomeo Diaz che doppiò il Capo di Buona Speranza e sarebbe arrivato in India se l'equipaggio non si fosse ammutinato, e Vasco De Gama che ci arrivò e vi fondò la prima colonia del Portogallo.
Nel libro dell'ammiraglio Morris si incontrano spesso espressioni come "meraviglia che Colombo abbia trovato quel passaggio tra la scogliera [ ... ]; non si riesce a capire come sia approdato proprio in quel punto [ ... ]", e simili. La meraviglia nasce anche dal fatto che i calcoli di Colombo e il "punto" che regolarmente faceva in navigazione usando i rozzi strumenti del tempo erano sempre approssimativi o addirittura sbagliati. Diminuendo le già scarse misure di Tolomeo, si era convinto (o forse lo diceva ad arte per non spaventare i finanziatori e la ciurma) che il grado fosse addirittura di 45 miglia marine. Sulla base di questi conteggi, Tokio si troverebbe dove c'è L'Avana; e infatti Colombo, arrivato a San Salvador, fu certo di essere sbarcato in Giappone, e si confermò nel suo equivoco perché aveva stimato la distanza dalle Canarie in 2.400 miglia, cioè meno del trenta per cento della realtà.
Ma Colombo prima si accaniva sui calcoli errati, poi si affidava al suo formidabile istinto che aveva affinato nella cosiddetta "navigazione e stima". Gli esempi sono innumerevoli. Ne citiamo tre: prima della partenza fece modificare la velatura delle tre famose caravelle, riuscendo in questo modo a raggiungere col vento favorevole i 10-12 nodi all'ora, una velocità quadrupla della media di allora e notevole anche per un velista moderno; i pochi navigatori che avevano osato spingersi oltre le Azzorre erano partiti da queste isole, a un terzo di strada fra l'Europa e l'America, ma erano tornati indietro oppure erano scomparsi. Invece Colombo decise di salpare dalle più arretrate Canarie perché nei suoi viaggi precedenti si era accorto che a quella latitudine gli alisei soffiavano con buona regolarità verso occidente; durante la sua terza traversata del 1498-1500, Colombo aveva avuto ordine dai sovrani spagnoli di non sbarcare a Hispaniola (oggi Haiti), dove, al posto suo, era stato nominato viceré il nobile Ovando. Ma, giunto in prossimità dell'isola, Colombo "sentì" che stava per arrivare un uragano, sebbene nulla lo lasciasse presagire, e chiese perciò di potersi rifugiare nel porto di Santo Domingo (che considerava doppiamente suo, sia perché l'aveva scoperto sia perché l'aveva battezzato col nome del padre, Domenico). Inoltre, consigliò il viceré di non mettersi in mare con la sua flotta, come stava preparandosi a fare. Ovando gli rifiutò il permesso di sbarco e lo derise per le previsioni meteorologiche. Il risultato fu che Colombo, rifugiatosi in un altro porto, salvò le sue navi, mentre Ovando perse la sua flotta.
Fino al 1792, nelle colonie americane il navigatore genovese era semplicemente ignorato. Da allora, Colombo e il termine "Colombia" designarono la nuova nazione liberatasi dalla corona d'Inghilterra. A New York, John Pintard e la Tammany Society furono i registi della prima commemorazione colombiana. Cento anni dopo, l'Esposizione Colombiana si tenne a Chicago, diventata la capitale culturale del Nuovo Mondo. A New York le manifestazioni durarono cinque giorni, con parate notturne, fuochi d'artificio dal ponte di Brooklyn ad imitazione delle cascate del Niagara, con l'erezione di un monumento a Columbus Circle.
Non si conoscevano le accuse, rilanciate con grande enfasi dai giovani storici americani (K. Sale, A. Carpentier, A. Posse, G. Elliot, R. Means, e via dicendo) di saccheggio, massacri, stupri, sessismo, affarismo, inettitudine amministrativa? E' difficile sostenerlo.
