§ Viaggio attraverso i film che hanno raccontato il pianeta Sud

Immagini del silenzio




Lucia Marzo



Un cinefito e meridionale "eccellente", pensando alla propria terra, la Sicilia, come oggetto di rappresentazione cinematografica, mise a fuoco un arco di anni breve quanto cruciale, in cui una produzione letteraria di qualità diede al cinema le coordinate di tre diversi modelli di approccio ai temi siciliani. Dal '40 al '42 il Vittorini di Conversazione in Sicilia, il Brancati di Gli anni perduti e Don Giovanni in Sicilia, il Quasimodo di Ed è subito sera fondarono senza volerlo i canoni per l'ispirazione dei cineasti. Rispettivamente, la Sicilia come "mondo offeso", come teatro della commedia erotica, come luogo di bellezza e verità.
L'acuto spettatore dilettante era Leonardo Sciascia; il suo saggio, La Sicilia nel cinema, è del 1963, a ridosso dell'uscita nelle sale del Gattopardo di Visconti: a cui accenna infatti "per sentito dire", prima di averlo visto personalmente. Se avesse avuto modo di aggiornare il giudizio ad anni più recenti, Sciascia avrebbe forse apprezzato lo splendido Kaos dei fratelli Taviani (1984): florilegio pirandelliano, gesto d'amore e di pura, dolente forza poetica nei confronti della sua terra e dell'autore che meglio la rappresenta, insieme con Verga, nella cultura.
L'analisi centrata da Sciascia sulla Sicilia nel cinema funziona perfettamente anche se si allarga il discorso a comprendere tutto il Meridione. Nodo di problemi sociali, economici, politici tuttora brucianti e irrisolti; ma anche luogo ideale di mitizzazione: della natura, dell'umanità, di perduti valori di civiltà; di un mondo che in tutte le sue manifestazioni, nel bene e nel male, si è spesso stentato a vedere come "integrato", partecipe a tutti gli effetti dell'Italia o di quell'idea d'Italia che si voleva promuovere. Dal Risorgimento in poi, e ancora oggi in termini diversi ma non del tutto nuovi, l'unità nazionale sembra in effetti essersi bloccata allo stato di progetto, di costruzione o ri-costruzione. E la realtà meridionale permane un fattore problematico (non l'unico, certo) difficilmente integrabile, talvolta del tutto indecifrabile per i centri del potere politico e culturale. in letteratura o in pittura, gli uomini del Meridione hanno potuto, avendone il talento, esprimere se stessi e il proprio mondo, con occhio lucido oppure visionario: lanciando messaggi da luoghi geograficamente remoti, molti di loro hanno superato d'un balzo il cronico provincialismo di tanta pseudo-cultura italiana inserendosi di diritto nel panorama europeo. E' sempre stata, questa, la forza della provincia: non solo meridionale e non solo italiana.
Ma letteratura e pittura sono arti o pratiche individuali, richiedono una struttura di supporto economico tutto sommato limitata: sono accessibili, fino a un certo punto, anche a chi resta ai margini dell'apparato produttivo. Non così il cinema. Qui l'intelligenza degli artisti meridionali che vi hanno profuso idee ed energie (penso ad Alvaro, allo stesso Brancati, e sono solo i primi che vengono in mente) ha sempre dovuto interagire con altre personalità, esigenze diverse, resistenze di ogni tipo; e bisognerà parlare anche di certi periodi di oscurantismo tutt'altro che lontani o dimenticati, in cui l'arroganza fu promotrice di confusione e d'ipocrisia: al cinema fu ben presto dedicata una pesante attenzione, poiché in esso si riconobbe il mezzo più moderno ed efficace di controllo dell'immaginario collettivo (prima che la televisione si rivelasse, a tal fine, uno strumento ben più duttile e penetrante).
L'incrocio tra politiche culturali e interessi economici dell'apparato industriale e distributivo è una macchina complessa con la quale il cinema ha dovuto misurarsi fin dalle origini, in una mediazione necessaria e spesso frustrante tra le aspirazioni artistiche e le leggi mercantili del denaro e del commercio dei cervelli.
Non che al Sud siano del tutto mancati i tentativi di investire capitali per la creazione di qualche piccola ma funzionale rete produttiva. Ma il senso di queste operazioni è venuto a mancare quando è mancato il coordinamento con le forze genuinamente creative 'in loco': invece di dare un taglio alternativo, decentrato, alla politica culturale, si è preferito entrare in competizione sul terreno stesso dei grossi apparati industriali del Centro-Nord. Ma a parte i probabili errori di fondo, resta da verificare quanto una vera autonomia di scelte nella produzione di film fosse proponibile nel clima particolare degli anni '50. Non si trattava solo di assicurarsi una solidità finanziaria: in mancanza di funzionali connivenze e concordanze di propositi con i responsabili degli indirizzi ideologici dominanti a livello nazionale, lo stritolamento era forse inevitabile.
Indicativa dell'atmosfera poco respirabile del tempo, tra altri documenti ufficiali dello stesso umore, è la lettera tristemente famosa di Giulio Andreotti sul neorealismo: "... se nel mondo si sarà indotti erroneamente a ritenere che quella di Umberto D. è l'Italia della metà del ventesimo secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria che è sempre la patria di Don Bosco, del Forlanini, e di una progredita legislazione sociale ... ".
Un caso da manuale resta quello di De Santis, il non dimenticato regista di Riso amaro (1949) che sconta a tutt'oggi, nei lunghi anni di disoccupazione e di oblio da parte dei produttori, la caparbia fedeltà a se stesso e alle proprie idee. Dall'analisi di Riso amaro, sanguigno dramma contadino ambientato in una risaia del Nord tutt'altro che impenetrabile ai nuovi miti post-bellici (la scena famosa del booge-woogie, che ha consacrato la Mangano a nuovissima 'diva'), si dovrebbe partire per un discorso 'trasversale' sul cinema italiano, che esplori attraverso i f_lm le linee di fusione e di attrito tra civiltà agricola e nuova civiltà metropolitana, tra campagna e città come archetipi di una società in rapida e talvolta isterica trasformazione. Sarebbe, evidentemente, una lettura lungo la linea verticale dei meridiani, se si preferisce lungo la dorsale appenninica, tanto più utile se riuscisse a mettere con le spalle al muro dell'evidenza vecchi e nuovi pregiudizi, vecchie e nuove interrogazioni tendenziose su dove corre il parallelo di frontiera tra ciò che è presumibilmente Italia e ciò che presumibilmente è qualcos'altro.
