§ Nostoi

I padri




Antonio Errico



- Ogni giorno mi dicevano un nome, un nome ogni giorno.
Ogni giorno si accalcava la folla sotto il palazzo. lo chiudevo porte e finestre per non udire le urla, mi cercavo la stanza più buia, cercavo il riposo, quel riposo che vogliono i vecchi quando il respiro è più ansioso, quando il cuore non vuole sussulti, non vuole passioni.
Ogni giorno mi dicevano un nome: mi dissero Folo, mi dissero Pandaro, Promolo, Tàmiro, Sagàri, Linceo. Io non sapevo chi fossero eppure pregavo per loro, come pregavo per lui, in silenzio, nascosto.
Non lo vedevo quasi più da quando era giunto il troiano. Mi evitava e forse anch'io lo evitavo. Sapevo che mai sarei potuto riuscire a mutargli il pensiero e lui immaginava che cosa pensavo di quanto accadeva. Poi sembrava che la sorte gli fosse propizia. Vinceva. Così dicevano tutti: che Turno vinceva. E mi portavano un nome ogni giorno come fosse un trofeo, nomi che ricordo o che ho scordato, nomi come lance dentro il fianco, coorti di fantasmi che frugano nel sonno.
- Hai scordato anche Pallante, Dauno.
- Molto ho scordato. Il tempo passa per questo, Evandro. Il tempo vuole scordanze. Anche tu hai scordato. Tutto si muta in immagine sbiadita, i volti che ci furono vicini si fanno sconosciuti, e ad ogni istante qualcosa si allontana da noi, per sempre. Si confonde, si nasconde nel fondo dei giorni, si chiude dietro le porte. Ci restano a volte soltanto visioni tremanti, un riflesso di fiamme morenti, memorie esitanti.
Così riusciamo a sopravvivere, lupi solivaghi, figure marginali lasciate in una trama a sentinella di un bivacco abbandonato, dilazioni del caso nel crepuscolo ombroso di una leggenda che nemmeno conosciamo.
- Io non ho scordato nulla, Dauno, nulla, anche se i ricordi, hai ragione tu, sono confusi, anche se confondo quel che è stato con quello che ho sognato. Ma dov'è la differenza, se c'è una differenza. I sogni sono a volte dolorosi più della realtà, e io quel pomeriggio non sapevo che fosse a procurarmi quell'angoscia.
Chiusi gli occhi. Una voce accanto a me mi disse Evandro, non aprirli mai più gli occhi. lo sentivo il sole penetrarmi nelle rughe delle palpebre, aspettavo qualcosa, non so, forse aspettavo che giungesse la notte come se la notte potesse nascondere la mia disperazione, sottrarla alla compassione.
Immaginavo che al buio sarebbe stato più facile fuggire lontano, fuggire dove avrei potuto ricordare da solo, in silenzio, morire da solo, in silenzio, come un cane malato che si allontana dalla casa perché il desiderio della vita non lo contagi ancora, non lo ossessioni ancora.
Dentro le mura i bambini giocavano. Giocavano ogni pomeriggio. Anche quel pomeriggio giocavano.
Non è successo niente, mi dissi, Evandro. Tieni gli occhi chiusi, stai sognando. Non è successo niente, stai sognando. Da qualche notte fai sogni paurosi. Pallante è lì che gioca coi compagni, se tieni gli occhi chiusi puoi vederlo. Tu stai sognando che sia trascorso il tempo. Ma non aprirli mai più gli occhi, Evandro.
Cercai la casa di mio padre per tutta la notte, per tutta la città.
Mai avevo visto una città così desolata, così incatenata ad uno sgomento.
Cercai la casa di mio padre per tutta la notte, per la città piena di tombe, di parole che non capivo incise sui muri, di resti di sventura abbandonati per le strade, di maschere di morti appese sulle porte, di cumuli di cenere, di statue abbattute, e scheletri, carcasse, bracciali d'oro e argento, tavole di scritture, rovine di obelischi, frammenti di pitture, di vasi in terracotta.