In realtà, tutto ciò viene considerato poca cosa, e dunque cosa ininfluente. Prevale il desiderio degli ex sudditi di Giorgio III d'Inghilterra, diventati finalmente americani, di legittimarsi, definendo se stesi e dandosi simboli di riconoscimento.
Ricorda John Noble Wilford, autore ella "Storia misteriosa di Colombo" (pubblicata da poco): "Dal tempo della Rivoluzione, Colombo è stato trasformato in una icona nazionale, un eroe secondo soltanto a George Washington". Dopo il trecentesimo anniversario dello sbarco, si discusse se chiamare Columbia (il termine alla fine venne circoscritto al King's College e al distretto di New York) l'intero Paese, rinchiudendosi dietro un totem. "In Colombo - continua Noble Wilford - la nuova nazione trovò un eroe apparentemente libero di ogni macchia di complicità con le potenze coloniali europee. Il simbolo di Colombo deve agli americani una mitologia immediata e un posto unico nella storia ... ".
Mai, con tale determinazione, il gruppo dirigente di uno Stato aveva usato la storiografia non solo per ratificare, ma soprattutto per glorificare il presente. Dall'inizio del XIX secolo, quando pure cominciava a circolare la documentazione sulla figura di Colombo, e sulle azioni delittuose (dalla tratta degli schiavi allo sterminio della popolazione locale) da lui ordinate o avallate, la santificazione del povero marinaio genovese non ha avuto soste. Nelle sue ambizioni e nell'ampiezza di orizzonte dei suoi progetti, storici come Washington Irving, Daniel J. Boorstin, James Russel Lowell ecc., esaltarono le virtù di cui aveva bisogno la rivoluzione industriale, l'espansionismo coloniale, le grandi esplorazioni geografiche: la fiducia nel progresso come motore della storia, la forza di rompere la catena della povertà, la grandiosità dei programmi.
Questo spartito storico alla fine dell'Ottocento può contare ormai su una platea più ampia. Colombo diventa un eroe etnico per compensare la domanda di identità dei milioni di immigrati, la schiuma della terra del continente europeo, che dopo la guerra civile americana si riversano su Ellis Island.
Lo storico di Kennedy e del sistema presidenziale, il liberal Arthur SchIesinger, oggi studioso della ricchezza etnica degli Stati Uniti, ha reagito aspramente contro gli storici neorevisionisti ai quali per molti aspetti è assai vicino: "Si falsifica la storia negando le origini essenzialmente europee della cultura americana".
Gli irlandesi, nel 1882, costituirono a New Haven i "Cavalieri di Colombo". A questa lobby si deve il Columbus Memorial, fatto costruire di fronte all'Union Station di Washington. I cattolici francesi premettero su Pio XI per santificare il navigatore genovese. Gli italiani raccolsero i fondi per piazzare all'angolo di Central Park una statua in cima ad una colonna di marmo. Colombo venne dunque celebrato come il primo degli emigranti in America. Non si potrà più dire che la storia di questo continente ha avuto inizio con il suo sbarco (una dozzina di luoghi, da San Salvador all'isola di Concepción, si contendono questo onore). I libri di testo dovranno essere, da questo punto di vista, riscritti, tenendo conto che è esistito un popolo precolombiano al quale si devono restituire un profilo e un ruolo. Dice l'archeologo Gerard Milanich: "Siamo di fronte ad una correzione di rotta; dalla celebrazione di Colombo e dal trionfo della civiltà europea si sta passando ad un nuovo tema: il popolo che Colombo ha scoperto. Vi sono ormai numerose ricerche che mettono a fuoco l'impatto avuto sugli americani nativi". Sono stati per secoli gli ospiti non invitati al banchetto dell'eurocentrismo.