De Santis comunque, dal suo "esilio" morale, ci fa sapere che "se avessi potuto, per tutta la mia carriera avrei fatto solo film sul Sud"; ed è forse simbolico che questa panoramica sui rapporti tra Meridione e cinema, volendo "zoomare", com'è necessario, sui singoli film, si trovi sin dall'inizio a confronto con un oggetto mancante: un film che doveva esserci e invece non c'è.
Ebbene: paradossalmente (ma non troppo) questo non-film, per il suo non-esserci, costituisce un episodio importante della storia che stiamo raccontando. Ci conforta l'idea, anche se non potremo mai vederlo, che abbia comunque un suo luogo nel mondo, nella mente di chi lo ha progettato e scritto; magari nel cassetto più remoto della scrivania di Giuseppe De Santis. Ha anche un titolo, bellissimo: Noi che facciamo crescere il grano.
Il progetto traeva spunto dai "fatti" di Melissa del '49: in seguito ad un tentativo di occupazione delle terre latifondiarie da parte dei braccianti di una remota contrada calabrese (i quali tra l'altro rivendicavano l'applicazione di una legge governativa in loro favore), ci furono incidenti che costarono la vita ad alcuni degli occupanti. Secondo le parole del regista stesso, "certo resterà come uno degli episodi più brutali nella storia delle rivendicazioni contadine nel nostro paese".
La sceneggiatura fu scritta in gruppo: fra gli altri, Corrado Alvaro partecipò alla prima stesura del trattamento.
Lavorando di fantasia, e soprattutto pensando agli altri film che compongono la virtuale "tetralogia della terra" desantisiana (Caccia tragica, Riso amaro, Non c'è pace tra gli ulivi), possiamo immaginarci con una certa sicurezza come sarebbe stato questo film abortito in stato avanzato di gestazione. Non è forse superfluo ricordare quanto De Santis rappresenti una personalità atipica, originalissima in seno al cinema neorealista: il suo rapporto saldo e profondo con il mondo popolare si esprime non solo nella scelta dei temi, ma soprattutto nella scelta stilistica, nel trattamento "a tinte forti" di trame e personaggi. I toni sono di una drammaticità corposa, acre, palpabile: quanto di più lontano dalle estenuazioni moraleggianti di un neorealismo ormai irretito nel suo eterno problema di rapporto con le masse che non riesce a raggiungere; variazione popolare o anche populista del neorealismo, l'arte di De Santis è invece conforme alla cultura del "suo" pubblico. Noi che facciamo crescere il grano sarebbe stata, programmaticamente, un'opera "corale", di un forte impatto emotivo magari raggiunto attraverso i moduli del melodramma, della caratterizzazione spinta dei personaggi: moduli di una mitologia popolare ancora non degradata dall'importazione di nuovi simboli dello sviluppo e del consumo. E tuttavia un'opera progressista, di un'ideologia non ambigua e non semplificatoria: il treno, anch'esso un simbolo "forte" nell'immaginario non solo cinematografico, porta il progresso nella persona del maestro elementare che sarà il promotore dei fatti, ma l'azione di costui si innesta in un mondo di comunicazione orale che costituisce, per De Santis, uno dei valori fondanti della civiltà agricola minacciata da ogni lato.
Ad un certo momento -ricorda il registala Lux si rifiutò di produrlo, disse con estrema chiarezza che non era il momento opportuno". Momento francamente "inopportuno" infatti quello in cui, a parte la citata lettera di Andreotti, lo stesso ministro Tupini scrive a dei non meglio identificati produttori: " ... questo sistema dei soggetti malsani e scandalosi deve cessare... a partire da questo sarò severissimo in materia di censura, rivedendo in pieno i criteri per me di eccessiva larghezza usati fino a questo momento ... rifiutandomi di firmare, com'è mio diritto, permessi di proiezione in pubblico, anche se con parere favorevole delle commissioni di censura ... ".
Negli anni '50, è ancora De Santis a ricordarlo, "i produttori presentavano al Ministero Turismo e Spettacolo le sceneggiature per chiedere l'approvazione"...
Per quel che vale la notazione, De Santis è nato a Fondi (Latina).
E' un figlio di quel mondo agricolo del quale ha sempre voluto parlare, con entusiasmo ed impegno morale rari, soprattutto in quell'epoca. Ha subito una rimozione, come spesso accade alle "voci di dentro" quando dicono verità scomode. Del resto anche Andreotti è ciociaro, proprio come De Santis.
L'impressione generale, nel dopoguerra e fino agli anni '60, è quella di un ostinato riserbo, scelto o imposto che sia, dei meridionali sul Meridione nel discorso cinematografico. Si avverte l'assenza (ancor più inquietante se comparata con la fertilità della produzione letteraria in ambito neorealista) di posizioni critiche sincere, storicamente aggiornate, che aspirino ad avere un qualche peso sul chiarimento della realtà e dei problemi in gioco in quella parte d'Italia. Non possiamo dei resto stupircene, vista la facilità e rapidità con cui "si brucia" un autore pur discretamente produttivo in senso economico, come De Santis, ma con poche doti di diplomazia e di mediazione: ovvero, privo di spirito "di servizio" (servile) nei confronti della patria.
Una rapida scorsa ad una filmografia "mirata" sul Meridione al cinema negli anni tra ricostruzione e "boom" (adottiamo le brutte periodizzazioni che dalle pagine dei quotidiani sono passate nel vocabolario degli storici) ci lascia comunque con un vago senso di frustrazione: col sentimento, come si diceva, di un silenzio, di un discorso non fatto.
Non mancano, per fortuna, le perle: spiccano i mitici affreschi di Rossellini e Visconti. Paisà (i primi due episodi sono ambientati rispettivamente in Sicilia e a Napoli) è del '46; La terra trema, del '48.
Personalità diversissime, che approderanno ben presto a concezioni del cinema - e della vita - antitetiche. Dopo aver regalato al neorealismo i suoi gioielli migliori e più puri, entrambi seguiranno altre strade fra loro divergenti. Ma la fine recente della guerra, con tutte le difficoltà e le rapide trasformazioni sociali in atto, coi suoi traumi e con la vitalità della fede nel futuro, indispensabile in quel momento, rendeva possibile il ricorso a ideologie "forti", da tradurre in scelte espressive estremistiche, nel senso di una chiarezza formale altrettanto decisa. La realtà italiana dell'immediato dopoguerra non è fatta di sfumature, di morbide tinte grigie: non trascolora, non media. i chiaroscuri sono profondi, aggressivi: bianco e nero assoluti, non c'è ambiguità: poiché è il momento dell'azione, anche al cinema. Un momento magico; la Resistenza sembra aver lasciato a tutti in eredità una coscienza eroica.
