§ Rivoluzioni musicali

Origini del melodramma (1)




Sergio Bello



Sintesi di tutte le arti, agglomerato delle più disparate esperienze creative, il teatro per musica-opera, o melodramma, se si preferisce - ha rappresentato il più maestoso evento multimediale mai concepito. E in quanto tale ha dato luogo a tutta una serie di implicazioni derivate dall'eccedere i limiti della pura e semplice, per quanto sovradimensionata, espressione artistica. La stessa mirata attenzione con cui i musicologi che si interessano alla storia dell'opera dedicano a fatti extramusicali - fatti di costume, riassumibili per lo più sotto il comune denominatore della mondanità -la dice lunga circa le suddette implicazioni.
Non che manchino spunti per addentrarsi nel più "scientifico" sociale - tutt'altro - ma è certo che di una larghissima porzione ella storia dell'opera si parla in termini di tendenza, più che di direzione; è la moda a prendere il sopravvento sulla corrente.
E sì che le premesse ideologiche che diedero vita al melodramma erano improntate ad ideali ben diversi, se non opposti: in quella sorta di manifesto che rappresenta il "Dialogo della musica antica e moderna" del 1581, Vincenzo Galilei, padre di Galileo e membro di quel cenacolo di letterati e musicisti che rappresentava nella Firenze di fine Cinquecento la Camerata dei Bardi, muove aspre critiche alla polifonia allora imperante a favore di un recupero - di sapore in verità tardo umanistico - di un linguaggio musicale affine all'idea che questa cerchia di intellettuali si era fatta della tragedia greca.
Natali, dunque, decisamente nobili, quelli del dramma per musica. Ed una vera e propria rivoluzione musicale.
L'artificio compositivo "escogitato" dai musicisti della camerata per imitare l'espressivit musicale della tragedia classica, il Recitar cantando - una declamazione intonata sorretta da uno strumento polifonico, quale il clavicembalo o il liuto tiorbato, in funzione armonica - è il sintomo più evi ente e a nuova sensibilità musicale emergente. Nel Seicento, infatti, si concretizza il passaggio dalla polifonia, frutto della sovrapposizione di più linee melodiche che si intrecciano fra loro in modo da evitare -tranne debite eccezioni in funzione "sperimentale" o espressiva - spigolosità dovute al combaciare di note tra loro dissonanti, alla monodia, che vuole riassunti spunti e tensioni drammatiche in una singola linea melodica in registro acuto, sostenuta da un accompagnamento armonico strumentale mai prevaricante.
La sintesi tra stile rappresentativo e stile recitativo viene effettuata in maniera sistematica dai seguaci della camerata attraverso la creazione dei primi melodrammi: Jacopo Peri musica due testi di Ottavio Rinuccini - Dafne ed Euridice - rispettivamente nel 1595 e nel 1600. Sempre nel 1600, Giulio Caccini compone il Rapimento di Cefalo; Emilio de' Cavalieri, Rappresentazione di anima e corpo, opera che, come vedremo, segnerà l'ingresso a Roma del melodramma.
Per garantire varietà alle loro opere, gli autori fiorentini accostarono al Recitar cantando, precedente storico del recitativo, duetti, terzetti, balli e cori, mentre aderirono perfettamente al gusto dell'epoca adottando soggetti pastorali, idillici e mitologici.
Uno spettacolo di questo tipo, unitario e onnicomprensivo, nuovo seppur legato alla tradizione, e soprattutto disponibile a sviluppi ed aperture di ampia portata, non tardò a diffondersi e a muoversi in direzioni spesso divergenti.
Abbiamo detto del de' Cavalieri, che con la sua rappresentazione di anima e corpo ha introdotto l'opera a Roma; nella città esisteva già un genere -l'Oratorio - rapportabile in qualche misura al melodramma: si trattava di un genere nato, appunto, negli oratori che sorsero in piena Controriforma ad opera di S. Filippo Neri nella città papale, mutuato dal Mottetto verso il finire del Cinquecento e come questo in latino. In stile monodico e forma dialogica, vedeva affidata la parte narrativa ad un Historicus, che in genere si identificava con il coro.
L'impatto tra i due generi non poteva che dare luogo a reciproci influssi: l'acquisizione del recitativo da parte dell'oratorio trova corrispondenza nella tendenza verso l'Arioso dei recitativi del teatro per musica; e a verifica di quanto detto, è sufficiente confrontare l'opera di Giacomo Carissimi, il maggior cultore di oratori in latino, con quella degli autori di melodrammi che operarono a lui contemporaneamente sotto gli auspici - non solo ideali, visto che fecero costruire nel proprio palazzo il primo teatro dell'opera in Roma, capace di tremila spettatori - dei cardinali Barberini, Stefano Landi, Filippo Vitali, Domenico Mazzocchi e, non ultimo, il futuro papa Clemente IX, il cardinale Giulio Rospigliosi, nella veste di librettista.
E' questa la Scuola romana, i cui meriti sono da rintracciarsi proprio nell'aver sempre più nettamente distinto stilisticamente il Recitativo dall'Aria, creando così le premesse per la normalizzazione formale del melodramma.