La necessità di una severa contestazione di questa storiografia dei vincitori non può tradursi nell'accettazione passiva della storiografia dei vinti. Negli Stati Uniti l'alternativa verte tra e gran i istituzioni: da un lato c'è il Lawrence Hall of Science. E' un museo e contemporaneamente un grande centro di ricerca dell'università di California, a Berkeley, che demonizza platealmente Colombo, screditandone ogni apporto scientifico e facendone un epigono, ben più feroce, di Attila e un precursore di Hitler. Dall'altra, c'è il National Museum of Natural History, di Washington, che ha allestito la più grande esposizione mai conosciuta sui "Semi di cambiamento", cioè sul trasferimento di conoscenze scientifiche dal Nuovo al Vecchio Mondo. Per quanto possa sembrare paradossale, tra Europa e Americhe non c'è stato un contrasto di paradigmi ideologici tra civiltà e genocidio, tra progresso e ciclo immobile delle stagioni. Forse, com'è stato scritto, la realtà dei rapporti intercorsi fra i due continenti si capisce meglio studiando gli scambi tra peperoni, paprika, pomodori, patate, fichi d'India, cavalli, zucchero, mais, uso della tecnica, divisione del lavoro, e via dicendo. il mondo moderno è nato su queste basi.

Il volto ignoto della storia

The invisible man

La letteratura storica ci illumina poco o nulla sulla vicenda personale di Cristoforo Colombo. Chi era veramente? Paolo Emilio Taviani osserva giustamente che di Colombo è stato scritto tutto e il contrario di tutto: "Si è detto che era un criminale, che era un santo, che era un donnaiolo, che aveva Preso il voto di castità, che era un uomo meschino, che morì senza un soldo, che morì carico di ricchezze". Di Colombo non solo ignoriamo fatti importanti (Per esempio, gli eventi della sua giovinezza e della prima maturità), non solo conosciamo poco delle sue vicende private e familiari (la moglie, l'amante, i figli), ma non sappiamo neppure quale fosse il suo aspetto fisico. Tutte le raffigurazioni che troviamo nei libri e nei musei risalgono a un'incisione di Tobias Stimmer del 1575, ritenuta la più fedele e documentata, sebbene pubblicata 74 anni dopo la morte del navigatore, mentre i ritratti più famosi, come quelli attribuiti a Sebastiano del Piombo, a Lorenzo Lotto e a Girolamo Parmigiano, sono opere di fantasia per le quali i modelli furono gentiluomini dell'epoca. Perfino la salma di Colombo è al centro di un mistero: si trova nella cattedrale di Siviglia oppure a San Domingo?
A dispetto di tanta enigmaticità, la figura di Colombo ha ispirato moltitudini di artisti e di scrittori. Secondo le ricerche di Kirkpatrick Sale, solo nell'800 e solo in lingua inglese sono state dedicate al grande navigatore centinaia di poesie, quattordici lavori teatrali, sette opere liriche e nove romanzi. "Non posso provarlo - dice Sole - ma sono convinto che Colombo ha eccitato la fantasia degli europei e degli americani più di qualsiasi altro personaggio storico, con l'eccezione di Gesù Cristo". Ma tanta dedizione non ha prodotto quasi nessuna vera opera d'arte: la sola cosa buona, secondo Sale, è la Sinfonia numero 9 di Antonin Dvorak, "Dal nuovo mondo", composta per la Mostra Colombiana di Chicago nel 1893.
Di maggiore interesse è forse la produzione narrativa, che è già notevole come numero di titoli: accanto ad opere già note (per esempio, "L'arpa e l'ombra", del defunto Alejo Carpentier, in cui si descrive un immaginario processo di beatificazione di Colombo da parte di Pio XI che si conclude con una bocciatura per mancanza di miracoli, oltre che per le malefatte dei "conquistadores"), oggi figurano alcune novità americane di qualche interesse antropologico e sociologico, se non proprio letterario.