Rossellini e Visconti, metropolitani per nascita e per educazione (il primo è nato a Roma e il secondo a Milano, entrambi nel 1906), trovano al Sud i colori adatti a questa visione del mondo: o meglio, poiché il B/N è la misura visiva del discorso neorealista, vi trovano le luminosità spinte, i bianchi accecanti dei muretti alla contr'ora, i neri abissali dei vestiti delle donne o degli occhi dei loro figli; la stilizzazione di un paesaggio pietrificato che fa resistenza alla storia eppure la nutre dei suoi umori più sani, attraverso radici tanto più forti perché costrette a cercare l'acqua in profondità. I loro film sono grandi poemi di lotta, affreschi di nobile risentimento morale: il Sud è lo spazio ideale dell'epica, meglio che della tragedia classica: poiché l'esito in perdita dei conflitti è tutt'altro che scontato. E' il tempo sospeso della passione umana in lotta con gli elementi, materia di una potenziale parabola universale.
La grandezza di questi film, in fondo, è proprio quella di non essere meridionalisti, anche se sono intrisi di profondo, rispettoso amore per i paesaggi, i volti, la vita stessa delle genti meridionali.
Ma è una consonanza spirituale tra gli artisti e la materia che scelgono, che piegano al loro assunto esistenziale o politico. Si pensi a La terra trema, a come Visconti "riscrive" con innegabile vigore creativo la vicenda dei Malavoglia verghiani. Arretra di più di un passo, come per prendere lo slancio, rispetto alle conquiste linguistiche del verismo: in Verga la parlata nativa della comunità siciliana si trasfigura con forza puramente lirica in un italiano che miracolosa mente mantiene tutta la naturalezza sintattica e lessicale del dialetto, proprio mentre supera decisamente la dialettalità. Visconti risale al vernacolo più stretto e arcaico - tanto che nella prima versione il film ebbe bisogno, com'è noto, di essere sottotitolato in italiano - come per prescindere da ogni filtro culturale, con la macchina da presa come strumento di un "regresso lungo i gradi dell'essere" (che Pasolini teorizzerà pochi anni più tardi) che aderisca senza mediazioni alla verità materiale e umana. Da qui, da questa realtà radicale, lo slancio verso l'utopia acquista la forza dell'irreversibilità: utopia "nella" storia, nel futuro che gli uomini scrivono con l'azione: e anche fare un film, in questo momento magico, "è" azione. 'Ntoni Malavoglia, il vinto della letteratura, ha un alter ego nel cinema, che rema vigoroso nell'ultima sequenza, reso determinato dalla consapevolezza di sé e di ciò che determina il suo presente, verso la storia: che è sempre futura, progressiva, "terrena utopia".
Rossellini da parte sua, cambiando le coordinate morali del suo operare nel cinema, resterà sempre legato alla fascinazione arcaica di questo mondo "altro" del Sud: pensiamo a Stromboli, terra di Dio (1951) per esempio, dove il vulcano diventa il simbolo di un sentimento religioso e feroce della natura, di un rapporto tra uomo e mondo che è fuori della storia e dell'evoluzione. Siamo alle radici del pensiero mitico, nel tempo ciclico delle stagioni e dei rituali che danno un senso al quotidiano degli uomini. La nordica Ingrid Bergman è protagonista di un itinerario di liberazione ormai solo spirituale (non più politica, non più credibile "nella" storia per Rossellini) che passa per l'accettazione del mistero e delle sue leggi.
Ritorniamo alla nostra filmografia, che costituisce un utile panorama di quello che fu "l'occhio cinematografico" sul Meridione nel ventennio che va dalla fine della guerra alla prima metà degli anni '60.
Se i film d'autore brillano di luce propria, a parte questi risulta difficile emergere con qualche filo esplicativo dal marasma seriale di una produzione medio-bassa affollata di popolani canterini che tentano la scalata sociale sulle ali del "dono" folkloristico della musicalità, si perdono nei tentacoli di un mondo in cui il denaro ha corrotto i sentimenti e alla fine, grazie alla destinazione della fidanzata (o viceversa, del fidanzato), fedele custode dei valori semplici e "buoni" del mondo d'origine, rientrano in seno alla comunità abbandonando ogni pretesa di mobilità sociale o, peggio, di diritto alla trasgressione.
Le variazioni sul tema sono minime: "giovane tramviere diventato cantante trascura fidanzata"; il tramviere può essere stonato, ma si innamorerà di una cantante di tabarin e il risultato sarà lo stesso. Il secondo passo è l'accusa (rigorosamente falsa) di qualche delitto orribile: traffico di stupefacenti, omicidio. Naturalmente l'ammonimento sotteso è che si rischia parecchio cedendo alle tentazioni di questo inferno imbellettato e artificioso che è il mondo dello spettacolo, prototipo comunque di qualsiasi "altro mondo" rispetto a quello in cui si ènati: un breve periodo di galera, in fondo, per lo sventato protagonista è più che meritato e salutare. Anche perché lui ha sempre un cuore d'oro, una rettitudine connaturata che solo la gioventù ha indotto per un istante a traballare: e cosa non si perdonerebbe alla gioventù, dopo una sana sculacciata in perfetta linea con un modo di educare popoli e figli che pare tanto italiano, mani lunghe e retorica della lacrima facile?
Tirando per i capelli la sociologia in questo mondo cinematografico di poche pretese ma, a quanto sembra, caro a una "audience" potenzialmente immortale (basti pensare a fenomeni regionali come quello di Nino D'Angelo, che ha ripetuto furbescamente e con grande precisione, in tempi recenti, proprio gli stessi schemi), ne risulta. l'immagine preoccupante di una collettività bloccata, a cui è negata l'apertura e la crescita prima di tutto economica. Una società di recente inurbazione che annega nel terziario, cronicamente improduttiva, a cui non resta che credere nel miracolo (l'eredità dall'America, un terno al lotto, il dono del bel canto) per aprirsi una strada almeno all'illusione del cambiamento. Che il cambiamento stesso, poi, sia in linea di massima censurabile in quanto generatore di un presunto disordine morale, è una questione delicata, che chiama in causa gli orientamenti culturali funzionali alla gestione del potere e del malessere collettivo, o del potere "nel" malessere.
Naturalmente resta il dubbio che una lettura "apocalittica", in questo caso, sia un po' fuori misura, dovendola applicare a una produzione dichiaratamente disimpegnata e d'evasione, allora come oggi. Ma se è vero, e lo è, che i condizionamenti serpeggiano occulti, sotto traccia e sotto coscienza di chi li subisce e magari anche, chi può dirlo con certezza, di chi li opera (dato che si mettono in atto codici di comunicazione condivisi quanto interiorizzati), se questo è vero, è meglio per chiarezza esagerare, e attribuire ai produttori di messaggi troppa intelligenza dei mezzi e dei fini piuttosto che troppo poca.