Ed è con queste premesse che l'opera approda a Venezia: l'evento, datato 1637, coincide con l'inaugurazione del primo teatro pubblico - il S. Cassiano - per mezzo della rappresentazione di un'opera di Francesco Manelli di Tivoli, compositore di scuola romana, l'Andromeda. Per avere la misura dei successo di pubblico riscosso in questa occasione è sufficiente dare uno sguardo ai dati relativi alle rappresentazioni successive all'Andromeda: alla fine del diciassettesimo secolo, infatti, si conteranno a Venezia ben sedici teatri aperti al pubblico pagante, con 358 melodrammi diversi rappresentati.
Il mutato afflusso del pubblico, enormemente accresciuto, l'insolita trasversalità di classi, ma soprattutto la diversa e più partecipe adesione degli spettatori alla rappresentazione, agiscono in maniera dirompente su tutti i più disparati aspetti attinenti al melodramma.
E ancora ulteriori elementi inediti entrano in gioco in questa singolare realtà veneziana: la gestione necessariamente imprenditoriale dei teatri pubblici, che si riassume nella figura dell'impresario teatrale in funzione mediana - se non mediatrice - tra i gusti del pubblico e la creatività di librettisti e compositori; e l'enorme importanza assunta dai cantanti, soprattutto soprani e castrati, capaci di richiamare col solo nome in cartellone un folto pubblico di fedelissimi.
Si entra, per ricollegarci a quanto già detto, nella sfera della moda e del mondano.
Il pubblico pagante, ed in quanto tale giudice delle sorti economiche del teatro, diviene di conseguenza anche giudice delle scelte artistiche del teatro; tutti, dai compositori ai librettisti, dagli architetti teatrali (è in questo periodo che nasce la scenotecnica) ai costumisti, dalle prime donne alle comparse sono vincolati ai gusti del pubblico, imbrigliati dalla assoluta imprescindibilità del successo.
Lo stesso Claudio Monteverdi, personalità "tra le più ardite e ricche di tensione espressiva di tutti i tempi", ha dovuto fare i conti con l'inversione di tendenza verificatasi in ambito veneziano: tra l'Orfeo, rappresentato nel 1607, e l'Incoronazione di Poppea, sulle scene nel 1642, le differenze sono riconducibili a esigenze economiche - riduzione dell'organico orchestrale, soppressione dei cori -, ed esigenze di impatto con il pubblico - scelta di più graditi soggetti storici piuttosto che mitologici, utilizzo di artificiose macchine teatrali, frequenti e numerosi cambi di scena, accostamento di alcune scene comiche ad episodi drammatici, musica ricca di accenti diversi, arie meglio definite. Nell'ultima opera teatrale di Monteverdi, dunque, ritroviamo tutti gli elementi distintivi dell'opera di Scuola veneziana.
E con queste due scuole - quella romana e quella, appunto, veneziana - si esaurisce il quadro evolutivo del teatro per musica nel Seicento.
Gli sviluppi musicali del secolo successivo, nuovo e determinante capitolo della storia dell'opera, prendono le mosse questa volta a Mezzogiorno: a Napoli, per l'esattezza.
Sarà un caso, ma il primo melodramma rappresentato nella città dei viceré spagnoli viene messo in scena da una compagnia teatrale romana, la "Compagnia dei Febi Armonici", e si tratta di un'opera di scuola veneziana: proprio l'Incoronazione di Poppea del Monteverdi. Una sorta di doppia eredità che troverà nel palermitano Alessandro Scarlatti un potente catalizzatore, capace di assumere su di sé la funzione di cerniera tra l'opera veneziana della fine del sec. XVII e quella che sarà l'opera napoletana della prima metà del sec. XVIII.
Grazie alla feconda opera di Scarlatti, il melodramma acquisì alcuni elementi che divennero di impiego costante fino all'opera riformatrice di Gluck: la sinfonia d'apertura venne ordinata in forma tripartita, secondo la successione Allegro, Grave, Presto; questa forma venne poi chiamata, in ambito europeo, All'italiana, o più semplicemente Scarlattiana. I cori vennero per lo più soppressi, le danze furono totalmente abolite, la strumentazione ridotta agli archi, al clavicembalo e ad alcuni fiati. Ma le più vistose e tipiche innovazioni si hanno nell'introduzione del Recitativo obbligato o accompagnato accanto al Recitativo secco, l'uso di pezzi di insieme o concertati alla fine degli atti e l'adozione sistematica della forma col Da capo, usata per la prima volta da Stefano Landi nel suo S. Alessio in occasione dell'inaugurazione del teatro dei cardinali Barberini a Roma.
Il Recitativo obbligato, poi chiamato scena ai tempi di Verdi, altro non è che un recitativo sorretto dall'orchestra, la cui scansione ritmica era quindi necessariamente vincolata alla scrittura nella partitura, e non più libera e dunque soggetta in buona misura al gusto ed al capriccio dei cantanti, come accadeva per il Recitativo secco, direttamente derivato dal Recitar cantando della Camerata.
I Concertati sono invece brani che comportano il reingresso in scena di molti o tutti i personaggi che hanno preso parte ad un atto o all'intera opera; diventano parte integrante della struttura del melodramma, in quanto assolvono con efficacia il compito di "cadenza finale", rendendo perfettamente l'idea della conclusione, pur se soltanto di un atto.