Figure terrorizzate si nascondevano dietro gli angoli, spiavano i miei passi incerti e stanchi: schiavi fuggiaschi, forse, o scampati ad un massacro.
Cercai la casa di mio padre, cercai mio padre che non conosceva il catalogo delle navi, non conosceva il rumore del racconto, forse neppure il sogno. Ma sapeva addestrare i galli da combattimento, costruire botti, prevedere il tempo; conosceva i posti buoni per svernare, conosceva i canti tristi dei pastori. Disprezzava i poeti, i flautisti, le tragedie, le parole di fumo, i guerrieri inventati, e lazzi, piroette, volti di farina.
Non conosceva il racconto mio padre. Conosceva tutti i trucchi con i dadi. Con i trucchi con i dadi strabiliava. E mi diceva bisogna avere il polso fermo, dita leggere, regolare il tempo del respiro, stai attento, mi diceva, non bisogna farsi prendere dall'ansia con i dadi.
Cercai tutta la notte la sua casa. Ricordavo che aveva la luna sulla gronda, i cani assonnati distesi sull'ombra, che aveva paura dei tuoni e il sonno leggero se il figlio tornava più tardi la sera.
Ricordavo i suoi occhi stanchi posati sulla striscia di luce della meridiana.
- Ogni giorno mi portavano un nome; ogni giorno io dicevo lo so che il nome un giorno cambierà, e sarà il suo nome, che mi porterete il nome suo un mattino, forse una sera.
Ma che sia tardi, che accada quando io non ci sarò, quando il vento mi avrà portato via, al di là di questo fiume, oltre quelle colline e quelle cime di nuvole, dentro quel chiarore profondo.
Dicevo un giorno il nome cambierà, e le labbra tremeranno, le vostre a pronunciarlo, le mie a udirlo, tremeranno le nostre mani dentro il vuoto che si aprirà improvviso intorno a noi, il vuoto in cui sprofonderà quel figlio, in cui sprofonderò io, padre, per cercarlo.
Questo dicevo ai suoi guerrieri. Questo io pensavo non vorrei: l'assenza di uno di noi. Vorrei, quando accadrà, che per incanto ci ritrovassimo su un argine, al confine di due regni, di quello che lasciamo, di quello verso il quale siamo trascinati.
Vorrei fosse una spiaggia in un'ora che chiuda nel suo tempo il tempo di un'alba e un tramonto, quando nella foschia un punto esplode, e si fa luce, quando tutta la luce si stringe in un punto perso nella foschia. Così conosceremmo insieme il giorno e in quell'ora giungeremmo al senso che non capimmo mai, che non cercammo, a cui cercammo di sfuggire, al senso che ha un giorno che nasce e che muore, che ha il pensiero di un uomo, un respiro, un amore.
Per amore Turno è morto. Questo tu lo sai, Evandro. Noi qui sappiamo tutto. Il tempo che ci ha tolto l'ossessione del ricordo ci diede di conoscere i segreti dei fatti e delle cose: se sia una pena o un dono non so dirlo; se ci disperi o ci consoli non so dirlo.
Neppure tu lo sai. Ma sai che Turno è morto per amore, che un amore lo spinse alla battaglia. Non fu così per il troiano. Adesso noi lo sappiamo, Evandro, adesso che siamo fuori dal groviglio della nostra storia.
- Quanto tempo restai con gli occhi chiusi ad ascoltare i bambini che giocavano') Che strano, però, che strano che non riuscissi a distinguere la voce, che non riconoscessi la sua voce.
Adesso forse, pensai, non sta parlando, adesso forse si è nascosto.
Cercate Pallante, bambini, cercate Pallante, voi conoscete tutti i nascondigli, trovatelo, dite che voglio parlargli, ch'è tardi, cercate Pallante bambini.