Allora si spiega anche l'"evergreen" di questi moduli: per i giovani napoletani o calabresi, o di qualsiasi altro angolo di terra meridionale, le alternative sono sempre le stesse; e i magnifici e progressivi destini della patria, a queste latitudini, hanno la realtà, al massimo, di uno spot pubblicitario in televisione. Ad un futuro di emarginati o di "marginali" rispetto ad una società che, invece, cresce in potere seduttivo, si sfugge o per miracolo (come assicura il cinema, ed è bello crederci) o diventando criminali (poiché la realtà, appunto, èun'altra cosa).
Oppure si fugge materialmente, si emigra. Il cinema ha questa grandezza, fra le altre: è, di fatto, un repertorio inesauribile di miti. Per ogni scelta individuale, eroica o meschina, per ogni non-scelta, sconfitta, vittoria, soluzione reperita o negata al proprio problema reale, esiste un "doppio", un alter ego nella storia dei film e dei personaggi cinematografici. Non mi riferisco ai ben noti meccanismi della proiezione e dell'identificazione, che ci permettono di vivere sullo schermo, "per procura", il nostro desiderio inespresso o inappagato. Penso piuttosto a una "conferma di realtà", della propria realtà, che forse è sempre stata l'esigenza fondamentale che ha indotto l'umanità ad inventare storie, e a raccontarsele. E può darsi anche che questa sia la chiave (una chiave) della concezione viscontiana, fantastica e un po' oscura nella sua formulazione com'è giusto che sia, del "cinema antropomorfico". Il cinema come inesausta esplorazione dell'umano, con nuovi mezzi espressivi e tecnici, inventati dagli uomini.
Penso a Rocco e i suoi fratelli (1960), ovviamente. E' ancora l'aristocratico Visconti che sembra seguire negli anni il percorso esistenziale, politico, economico dei pescatori di Aci Trezza. Resta il nucleo familiare come estrema difesa di un'ultima, disperata appartenenza nei confronti delle aggressioni dell'ambiente; cambiano i nomi e i volti, cambiano i moduli cinematografici.
Agli entusiasmi sperimentali del neorealismo più impegnato e coerente è subentrata la coscienza chiara delle leggi del mercato e dell'immaginario, e soprattutto una riflessione approfondita sui mezzi e i fini del "realismo" nell'arte.
Come insegnano con esempi luminosi i grandi romanzieri dell'Ottocento europeo, il discorso sulla realtà che voglia incidere, "educare le coscienze" alla riflessione critica, "spaccare" questa realtà con occhio clinico, passa per la grande narrazione più che per la descrizione, per l'invenzione di personaggi e di storie piuttosto che per il documentario. Il volto divinamente bello di Alain Delon pestato e rovinato dai pugni agisce sull'immaginario collettivo con più violenza, più devastante forza d'urto di quei tratti pure umanissimi dei pescatori siciliani di La terra trema, impenetrabili come il loro dialetto.
Rocco è un grande successo di pubblico, nella stagione cinematografica 1960/'61. Il dato più interessante di questo successo, d'altra parte, è che ad un'accoglienza benevola ma non esaltante nelle prime visioni cittadine succedette un vero e proprio exploit nella seconda fase della programmazione, sul circuito delle sale provinciali e popolari. Il risultato non èperò sorprendente: attesta la perfetta riuscita di un'operazione i cui elementi erano stati calcolati con matematica precisione. Rocco e i suoi fratelli, in questo senso, è il frutto di un'imprenditorialità culturale che, se più spesso si vorrebbe vederla all'opera per la salute del cinema italiano, solo in casi eccezionali è o è stata messa al servizio della qualità.
Il film funziona perfettamente perché recupera in senso forte, senza ambiguità e senza ironia, i modelli della letteratura popolare, del melodramma, del feuilleton: un'operazione già tentata da De Santis, ma con in più le stimmate dell'arte in questo caso, grazie anche all'olimpica, inattaccabile fama del suo autore. La lotta ancestrale tra fratelli vive nella chiara e netta separazione tra il buono e il cattivo (Rocco e Simone); la donna perduta (Nadia) è generatrice di discordia, sconvolge l'equilibrio dei rapporti. Il suo possibile riscatto è comunque destinato al fallimento, perché una logica ferrea pretende il sacrificio di una vittima per la soluzione dei dramma; c'è poi il geniale riferimento ad un nuovo folklore metropolitano (ma è anche un omaggio trasparente alla storia del cinema, persino nel nome del protagonista e nella scelta dell'attore: Rocco come Rocky Marciano, Paul Newman -un altro "maggiorato"- in Lassù qualcuno mi ama): l'eroismo degradato della boxe, contraltare maschile del mondo della prostituzione.
I cinque fratelli Parondi, proletari lucani trapiantati a Milano, con i loro caratteri ben differenziati, col contrasto delle psicologie e delle scelte morali, costituiscono un repertorio completo delle possibilità, in negativo o in positivo, nel segno dell'autodistruzione o dell'integrazione, che si prospettano al figlio sradicato di una società agricola e arcaica (portatore di una forza e purezza di sentimenti e passioni che ha comunque una valenza positiva rispetto all'alienata disumanizzazione della metropoli) nell'impatto con la modernità.
Fra i due estremi antitetici della presa di coscienza ideologica (aspirazione razionale dell'autore espressa nel monologo conclusivo di Ciro, il fratello operaio) e dell'annullamento di sé nel delitto (Simone), la scelta più difficile, più emozionante e intimamente partecipata resta quella di Rocco-Delon: il più "poetico", il più apparentemente inerme tra i personaggi della storia. Nella forza delle proprie radici, nell'amore viscerale per la terra amara dei padri, reso fecondo dall'esperienza del dolore e della lacerazione, egli trova il modo di reperire una soluzione possibile di sintesi, non compromissoria ma alternativa alla prospettiva di perdita di sé che è stata un rischio reale per generazioni di emigranti. Il ritorno interiore alla terra antica, per libera scelta, con nuova e piena coscienza di ciò che deve cambiare e di ciò che invece è indispensabile difendere dal cambiamento.
E' in questa apertura, in questa chiarezza che palpita il senso della storia viscontiano, al momento della sua piena, vigorosa maturità. Non è più la giovanile baldanza dell'epilogo di La terra trema; non ancora il senile disincanto del Principe di Salina nel Gattopardo ("è necessario che tutto cambi, perché tutto resti com'è").
