§ Le incognite del Bel Paese / 1

Nelle sfide un'Italia disarmata




Franco Reviglio



Anche lo scorso anno, per il terzo anno consecutivo, l'Italia si è mostrata incapace di tenere il passo con i Paesi industriali più forti. Il previsto tasso di crescita è stato il più basso della Comunità. Questa incapacità è stata determinata soprattutto dalla divergenza tra i costi e i prezzi italiani e quelli dei Paesi forti dell'Europa.
In una situazione di cambio stabile, la divergenza nei costi e nei prezzi produce progressivamente una perdita di competitività, una erosione dei margini di profitto delle imprese, un elevato costo del denaro che indebolisce la capacità di investimento e, quindi, in prospettiva, la base produttiva e l'occupazione.
Se questo scenario dovesse continuare, l'Italia si escluderebbe da sola dall'Europa e non potrebbe partecipare a pieno titolo al processo di unificazione politica ed economico-finanziaria della Comunità.
Nell'ultimo anno, il differenziale di inflazione non è diminuito, l'andamento del costo del lavoro ha ancora superato di due-tre punti quello dei Paesi concorrenti, la programmata riduzione del disavanzo pubblico è rimasta per la maggior parte sulla carta.
Lo scenario di quest'anno non induce all'ottimismo, nonostante gli impegni del governo. Negli intendimenti del governo, la Finanziaria 1992 con i provvedimenti eli accompagnamento dovrebbe condurre ad un andamento dei flussi della finanza pubblica in linea con il documento pluriennale. Ma il risultato desiderato non appare affatto scontato per gli ostacoli che prevedibilmente la situazione pre-elettorale pone all'applicazione delle norme e al rispetto delle linee-guida stabilite.

I segnali di progressiva difficoltà in cui si trova l'economia italiana diventano sempre più pesanti:
1 - le nostre esportazioni non riescono a tenere le quote del mercato mondiale, mentre le importazioni crescono più delle esportazioni;
2 - i tassi di interesse rimangono i più elevati tra i sette Paesi più industrializzati;
3 - i margini di profitto delle imprese dal 1988 sono in progressiva diminuzione;
4 - gli investimenti delle imprese sono in rallentamento;
5 - i pochi grandi gruppi si trovano in grave difficoltà, come segnalano l'aumento del ricorso alla cassa integrazione e i pre-pensionamenti;
6 - le piccole e medie imprese, che rappresentano il nerbo dell'economia italiana hanno perso il consueto smalto e perseguono nell'insieme strategie di difesa più che di aggressione al mercato globale, imbrigliate in misura crescente nella capacità di innovazione e di sviluppo strategico. Segno di questa difficoltà è la constatazione che le acquisizioni di imprese italiane da parte di imprese estere rappresentano oltre il doppio di quelle di imprese estere da parte di imprese italiane;
7 - emerge l'incapacità e l'impossibilità di molte imprese a seguire strategie di globalizzazione efficiente per la struttura proprietaria dell'industria italiana (familiare e pubblica). Questa struttura proprietaria rappresenta un vincolo alla crescita competitiva. Nel caso dell'impresa a controllo familiare, il vincolo discende dai passaggi di generazione e dal timore di perdere il controllo e, nel caso dell'impresa pubblica, dal venir meno dei fondi di dotazione e dalle interferenze politiche;
8 - diventa evidente la mancanza di un efficiente mercato finanziario e di un insieme di idonee istituzioni che sappiano incanalare fette consistenti e crescenti del risparmio al capitale di rischio.
Occorre poi non dimenticare che di per sé la struttura per dimensioni e la specializzazione per settori dell'industria italiana presentano alcùni aspetti non favorevoli. La struttura per dimensioni a livello nazionale vede di gran lunga la prevalenza delle piccole imprese.
Secondo una rilevazione dell'Istat, nel manifatturiero ben l'87 per cento degli addetti è occupato in imprese con meno di 500 addetti, che in una prospettiva di mercato globale sono considerate "piccole imprese". Le imprese con oltre 500 addetti sono solo 102, contro oltre 260.000 imprese con meno di 500 addetti. Se si guarda al fatturato, risulta che nel nostro Paese le imprese con oltre 1.000 miliardi di fatturato che possono essere considerate di media dimensione a livello mondiale sono solo poco più di 60. Di queste, pochissime sono le grandi imprese, molte meno non solo della Germania, del Regno Unito e della Francia, ma anche della Svezia, dell'Olanda e della Finlandia.