Cercate Pallante urlai. L'urlo inondò il cortile, sommerse la voce dei bambini, impaurì le madri, mi ritornò in gola. Urlai un'altra volta. Allora diventò tutto silenzioso, come se il silenzio avesse divorato il vento, come se avesse imprigionato l'aria, un silenzio maligno che correva tra i merli, entrava nelle case, le violava, le segnava di lutto, le svuotava, un silenzio che pietrificò i giardini. E il pianto che udivo intorno a me si spense, il dolore evaporò, si fece nuvola alta e bianca, immaginai che fosse nuvola, immaginai che fosse bianca: nuvola che vaga e che s'ingrossa, che muta forma e rovescia in un luogo sconosciuto il dolore che porta.
Dove cadde il dolore mio e della mia gente, su quale altro dolore ? Dentro quel silenzio io pensai che fosse giunta notte.
Ora potevo fuggire, finalmente, nascondermi nella tenebra nera, vischiosa, diventare ombra cieca, smemorata; potevo pregare o bestemmiare; potevo contare una per una le case della mia città e indovinare quali di esse fossero felici, quali fossero quelle disperate; potevo avvelenare il mio respiro con l'odore di oleandri e gelsomini, figurarmi i visi fosforescenti della giovinezza e della morte e scoprire che hanno sempre un solo viso; potevo gettare dalla cinta la mia maschera di re perché le greggi la calpestassero domani; potevo ogni cosa ora che era notte.
Aprii gli occhi.
Cercai la casa di mio padre, cercai mio padre. Lo ricordavo seduto sui bordi del pozzo, né giovane né vecchio, ricordavo il suo incerto rispondermi, il suo ansioso guardarmi'. Lo ricordavo contare i filari di vite e chiedere il mio nome, il nome di mia madre come se fosse passante forestiero.
Forse lo ricordavo.
Cercai la casa di mio padre.
Lui era lì, stranito, che guardava da una finestra finta, disegnata sul muro col carbone, colorata con l'azzurro di una fantasia.
Non si voltò ma disse piano entra, da tanto tempo aspetto che ritorni, scusa se resto al buio, se trema la mia voce, se non ti abbraccio, scusa se trovi solo me.
Stese le mani verso la finestra, accarezzò la polvere sul muro, poi quasi dentro sé disse stasera il cielo è pieno di caligine di incendi che non so.
E due rondini si alzarono dal nido nascosto dentro i suoi capelli scuri.
Son ritornato, padre, alla tua casa per sapere che segreti quelle voci che mi rapirono adesso mi nascondono o quale verità mi negano.
Padre, tu che conoscevi le maniere di trasformare in arte il losco gioco, tu solo puoi suelarmi con che nodo il sogno mi legò a una parola, quale meraviglia mi trascinò sul fondo di un mare d'inchiostro che ristagna. Così gli dissi.
Figlio, rispose lui, da questa casa non passa più nessuno e io confondo la veglia con il sonno, la notte e il giorno, la vita col ricordo che ho di lei; confondo anche il tuo volto, anche il tuo nome, so chi sei ma non ti riconosco, le rughe non le avevi, io non avevo questa pietra sulla porta, questa terra nella bocca.
Io dissi ancora: padre, nel tuo tempo, nel tempo dove sei tu sai, ti chiedo soltanto una parola che mi dia il fiato, una parola che mi porti via, che mi porti dove il cielo si addolora per la vita che passa sui giorni e li solca. Una parola, padre, che non sia apparenza, che non racconti l'assenza, che non sia poesia né ali di cera né velo che cela la mesta follia che mi accerchia.
Non mi rispose più.
- Che cosa ci porteremo a quella spiaggia quando quell'ora sarà venuta, Turno? Tu cerca il tuo scudo di corteccia, io porterò con me le storie.
Te lo ricordi, di', lo scudo, Turno. Lo ricavammo da un albero schiantato da un fulmine. Tu mi dicesti: padre, è come il tuo. lo ti risposi no, è più forte questo. Poi dicesti: è magico questo, padre? Sorrisi.