Aver fatto passare il senso della storia attraverso i moduli di narrazione cinematografica più accattivanti per il pubblico; aver assecondato l'immaginario popolare senza nulla concedere al populismo; aver saputo usare, se vogliamo, una vibrante retorica ma per una volta non allo scopo di inquinare le menti, piuttosto di svegliarle dall'assopimento: tutto questo costituisce il miracolo non ripetuto di questo film, insieme al suo magico equilibrio di splendore formale e di secca, spigolosa stilizzazione degli elementi che agiscono a comporre destini individuali e altamente simbolici al tempo stesso.
Prendiamo atto della realtà: le operazioni più ambiziose di lettura della "questione meridionale" nel senso del passaggio dalla cronaca alla storia, dal neorealismo al realismo (quasi un'ossessione teorica di realizzatori e critici militanti nel periodo che fu detto "dell'impegno") si devono a un intellettuale milanese la cui vasta cultura si apriva per più versi a suggestioni
mitteleuropee. Detto questo, dobbiamo forse chiederci se non sia il caso di continuare a cercare altrove, in "aure" meno rarefatte di quelle che l'arte è abituata a respirare, la voce onesta del Meridione: la cronaca umile e orgogliosa che si misura con la realtà dei fatti quotidiani. Ricerca non facile, diciamolo subito. Al di là della maniera zuccherosa di un folklorismo da sempre logoro e striminzito, ma anche al di là delle consolazioni bozzettistiche di miglior fattura, che pure hanno dato frutti di qualche piacevolezza (Pane, amore e fantasia e relativi epigoni, al cinema o in televisione, hanno rallegrato gli spiriti di svariate generazioni di spettatori), il quotidiano meridionale è fatto anche, per alcune fasce di popolazione, di un confronto stressante con la miseria e con il delitto. Quest'ultimo soprattutto, che si allarga nel tema del confronto dell'uomo comune con la legge, ha dato luogo a una produzione piuttosto fertile negli anni '50 e dintorni, che interessa particolarmente perché se ne può seguire l'evoluzione: da una sostanziale ambiguità e confusione (ideologica ed etica) nell'atteggiamento di cineasti e produttori, fino alla piena maturità e quindi al superamento del genere "brigantesco", conquistati con il Salvatore Giuliano (1962) di Francesco Rosi. Torneremo a parlarne tra poco.
Per completare le coordinate del quadro occorre però indicare un terzo tema, che sembra essere trasversale a tutte le classi sociali: si innerva nell'ispirazione dei cineasti come un basso di sottofondo, suscettibile di infinite variazioni timbriche e ritmiche capaci di determinare il "movimento", possiamo anche dire il genere, del singolo film. il tema dell'onore.
Non è certo una scoperta che il cinema possa rivendicare: i caustici umori dei romanzi brancatiani hanno già avuto il modo e il tempo di mettere in berlina, di svuotare dall'interno, fino a farne dei fantocci ridicoli e depressi, certi prototipi di comportamento. Su questi il cinema degli anni '50/'60 potrà infierire senza alcun merito di rivelazione (che non sia legato alla forza divulgativa, al mordente che può avere sull'opinione pubblica il cinema in se stesso): il gallismo, la gelosia, il falso mito della virilità.
Leonardo Sciascia, che accogliemmo come guida al momento di intraprendere questo percorso, ci aveva avvertiti dall'inizio: la letteratura, quasi sempre, è arrivata "prima". E ha raggiunto, nella satira di costume, sottigliezze ed incisività ineguagliate al cinema, rispetto alla realtà meridionale.
La commedia all'italiana, una grande invenzione cinematografica che pure non lesina umori aggressivi o feroci all'indirizzo di molti stereotipi sociali vecchi e nuovi, si attesta in generale su una "aurea medietas" (tutt'altro che aurea in questo caso) di marca romanesca: medietas linguistica e sociale a cui le varie municipalità hanno contribuito nell'intrecciarsi dei flussi migratori post-bellici, che nella capitale trovano un ideale fulcro anche geografico.
Il Sud, nella sua specificità, resta ai margini di quest'ispirazione. Per rimanere nel mondo di Brancati, le trasposizioni tentate dai milanesi Comencini (Il bell'Antonio, 1960) e più tardi Lattuada (Don Giovanni in Sicilia, 1967, un frutto decisamente tardivo di quella stagione cinematografica) stemperano molto la cupa e controversa satira dei romanzi: le linee di greve moralismo che davano spessore ai personaggi si risolvono volentieri in una caratterizzazione umoristica, ai limiti del bozzetto, di più agevole lettura e venata di una superiore tolleranza. Restano opere garbate, di un abile artigianato che strizza coscienziosamente l'occhio da una parte alla cultura, dall'altra alle presunte preferenze e idiosincrasie del pubblico "medio", oggetto e soggetto dello spettacolo.
L'unico, forse, che sia riuscito a importare a Sud i succhi corrosivi della commedia all'italiana è Pietro Germi: probabilmente perché ben corrispondevano al suo spirito, secondo l'aneddotica degli addetti ai lavori, misantropo e tagliente. In Divorzio all'italiana (1962) soprattutto, ma anche in Sedotta e abbandonata (1964), di cui resta in mente l'interpretazione di una giovanissima Stefania Sandrelli, l'arretratezza e le contraddizioni dei costumi siciliani sono osservati con occhio visceralmente settentrionale (Germi era genovese) ma senza alcuna indulgenza paternalistica, anzi con una malignità che, anche se mira a suscitare il riso o il sorriso, lo costringe subito in una smorfia fra l'amaro e l'imbarazzato.
La trama ingegnosa di Divorzio all'italiana ci sarebbe bastato trovarla grottesca, goderne quella vena di humor nero che la avvicina a certe parodie di genere di cui Buñuel resta il maestro insuperato. Un marito insoddisfatto, per liberarsi della moglie virtuosa, le procura un'amante; può così coglierla in flagrante e "lavare" l'"onta" dell'adulterio uccidendola, tra l'approvazione pubblica e con la matematica certezza di cavarsela senza danno anche di fronte alla legge, grazie alla clausola attenuante del delitto d'onore. Ciò che disturba, giustamente, èil fatto che non si tratta di parodia, bensì di rappresentazione di una realtà: tirata agli estremi, spremuta fino all'osso, sia pure. Ma i dati sono incontestabili, a partire dalla legislazione. Il volto "nazionale" di Mastroianni, nella persona del protagonista, dà un respiro sovra-regionale al tema; e se questo da una parte rilassa gli animi per la ben nota consolazione del "mal comune", dall'altra è un tocco di sottile diavoleria da parte del regista, che allarga il disagio e il coinvolgimento a una platea potenziale vasta quanto tutta l'Italia.