Il sistema delle piccole-medie imprese è adeguato ad affrontare le sfide del mercato unico e del mercato globale? Per le piccole imprese, anche se organizzate in un sistema flessibile, diviene sempre più difficile mantenersi innovative, attraverso uno sforzo originale di ricerca e di sviluppo che non è nella loro portata finanziaria. Non sempre l'innovazione può essere acquisita dall'esterno a costi competitivi, soprattutto quando si tratta di innovazione di prodotto e non di quella di processo.
La specializzazione del nostro sistema industriale è caratterizzata, inoltre, da una prevalente presenza dei settori che producono beni "tradizionali" e macchinario per la produzione degli stessi: questi settori insieme pesano per quasi tre quarti delle nostre esportazioni.
Abbiamo, invece, una debole presenza dei settori che producono beni ad alta tecnologia e beni caratterizzati da processi produttivi e distributivi che richiedono grandi economie di scala. Negli anni Ottanta questa specializzazione produttiva avrebbe potuto penalizzare di per sé la crescita del sistema produttivo, perché l'Italia risulta debole e scarsamente specializzata nei settori caratterizzati da una dinamica della domanda più pronunciata, che sono appunto quelli che producono beni ad elevata tecnologia o che sono prodotti e distribuiti con processi che richiedono grandi economie di scala.