Speravo che fosse magico davvero.
Eri orgoglioso del tuo scudo magico, lo appendesti in casa accanto al mio. Rimase lì, appeso. C'era ancora il giorno che pronunciarono il tuo nome e c'era quando io mi incamminai verso la spiaggia dove arriveremo io e te insieme.
Torna a prenderti lo scudo di corteccia, forse è ancora lì.
Torniamo. Forse è tutto com'è stato, forse siamo mancati un solo giorno oppure è stato tutto solo un sogno, anche la nostra morte, anche la nostra vita.
Ritorniamo, tu per il tuo sentiero, io per il mio, e di tanto in tanto chiamiamoci, la voce ci farà più vicini.
E' difficile sbagliare: ogni sentiero riporta al luogo dove siamo nati, al luogo delle madri e delle lune, delle madri lucenti, delle lune innocenti, delle madri che cantano nenie dolcissime ai figli teneri come papaveri.
Torniamo Turno, non spegneranno i fuochi fino a quando non saremo ritornati, o torna tu soltanto per il tempo che il destino ti vietò.
Io ti aspetterò su quella spiaggia, il mare mi porterà racconti nuovi che io racconterò a te quando verrai. Come una volta ti racconterò, come le volte che ti raccontavo al buio del giardino nelle sere quando la calura assaliva i letti e i grilli impazzivano.
Ritorna Turno, mi troverai in giardino tra le statue di pietra e di bronzo, statua gelida, pallida. Abbattila.
Torna tu solo, tu solo Turno. Addio.
- Aprii gli occhi. Mi apparve la paura. La vidi, Dauno. La vidi avvicinarsi alle mura, entrare nella città. Aveva i capelli sudati di sangue, il volto bianco, in una mano stringeva una spada d'avorio, con l'altra copriva un buco nero sul petto.
Gli sciolsero i sandali. Dodici fanciulle lo adagiarono sul letto; le donne gli asciugavano la fronte, cacciavano via le mosche.
Entrò nella stanza una farfalla nera o nacque lì, chissà, in quell'istante una farfalla nera, volò sul capo della vecchia nutrice, poi sul mio capo, poi sulle sue labbra. Rimase tutta la notte sopra quelle labbra. Volò via quando sul letto cominciò a stendersi la luce di un'alba lancinante.
Non sono mai più riuscito a pensarlo senza quella farfalla sulle labbra, mai più fuori da quella notte.
Tutto questo non l'ho sognato, Dauno: accadde: la sua morte accadde così, fu opaca, spenta, dalla sua morte non nacque nulla, Dauno.
Ci sono morti diverse, morti che hanno una vita nascosta dentro, che non si lasciano dietro rancori; ci sono morti davanti alle quali ogni dio deve inginocchiarsi. Quella di Pallante è stata, invece, malinconica come una pianura arsa.
Che cosa mi rimane, Dauno? Una memoria che si trasformò in racconto vanitoso, una storia tessuta con parole false.
E a te che cosa, Dauno? Non più di questo, lo so. Non mentirmi.
Non ero certo che fosse davvero lì la casa di mio padre.
Sulla pietra il nome era coperto dal fango trascinato dalla pioggia di tutte le stagioni.
Così, pensai, la storia ci cancella; così pensai si inventano i racconti: sulle dannazioni della memoria, accumulando scaglie, sulle superfici scure, sui nomi dei dispersi.
Pronunciai il nome di mio padre, il nome di mio figlio.
Avevano lo stesso numero di lettere, le stesse lettere.
Mi accorsi che c'era la stessa distanza tra i loro nomi e il mio.
Mi accorsi che la pioggia aveva cominciato a spingere il fango verso il mio nome. Fango su fango, pioggia dopo pioggia. Padre meno padre.
Mio figlio nell'altra stanza raccontava una favola a nessuno.

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