Germi deve molto al Sud in termini di ispirazione, anche prima di questa sua fase della commedia borghese più o meno tinta di nero.
E' tra i primi, il primo addirittura in quanto a consapevolezza "strategica", a scoprire nel Meridione una sorta di "Far West" nostrano, repertorio appassionante di ambientazioni suggestive e di primitivi conflitti fra uomini e donne "sulla frontiera" della civiltà: materia ideale per l'applicazione casalinga delle perfezionate ricette della cinematografia americana che comincia, all'inizio del '50, ad invadere gli schermi.
Saranno in molti a credere alla possibilità e al vantaggio prima di tutto commerciale di questo travaso di modelli. Sembra che durante la prima metà degli anni '50 le zone più tradizionalmente dimenticate dell'entroterra meridionale (soprattutto calabrese) pullulassero di set cinematografici.
Perché l'operazione avesse un senso, restava comunque il problema di reperire o inventare una qualche possibile "mitologia di massa" che tenesse il ruolo di quella che era stata l'epica dei pionieri nel western d'oltre oceano. Se la ricca vena da sfruttare era quella del conflitto fra l'individuo e la legge in quanto regola comunitaria già costituita o in via di costituzione, applicare il modello a questa realtà, agricola e pastorale, "ai limiti" dell'Italia in via di modernizzazione, voleva dire prepararsi a parlare, col cinema, di banditismo e di mafia.
Si scelse la strada più comoda, e meno suscettibile d'inciampi anche di tipo governativo, del recupero di una tradizione soprattutto orale ancora ben viva (tra storia, leggenda e cronaca recente) centrata sulle gesta dei vari briganti, eroi disadattati di una popolazione e di una terra da sempre deprivate, da sempre contese alla conquista di vecchi e nuovi padroni.
La sezione di realtà che si vuole mettere a fuoco, per quanto feconda di spunti spettacolari, è irrimediabilmente meno "vergine", storicamente parlando, della "nuova frontiera" americana. In questa situazione l'alternativa che si pone è stringente, per non dire fittizia: visti anche i condizionamenti di contorno alla libertà del discorso cinematografico (è sempre bene tenerli presenti, affinché le responsabilità di certe carenze, confusioni o mistificazioni restino chiaramente suddivise): andare a fondo in un'analisi "clinica" (anamnesi e descrizione) dei fenomeni, oppure bluffare sulla presunta ingenuità del mito popolare: sfrondare l'eroe e la trama di tutte le valenze che possano implicare la riflessione e l'indagine da parte dello spettatore, meridionale soprattutto, e imbandire a quest'ultimo una bella storia digeribile, che ne solletichi l'orgoglio e ne sublimi il giusto risentimento: ambiguità o reticenza sono pedaggi calcolati del mestiere; senz'altro più grave, per le sue conseguenze, è il rischio che si corre se si rende "un cattivo servizio all'Italia", come recitano i profeti del "nuovo corso" culturale. Germi dà il suo contributo al filone con Il brigante di Tacca del Lupo (1951), tratto dal racconto omonimo di Bacchelli; protagonista d'obbligo èAmedeo Nazzari, perfetta incarnazione di un'umanità "d'indomita fierezza", come certamente l'avrebbe descritto un trailer dell'epoca. Trame, personaggi, titoli si sovrappongono nella memoria, grazie anche alla costanza con cui si ripropongono gli interpreti, da un film all'altro. Nazzari, qualche anno prima, era stato Il lupo della Sila, per la regia di Duilio Coletti (1949); il prologo di quest'ultimo film ben si adatta a tutto il repertorio, e dà la misura precisa dell'immagine "esportabile" del Meridione, concepita con un occhio, anche, alla promozione turistica: "Un paesaggio di aspra bellezza, tra laghi azzurri e boschi impenetrabili, dove la gente vive lontana dal mondo e dalle sue leggi e le passioni elementari - l'odio e l'amore - divampano come un fuoco che distrugge e purifica".
L'idea è quella di realizzare prodotti vendibili sul mercato italiano e possibilmente anche all'estero; le velleità artistiche sono messe da parte, e tanto più quelle di denuncia. La malavita organizzata, come apparato di potere e di controllo sull'esistenza di individui e gruppi, non entra in questo mondo ricostruito al cinema che per accenni, e comunque non è mai tematizzata: alla mafia si riconosce uno "status" sociale, c'è l'ammissione di esistenza del fenomeno, ma non del problema. La ribellione individuale è esaltata dal sentimento, ma alla fine esemplarmente punita, che si rivolga contro lo Stato o contro l'insieme dei codici non scritti degli uomini d'"onore". Gli eroi sono prestanti, vendicativi, cavallereschi. Ma quando si armano contro l'ingiustizia precipitano nell'inferno della colpa e dell'isolamento morale e materiale, si trovano ad essere senza scampo "dalla parte sbagliata". Il messaggio implicito fa gioco alla conservazione dello "status quo", statale o mafioso che sia, attraverso la catarsi liberatoria del sacrificio finale.
C'è in verità un precedente atipico, che si deve ancora una volta a Pietro Germi: In nome della legge è un film del '49: le connivenze tra mafia e politica, nella fattispecie il funzionamento omertoso ed elusivo della macchina giudiziaria in un paese dell'entroterra siciliano, sono parte integrante dell'intreccio. Si tratta pur sempre, ed è vero, di una funzione d'ambiente, concepita per contrasto al campeggiare solitario dell'eroe positivo: il giovane magistrato idealista (Massimo Girotti) raccoglie la sfida mafiosa in forza di un codice d'onore che in realtà condivide coi suoi nemici, e che lo chiama in causa dopo l'uccisione dell'unica persona, nella piccola comunità, che gli era stata amica.
Anche qui a Germi interessa un modo di fare cinema "d'azione", all'americana: il ritmo, il paesaggio suggestivo in cui può fare agire il suo sceriffo, una "terra bruciata" ai confini della legalità.
E' comunque un parlare, un mettere in campo una realtà: sia pure acriticamente, per esigenze più mitologiche che cronachistiche.
Per tutto il decennio successivo, come si è visto, anche questo sembrerà troppo. Lo stesso Germi si allontana dall'attualità per rifugiarsi, col film del '51, fra borbonici e sabaudi, senza per questo voler approfondire le cause storiche e sociali del brigantaggio più di quanto avesse fatto con la mafia.