La penalizzazione in termini di minore crescita complessiva non è avvenuta perché l'Italia ha saputo acquisire quote di mercato nei settori tradizionali, conquistandole nei confronti degli altri Paesi industriali grazie alla grande efficienza del nostro modello produttivo, che consiste di un insieme di modelli di piccole-medie imprese organizzate verticalmente e orizzontalmente in modo flessibile e competitivo, spesso attraverso i cosiddetti distretti industriali.
Di conseguenza, negli anni Ottanta, l'Italia ha potuto crescere al ritmo degli altri Paesi industriali, superando la penalizzazione della sua specializzazione produttiva e ripetendo così per il quarto decennio successivo una performance di crescita di dimensioni elevate. Nel nuovo scenario degli anni Novanta, quali margini ancora sussistono ad un'ulteriore erosione di quote di mercato degli altri Paesi industriali da parte delle nostre imprese dei settori che producono beni tradizionali e macchine per i settori tradizionali? Negli anni Novanta, gli spazi da conquistare sono certamente minori perché la parte maggiore dell'acquisizione di quote è già avvenuta negli anni Ottanta e perché le quote di mercato dei segmenti più bassi dei prodotti tradizionali subiranno una crescente erosione da parte delle importazioni, necessariamente crescenti, dai Paesi dell'Est e del Sud, oltre che dall'estremo Oriente.
Tuttavia, per il "made in Italy", vi sono ancora grandi potenzialità di acquisizione di maggiori quote nei segmenti medio-alti dei mercati, che saranno in forte crescita in relazione ai processi dinamici di industrializzazione in corso. E' peraltro destinata a crescere la competizione nei confronti di alcuni settori (costruzioni navali, impianti elettrici, industria alimentare, tessile e calzature, mobile e arredo) da parte delle imprese dei Paesi di nuova industrializzazione e dei Paesi dell'Est.
Nel nuovo quadro competitivo degli anni Novanta l'ottica della politica industriale si identifica dunque in primo luogo con la politica macroeconomica di aggiustamento dei conti pubblici e con le politiche dei redditi che devono ridurre le divergenze nei prezzi e nei costi che separano l'Italia dai Paesi forti dell'Europa.
Alla competitività del sistema industriale serve imbrigliare il debito pubblico, ma anche provocare un salto di qualità nell'efficienza del sistema-Paese, attraverso il miglioramento nella qualità dei servizi pubblici e, in particolare, dei servizi delle grandi reti di trasporto e di posta e telecomunicazioni, nonché dei servizi che creano, direttamente e indirettamente, l'ambiente favorevole allo sviluppo dell'impresa (formazione, ricerca e sviluppo).
Ma il miglioramento nella qualità dei servizi discende necessariamente dalla messa sotto controllo dei flussi quantitativi della finanza pubblica, perché non appare possibile controllare i flussi di entrata e di spesa ai fini del risanamento senza incidere sui meccanismi che li determinano rendendo la macchina pubblica di raccolta delle spese sostanzialmente più efficace, oltre che più efficiente.
La soluzione del nodo del disavanzo pubblico, insieme a quello delle politiche dei redditi, è la condizione necessaria per trasferire gradualmente risparmio, oggi impiegato per coprire spese correnti della Pubblica amministrazione, al capitale di rischio delle imprese. In prospettiva, questo trasferimento di capitale appare cruciale per mantenere la competitività del nostro sistema produttivo sul mercato globale. Ma sulla capacità del sistema politico-istituzionale oggi esistente di porre sotto controllo l'anomalia italiana dell'elevato disavanzo pubblico è lecito nutrire qualche dubbio. Le perplessità sulla capacità di raggiungere nel 1994 gli obiettivi di correzione dei conti pubblici fissati nella manovra triennale trovano giustificazione nell'esperienza degli anni Settanta e Ottanta, in cui i tentativi dei ministri del Tesoro di chiudere i rubinetti della spesa pubblica contenuti nei programmi pluriennali di risanamento si sono quasi sempre infranti di fronte al Parlamento.
Vi è un solo modo per eliminare alla radice l'incapacità telescopica del sistema politico di apprezzare che con la crescita del debito alla lunga si mina alle fondamenta la vitalità del sistema produttivo italiano nella competizione globale: la riforma delle istituzioni.
Le strade possibili vanno da una "grande riforma" istituzionale alla semplice modifica dell'articolo 81 della Costituzione in materia di bilancio.
Con una grande riforma si potrebbe modificare il nostro ordinamento costituzionale sul modello di uno dei sistemi politico-istituzionali che negli altri Paesi forti dell'Europa hanno saputo garantire, grazie alla stabilità dell'esecutivo e all' alternanza, la gestione efficiente della finanza pubblica e della politica economica. Si tratterebbe peraltro di una strada molto difficile da percorrere, che richiederebbe tempi lunghi, eccessivi rispetto a quelli disponibili per rimuovere la divergenza con l'Europa.
Non rimane allora che la strada della riforma parziale mediante l'introduzione nel nostro sistema, attraverso la modifica dell'art. 81 della Costituzione, di adeguati vincoli alle ampie possibilità di cui oggi il Parlamento dispone di modificare la legge di bilancio. Questa strada, che pure non sembra sufficiente a rimuovere alle radici tutti i mali della partitocrazia, potrebbe essere percorsa in tempi ragionevoli e quindi produrre i risultati voluti del processo di convergenza nei tempi (cinque anni) disponibili per restare in Europa con il gruppo dei Paesi forti.
Purtroppo, nella situazione attuale, è facilmente prevedibile che senza l'auspicata riforma, il processo di convergenza rimanga bloccato. Sotto i nostri occhi (e quelli dei nostri partner europei) i traguardi fissati nell'ultimo Documento di programmazione triennale rischiano di scorrere inesorabilmente in avanti, nonostante le promesse, le espresse volontà e gli sforzi del ministro del Tesoro e del governo nel fissare nella Finanziaria linee-guida di politica economica coerenti con il programmma di aggiustamento.
Le azioni necessarie per rimuovere la divergenza devono cominciare al più presto, perché l'Italia non può perdere un altro anno. Poiché il governo non è stato in grado di far approvare la "piccola riforma" dell'articolo 81 entro la fine della legislatura, è probabile che l'anno elettorale finisca con l'imporre soluzioni insufficienti, pannicelli caldi, per non scontentare gli elettori e in qualche caso offrire ad essi qualche zuccherino. In questa prospettiva, il rinvio dell'aggiustamento al governo che uscirà dalle prossime elezioni può produrre costi elevati ed aprire il rischio che la situazione vada fuori controllo.


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