Michael Dorris e Louise Erdrich (in "The crown of Columbus") raccontano la storia di una ragazza indiano di oggi, insegnante a Dartmouth, la quale si imbatte in una lettera inedita di Colombo e attraverso questa riesce a recuperare una corona che il navigatore avrebbe regolato a un capo indiano dopo lo sbarco del 1492: un romanzo archeologico-sentimentale per il quale gli autori avrebbero incassato la bella somma di un milione e mezzo di dollari. Curiosamente, il romanzo contiene un grave errore storico: la lettera inedita di Colombo, che sarebbe stato scritta nell'Isola di Isabela - e dunque dopo la scoperta del Nuovo Mondo - reca la dato del 28 gennaio 1492, quando Colombo non era neppure partito da Palos.
Ancora più fantasioso e irreale è"The heirs of Columbus", dello scrittore "indiano" Gerald Vizenor, che insegna letteratura "native american" all'università di Berkeley. Dando credito alla leggenda secondo la quale gli antichi greci non sarebbero altro che immigrati americani delle civiltà maya, Vizenor ci presento Colombo come un discendente europeo degli antichi abitanti della Sierra messicana e guatemalteca. Il suo viaggio diventa allora non tanto una scoperto, quanto un "ritorno" alla terra degli avi, nella quale il suo spirito inquieto - disprezzato dagli europei - potrà finalmente trovare pace. E' un romanzo bizzarro, che mescola antichi miti tribali e tecniche narrative d'avanguardia In ogni caso, la grande opera d'arte su Colombo non c'è, ed è improbabile che venga fuori alla vigilia delle celebrazioni: non c'è in musica, né in prosa, né nelle arti figurative. Si potrebbe allora pensare, visto che Kirkpatrick sostiene che tra Colombo e gli artisti non scocca la scintilla, che sia più facile la vita dei curatori di mostre e degli storici i quali lavorano su una materia prima già esistente e più reale. Ma forse neanche così è. Anche costoro, a quanto pare, soffrono la sindrome dell'inafferrabilità di Colombo. Restano gli storiciarcheologi. Che cosa ci diranno di nuovo? Nelle librerie circolano per ora ristampe o edizioni condensate di biografie colombiane classiche, come quelle di Morison o di Taviani, e alcuni testi divulgativi, Varie spedizioni, poi, stanno battendo scrupolosamente i Caraibi, alla ricerca di relitti che possono ,gettare nuova luce su una vicenda nella quale i fatti noti sono rimasti sostanzialmente gli stessi per alcuni secoli.
Ma c'è da chiedersi quale differenza faccia stabilire che Colombo sbarcò sull'una o sull'altra isola delle Bahamas o trovare le fondamenta di quello che potrebbe essere stato il primo fortino costruito nel Nuovo Mondo. Alla domando su quale immagine di Colombo ci verrà imposta nel quinto centenario (eroe? invasore? trafficante di schiavi?), David Duncan, sulla "Washington Post", ha risposto che l'assenza di nuovi documenti e la propensione politica degli studiosi ad evitare giudizi troppo positivi o troppo negativi ci darà del grande navigatore l'immagine che già conosciamo, tanto astratto, scolorita e sfocata che non può dirsi neppure un'immagine. Colombo resterà, come tutti i patrimani dell'intera umanità, "the invisible man". L'uomo invisibile. Cioè l'uomo.

Colombiane & Affari

Genova per loro

A vevano cominciato a chiamarle "Colombiadi". Poi qualcuno ha suggerito che non era il caso, meglio parlare allora di "Colombiane". E di "Colombiane" si è discusso nei meandri ovattati del Palazzo, quando si è trattato di "varare" un programma di celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della scoperta del Nuovo Mondo. Bene, ci eravamo detti; ecco l'occasione buono per imparare a spendere con oculatezza i soldi dello Stato, e a tener lontani profittatori e mestatori e affamatissimi peones e astuti pezzi da novanta che tenteranno l'approccio alla gran torta di circa 6.500 miliardi di lire destinati alla commemorazione di un'impresa che cambiò il corso della storia umana.