Tra lo sceriffo senza stella di In nome della legge e il "bandito d'onore" di Tacca del Lupo, Germi trova il tempo di rivisitare in chiave mediterranea un altro standard del genere western: il viaggio, la carovana in cammino verso la promessa e l'avventura del cambiamento, in direzione di un relativo benessere sognato oltre frontiera. Il cammino della speranza (1950), ovvero l'odissea di un gruppo di diseredati che dalla miseria totale del profondo Sud risalgono l'Italia per tentare l'emigrazione clandestina in Francia, con la prospettiva di un'occupazione che assicuri, quanto meno, la sopravvivenza. Protagonista, Raf Vallone: un altro volto di questo "eroismo domestico" che costituisce pur sempre un'invenzione del cinema di Germi.
Nella storia del cinema come in qualunque altra storia delle prestazioni umane, etichette e periodizzazioni troppo rigide, se in qualche modo sembrano aiutare la memoria e la chiarezza del pensiero, in realtà pongono più problemi di quanti non ne risolvano. Non è ancora del tutto chiarita neppure la "querelle" intorno al neorealismo: se sia una questione di scelte tematiche, stilistiche o etiche da parte degli autori; se invece debba intendersi, oltre o prima dei casi individuali, come una produzione racchiusa in un arco preciso di anni, che corrispose a una determinata atmosfera politica e culturale. Ciascuno dei punti di vista contribuisce in parte a spiegare e in parte a confondere: in conformità con quello che si sceglie di adottare, i film entrano o escono dalla "scatola" del neorealismo, senza che quest'ultimo cessi di essere un oggetto un po' misterioso.
Per queste ragioni, a rischio di apparire carente nel metodo della ricerca, ho preferito evitare in questa sede di operare stacchi troppo netti fra generi, autori "alti" e "bassi", fasi cronologiche della produzione. Oltretutto, dove agisce l'ingegno individuale, ci s'imbatte continuamente in anticipazioni, ritardi, eccezioni: e dunque nella necessità di puntualizzare o riformare eventuali schemi preordinati. Un approccio più diretto con gli oggetti, che non esclude il tentativo di reperire linee conduttrici né la consapevolezza del diverso valore delle opere è sembrato il più adatto a guidare l'osservazione di un panorama quanto mai variegato.
Nonostante tutto, una cesura netta s'impone all'evidenza, e bisogna tenerne conto: è determinata da una situazione oggettiva in cui s'intreccia un ricambio generazionale con l'inizio di un'importante mutazione politica che approderà ben presto ai governi del centro-sinistra. Non del tutto arbitrariamente dunque ci permettiamo di tracciare una frontiera ideale in corrispondenza del cambio del decennio, fra gli anni '50 e i '60.
Anche per ciò che riguarda il cinema questa frontiera non è un "a priori", e risulta implicitamente anche nell'itinerario che fin qui siamo andati ricostruendo. Non per nulla il 1960 è l'anno di certe indiscutibili pietre miliari, che inaugurano sostanziali novità nel linguaggio cinematografico: La dolce vita, L'avventura di Michelangelo Antonioni, lo stesso Rocco e i suoi fratelli. Anche nel modo di affrontare le tematiche meridionaliste con cui si era fondato un "genere" brigantesco e mafioso dai canoni molto precisi nel decennio precedente, l'inizio degli anni '60 è investito da una ventata di originalità, segna uno stacco sorprendente. Sembra una fulminea presa di coscienza delle giuste coordinate necessarie a porre con chiarezza un problema, un nuovo coraggio, una volontà o piuttosto un'inedita "possibilità" di impegnarsi.
Ma non è un colpo di bacchetta magica. il cinema, anche qui, sembra arrivare un po' tardi: tradizionalmente sono gli anni '50 il decennio magnifico dell'utopia, dello studio amoroso di Gramsci (le "ceneri" di quest'ultimo, simbolo della fine di una stagione, sono oggetto di amarissima venerazione da parte di Pasolini, già nel '58). Chissà. Forse è vero il contrario: forse, mentre gli intellettuali sognavano i trionfi delle lotte operaie, con una certezza tanto ingenua, tanto poco vagliata alla prova dei fatti, da rendere bruciante (per alcuni intollerabile) la disillusione, il cinema già da tempo aveva dovuto accettare di misurarsi con la realtà. Tra minacce di schiacciamento da parte dell'avanzante macchina capitalista e splendidi guizzi di vitalità, che non mancarono mai, la "crisi" delle speranze post-resistenziali era già lungamente maturata e vissuta.
Molti scrittori e intellettuali della nuova generazione passano al cinema in questi anni: magari per aiutarsi a sbarcare il lunario, come sceneggiatori (Moravia, Pasolini, Bassani e tanti altri). Alcuni, come Pasolini, ne rimangono definitivamente conquistati.
Si opera un magico, fecondo travaso di energie: gli intellettuali portano al cinema, al "lavoro" nel cinema tutta la loro amarezza, il risentimento, ma anche un'educazione all'impegno, al rigore etico; una certa loro "purezza", tipica di una generazione, di un'esperienza comune. Nel cinema trovano un nuovo mezzo espressivo, e inoltre una potenzialità comunicativa sconosciuta alle lettere in Italia.
E' l'atmosfera generale che cambia: si discute di più, ci s'infervora, si polemizza anche a distanza sulla funzione del cinema nella società, sul suo linguaggio, sul ruolo educativo che può avere.
Cosa sono allora gli ultimi film del filone brigantesco, così diversi dai precedenti? Schegge impazzite del neorealismo al tramonto, qualunque cosa esso sia stato, oppure figli orfani senza passato, veri pionieri di una stagione nuova, forse più amara e disillusa di quella che sta terminando, ma per questo più sincera, più capace di guardare nel cuore delle cose, dato che alibi, espedienti retorici, secondi e terzi fini non reggono più?
Probabilmente l'una e l'altra cosa. C'è un fattore di continuità che non si può dimenticare: ad inaugurare il "nuovo corso" troviamo un vecchio leone (per quanto la definizione sia poco adatta ai tratti di morbido lirismo che furono tipici del suo cinema): Renato Castellani, il regista di Due soldi di speranza (1952), forse il frutto migliore della vena "elegiaca" del neorealismo. Il fatto interessante è che nel percorso di un singolo autore, che mantiene comunque tratti di forte continuità, possiamo misurare lo scarto profondo fra le epoche, che si esprime al meglio nell'elaborazione dei soggetti: dalla composta mansuetudine del povero mondo contadino, dipinto con toni tanto affettuosi e rassegnati da far pensare a un implicito invito all'inerzia, nel primo film, fino alla messa in scena addirittura del sogno di De Santis, l'occupazione delle terre in Calabria, con Il brigante (1961).