In quanto all'aria col Da capo, il semplice artificio formale - la ripetizione della prima delle due parti di cui l'aria si componeva, secondo lo schema ABA sottende, anche se per il momento in uno stadio solo embrionale, un modo nuovo di avvicinarsi all'opera; l'aria, lungo il suo percorso evolutivo, ci appare sotto il profilo strutturale prima nella forma Semplice (A), poi in quella Doppia (AB), quindi nella forma col Da capo (ABA), ed infine in Forma di rondò (ABACA): il ripercuotersi di una sezione dell'aria, l'elemento A, ha sì il compito di dare ad arie di una certa lunghezza compattezza e organicità di struttura; tuttavia l'alto gradimento dimostrato dagli spettatori per il Da capo trae origine non dalla funzione unificatrice della ripetizione, ma dalla pura e semplice sensazione di piacevolezza che deriva dal riascoltare una sezione melodica particolarmente riuscita inframmezzata da una diversa melodia, se non di minore tensione espressiva, quanto meno di diverso carattere.
Estendendo questa semplice considerazione all'intera opera ed al criterio con cui gli spettatori si sono ad essa avvicinati mano a mano che questo genere di spettacolo si diffondeva in Italia ed in Europa, non viene difficile operare un parallelo tra l'elemento strutturale A e l'aria nella sua interezza, e tra gli elementi strutturali B, C, D, ecc. ed il recitativo. Con la sua sempre più ampia diffusione e con la sua oramai imprescindibile dipendenza dai gusti del pubblico, l'opera si trasforma gradualmente ma inesorabilmente in un semplice susseguirsi di recitativi ed arie. Recitativi convenzionali e prolissi, durante i quali il pubblico gioca a carte, parla d'affari o nella migliore delle ipotesi sonnecchia, per poi ridestarsi alle prime note dell'aria di turno, gradevole almeno quanto generica, banco di prova per il virtuosismo di idolatrati cantanti. E' il momento di maggior successo del Pasticcio, genere musicale basato sull'adozione di un libretto originale messo in musica attraverso l'adozione di arie già note e di sicuro impatto, così da garantire, in modo magari poco "artistico", un certo successo alla rappresentazione.
Anticipati i modi e i motivi della decadenza del melodramma, torniamo alla Scuola napoletana, che abbiamo lasciato ancora ai primi fermenti: mentre Alessandro Scarlatti si ingegnava per dare una nuova struttura al melodramma, i futuri esponenti dell'opera napoletana si andavano formando negli orfanotrofi - numerosi a Napoli - a quei tempi chiamati Conservatori.
Queste istituzioni, tra le quali famose erano quelle dei Poveri di Gesù Cristo, della Pietà dei Turchini, di S. Maria di Loreto, di S. Onofrio, da orfanotrofi che erano, dove si insegnava un qualche mestiere ai trovatelli, divennero ben presto scuole di musica, strutturate in modo che chi vi entrava, se voleva, poteva mantenersi agli studi impegnandosi nell'insegnamento della musica, appena raggiunto un livello di preparazione che lo consentisse, nell'ambito del conservatorio stesso: un esempio di civiltà non indifferente a onore dei troppo bistrattati Borbone, tanto più se si considera che unico titolo preferenziale per l'ingresso nei conservatori in qualità di studente era la predisposizione musicale, e che l'abilità nel selezionare discepoli predisposti è attestata dal gran numero di personalità di spicco in ambito musicale istruite nei conservatori. Quanto alle origini, questi compositori, imperversanti per lunghissima parte del Settecento in tutta Europa accomunati dall'appartenenza ad una scuola nota come napoletana, erano a loro volta napoletani solo in ristretta misura: tra quelli che si sono maggiormente imposti al gusto del pubblico, Nicolò Porpora lo è senz'altro, mentre dubbi sono i natali napoletani di Francesco Feo; Nicolò Jommelli e Domenico Cimarosa si trasferirono a Napoli dalla non distante Aversa; sempre a Napoli giunsero dalla Calabria - da Strongoli, per l'esattezza - Leonardo Da Vinci, e dalle Marche - Jesi - Giovan Battista Pergolesi; il maggiore afflusso si riscontra dalla Puglia: dal barese Nicolò Piccinni e Tommaso Traetta - nati rispettivamente a Bari e Bitonto -, dal brindisino Leonardo Leo - S. Vito dei Normanni - e da Taranto Giovanni Paisiello. Oltre che dal Mezzogiorno, si contano anche presenze da Venezia con Baldassarre Galuppi, detto Il Buranello, nato come è facile immaginare nell'isola di Burano, e dalla Germania, con Johann Adolf Hasse, nato a Bergedorf, nelle vicinanze di Amburgo.
Uno dei maggiori meriti di questi compositori sta nell'aver operato a livello formale una ben definita distinzione tra Opera seria ed opera buffa, cosa mai riuscita ai veneziani e solo adombrata a Roma nei libretti del cardinale Rospigliosi.
Le differenze sono sostanziali (vedi riquadro) e si imporranno presto su scala europea, dando luogo a impegnative - e gustose - querelles, delle quali si dirà in seguito.
Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, gli operisti napoletani non si divisero in correnti aderendo all'uno o all'altro genere, ma si cimentarono nell'uno come nell'altro, anche se spesso con esiti non omogenei.