Ecco il momento giusto per smetterla di polemizzare con i fustigatori dei (mal)costumi meridionali, sempre dietro l'angolo, col gatto a nove code, pronti a menar colpi ad ogni stormire di fronda. Ecco la possibilità decisiva di far tesoro degli esempi che vengono dal Nord onesto, sano, produttore, sfruttato, tartassato, ma che ha perso la pazienza e che non ci sta più al gioco al massacro del Sud, che rifiuta gli sprechi assistenziali, le truffe, le malversazioni del Sud.
Doveva partire da Genova la Superba, questo esempio. Così, almeno, pensavamo. E ci eravamo sbagliati. Non per colpa di Genova, che si è trovata praticamente a secco, sebbene abbia dato casa, antenati e natali all'esploratore dell'Atlantico; ma per colpa della lingua italiana. Genova e noi stessi, infatti, non avevamo fatto i conti con una di quelle locuzioni in apparenza insignificanti, (e infatti non significherebbero niente, se ad esse non dessero dignità di significato coloro che ne sono direttamente interessati), e persino innocenti, almeno nell'apparenza, che sono i grimaldelli preferiti dai roditori umani di questa Repubblica. La locuzione in oggetto è bacino di utenza. Brutta, di per sé. Con quel "bacino" che sta a metà strada tra un diminutivo e un pudico sinonimo; con quell'"utenza" che è uno dei peggiori esiti filologici che abbia potuto darci la lingua madre latina. Ma tant'è: il bacino di utenza è stato l'asso nella manica, il passepartout grazie al quale nel nome delle Colombiane si è consumata una spartizione legalizzata.
Genova celebra Colombo con pochi spiccioli, mentre il bacino di utenza ha colto al volo l'occasione per portarsi via il malloppo.
Qualcuno ci deve spiegare, infatti, che significato hanno gli stanziamenti iscritti a favore dello Stelvio, o quelli (arcimiliardari) ci favore di Brescia e provincia, collegio elettorale del ministro dei Lavori Pubblici che ha presieduto e diretto la spartizione; o la montagna di miliardi stanziati in favore delle province lombarde, toscane, trivenete e persino emiliano-romagnole.
Qualcuno ci deve pur dire quanto è realmente grande questo bacino di utenza di Genova, e quanto è storicamente, economicamente, e se vuole anche strutturalmente, rapportato all'austero capoluogo ligure. Perché a noi non risulta che Brescia rientri nel bacino genovese, né che Genova tragga utenze da quel di Reggio nell'Emilia; né risulta che, per far festa a un genovese. si debbo far la festa alla suo città natale, nel senso di metterla nel sacco, come se c'entri appena di straforo.
Ma neanche ci risulta che qualcuno abbia mosso un dito, (genovesi a parte, che si sono moderatamente lamentati); che un opinion-maker di quelli che ce la fanno vedere senza peli sulla lingua abbia scritto un solo capoverso; che un corsivista di quelli che considerano le parole pietre e che lapiderebbero il padre e la madre anche nelle feste comandate abbia posto mano alla macchina per scrivere e abbia buttato giù un "incorniciato", magari un po' tisico, larvale, per tener fede all'immagine di intransigente castigatore del costume; che un politico, magari di impasto casareccio e di cultura magliara, abbia attivato la catena di Sant'Antonio dei mass media per gridare al ladro al profittatore allo sprecone, risvegliando sopite emozioni in esangui silfidi bergamasche o dimenticati furori dialettici nei pettinati bocconiani dell'entroterra milanese. Nulla di tutto questo.
Nulla perché non è il Sud e non si tratto dell'Irpinia. Nulla perché si tratta del Nord. Nulla perché le mafie e le loro connessioni sono cose al di qua del muro di Ancona. Nulla e nulla più. Perché così è. E così sia.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000