Non può che significare una variazione del clima, una diversa tensione morale che s'innerva nel cinema. E certamente anche un allentamento delle pressioni che avevano impedito a De Santis, dieci anni prima, di realizzare il suo progetto.
Castellani ovviamente non rinuncia a se stesso, e tratta la materia secondo la sua personalità: che non è quella di un lottatore, bensì di uno spirito umanitario e riflessivo. Non fa opera di critica storica né politica, né vuole farla. Il film si trova così inserito in una linea che è comunque "politica" per l'argomento che tratta, e risente dell'"aria del tempo" in cui è realizzato. ma il taglio lirico e le scelte formali rimandano ancora a un'ispirazione che ha il sapore delle cose trascorse. Esistono sempre dei ponti tra le epoche, nella storia degli individui come in quella della cultura.
E' Francesco Rosi, quarantenne all'epoca, napoletano, che opera il salto di qualità. Con lui il cinema prende coscienza della forza della propria voce, se a pochi mesi di distanza dall'uscita nelle sale di Salvatore Giuliano (1962) il Parlamento è indotto ad approvare la formazione di una commissione d'inchiesta sulla mafia, dietro richiesta dell'Assemblea regionale siciliana.
Rosi "inventa" una ricostruzione documentaria della vita e morte del bandito, in cui s'intrecciano funzione e documento vero e proprio, con uno spirito d'inchiesta che non lascia spazio a fantasticherie né alla ricerca di effetti spettacolari. Anche il filo narrativo non può che essere spezzato, frammentato da questa volontà di esplorazione che si scontra continuamente con i silenzi, i dubbi, i punti oscuri di una storia che neanche gli atti processuali hanno saputo o voluto chiarire fino in fondo.
Ne risulta un film di lettura "difficile", il cui montaggio complesso ed espressivo tenta una ricomposizione del mosaico dei dati; ma senza un apparente progetto, senza perseguire una tesi interpretativa. E questo ha un effetto ancor più dirompente, in quanto le implicazioni fra banditismo come ribellione individuale, mafia e politica non solo locale, ma anche e soprattutto nazionale, vengono in luce in modo incontestabile alla prova dei "fatti" mostrati (non raccontati): le forze in azione sono costrette a una sorta di "autodenuncia", perseguita impietosamente fino al punto in cui "i fatti" non parlano più, riaffondano nel mare dell'omertà, dei segreti del potere. In quel punto, per coerenza, l'inchiesta deve fermarsi. Non dà spiegazioni, poiché non ne trova. La strage di Portella della Ginestra rimane un mistero: per il regista e per gli spettatori, come per tutti gli italiani, contemporanei e non, che hanno avuto notizia del processo di Viterbo. Ma il mistero stesso in questo modo diventa oggetto di una denuncia aperta, fortemente aggressiva. Salvatore Giuliano, e questa è la tesi che fa del film un "discorso", che gli permette di superare il documentario mentre ne recupera la forte presa sulla realtà, non è che l'espressione di un ambiente, un prodotto che molteplici linee di forza hanno concorso a formare. La sfiducia secolare nella legge, l'assenza dello Stato come garante dell'individuo, o il suo eterno tradimento; i codici dell'onore mafioso; l'interesse di persone e gruppi di potere che storicamente, da sempre, fanno della rivolta uno strumento reazionario, il più pericoloso, il più disumano talvolta, nei suoi eccessi rabbiosi gonfiati e pilotati ad arte.
Un espediente formale corrisponde a quest'idea: centro dell'interesse non è il "personaggio", il bandito Giuliano, bensì le forze conniventi che hanno prodotto il fenomeno. Coerentemente, Giuliano non compare mai se non in campi lunghissimi, risolto com'è nei "correlativi oggettivi" che ne segnalano la presenza: uno spolverino bianco, un binocolo. Soltanto da morto il suo corpo ritorna presente, restituito al pianto lugubre delle donne.
Salvatore Giuliano già indica la strada futura e possibile del discorso sul Meridione attraverso il cinema: una strada apertamente "politica" che miri a svelare le facce controverse dell'isolamento, presunto e reale insieme, che ha segnato i rapporti tra pianeta/Sud e realtà nazionale. Un invito a sensibilizzarsi collettivamente su una realtà che è più vicina e coinvolgente di quanto talvolta non sia comodo pensare, o far pensare. Lo stesso Rosi, con Le mani sulla città (1963), supero anche il fenomeno mafia, con le sue appariscenze e le sue inquietanti verità sommerse. E' la speculazione edilizia, negli anni del cosiddetto "boom", il tratto saliente di una logica del potere e del profitto che trova al Sud le sue manifestazioni più eclatanti, per un'antica debolezza del tessuto sociale, ma che non smette per questo di minacciare di corrosione tutta la società. Si esigono risposte nel senso della democratizzazione, della maturità del vivere comunitario: la condivisione di oneri, responsabilità, idee, soluzioni. E' ancora oggi un messaggio di qualità, su cui varrebbe la pena di tornare a riflettere. Le cose d'Italia (e del mondo, a parte le ipocrisie degli aiuti ai Paesi "in via di sviluppo") vanno in tutt'altra direzione, lo sappiamo. Vale a dire verso un nuovo tipo di separatismo non propriamente minoritario, venato di un razzismo più o meno perbene nelle sue forme visibili; una presa di distanza da parte della società benestante nei confronti delle realtà "altre" che ne disturbano la serena produttività.
La demagogia leghista fa leva su una reattività diffusa, e sull'irrazionalità che ne consegue, con buona pace delle presunzioni manageriali e delle radici illuministe rivendicate dai leaders. Il cinema, in questa fase, sembra essersi ripiegato su se stesso.
Il Meridione tace di nuovo, deluso. O forse, come in passato, semplicemente occupato a sopravvivere, con l'ostinazione che è propria della suoi gente.


NOTA
Per la filmografia ho consultato la Piccola antologia dei film italiani del dopoguerra ispirati a situazioni o personaggi meridionali, a cura di Sandro Zambetti, in "Cineforum", anno VI, n. 57, settembre 1966.
Gli estratti dalle lettere di Andreotti e Tupini sono tratti da Gian Paolo Bernagozzi, Il cinema corto, La casa Usher, Firenze, 1979, pag. 39 (citato da Giovanni Scarfò, La Calabria nel cinema, Ed. Periferia, Cosenza, 1990, pag. 107).
Le dichiarazioni di Giuseppe De Santis sono tratte da Stefano Masi, De Santis, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1981; e da Giuseppe De Santis, Le battaglie sconosciute, in "Scena", n. 6/7, 1981.


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