OPERA SERIA

Le vicende sono solenni ed eroiche; i personaggi, storici o tratti dalla mitologia, si esprimono tutti in una lingua stilisticamente curata. Era eseguita nei teatri di corte o comunque importanti e "ufficiali", con la collaborazione dei cantanti più celebrati (soprani, tenori, evirati) e di orchestre dall'organico nutrito. Rivelava uno spirito di conservazione artistica e sociale che si traduceva anche in uno stile dotto e solenne, in forme musicali rigide (l'aria con il da-capo), nel gusto per la vocalità fiorita. Il libretto era spesso opera di letterati e poeti illustri. Particolarmente apprezzati furono, tra i librettisti, Apostolo Zeno (1668- 1750) e Pietro Metastasio (1697- 1782). Ammirato dai contemporanei, "poeta cesareo", scrisse numerosi melodrammi che furono messi in musica ripetutamente dagli operisti del tempo.

OPERA BUFFA

Le vicende sono ispirate alla vita quotidiano, i personaggi appartengono al ceto borghese; qualche volta alcuni di essi parlano in dialetto, specialmente napoletano.
Ero eseguita, specie agli inizi, in teatri piccoli e modesti, da cantanti abili anche come attori (soprani e bassi comici), con orchestra di organico ridotto.
L'osservazione dell'ambiente e dei costumi borghesi si rispecchiava anche nella semplicità dello stile, nella mescolanza delle forme (anche semplici e brevi), nella vocalità duttile e contabile.
I libretti nel primo tempo erano spesso opera di oscuri versificatori; più avanti se ne occuparono anche dei letterati e commediografi di valore. Tra essi, Carlo Goldoni (1707-1793) scrisse molti libretti di opere buffe (e anche di opere serie).

(1 - continua)


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