Anche lo scorso
anno, per il terzo anno consecutivo, l'Italia si è mostrata
incapace di tenere il passo con i Paesi industriali più forti.
Il previsto tasso di crescita è stato il più basso della
Comunità. Questa incapacità è stata determinata
soprattutto dalla divergenza tra i costi e i prezzi italiani e quelli
dei Paesi forti dell'Europa.
In una situazione di cambio stabile, la divergenza nei costi e nei
prezzi produce progressivamente una perdita di competitività,
una erosione dei margini di profitto delle imprese, un elevato costo
del denaro che indebolisce la capacità di investimento e, quindi,
in prospettiva, la base produttiva e l'occupazione.
Se questo scenario dovesse continuare, l'Italia si escluderebbe da
sola dall'Europa e non potrebbe partecipare a pieno titolo al processo
di unificazione politica ed economico-finanziaria della Comunità.
Nell'ultimo anno, il differenziale di inflazione non è diminuito,
l'andamento del costo del lavoro ha ancora superato di due-tre punti
quello dei Paesi concorrenti, la programmata riduzione del disavanzo
pubblico è rimasta per la maggior parte sulla carta.
Lo scenario di quest'anno non induce all'ottimismo, nonostante gli
impegni del governo. Negli intendimenti del governo, la Finanziaria
1992 con i provvedimenti eli accompagnamento dovrebbe condurre ad
un andamento dei flussi della finanza pubblica in linea con il documento
pluriennale. Ma il risultato desiderato non appare affatto scontato
per gli ostacoli che prevedibilmente la situazione pre-elettorale
pone all'applicazione delle norme e al rispetto delle linee-guida
stabilite.

I segnali di progressiva
difficoltà in cui si trova l'economia italiana diventano sempre
più pesanti:
1 - le nostre esportazioni non riescono a tenere le quote del mercato
mondiale, mentre le importazioni crescono più delle esportazioni;
2 - i tassi di interesse rimangono i più elevati tra i sette
Paesi più industrializzati;
3 - i margini di profitto delle imprese dal 1988 sono in progressiva
diminuzione;
4 - gli investimenti delle imprese sono in rallentamento;
5 - i pochi grandi gruppi si trovano in grave difficoltà, come
segnalano l'aumento del ricorso alla cassa integrazione e i pre-pensionamenti;
6 - le piccole e medie imprese, che rappresentano il nerbo dell'economia
italiana hanno perso il consueto smalto e perseguono nell'insieme
strategie di difesa più che di aggressione al mercato globale,
imbrigliate in misura crescente nella capacità di innovazione
e di sviluppo strategico. Segno di questa difficoltà è
la constatazione che le acquisizioni di imprese italiane da parte
di imprese estere rappresentano oltre il doppio di quelle di imprese
estere da parte di imprese italiane;
7 - emerge l'incapacità e l'impossibilità di molte imprese
a seguire strategie di globalizzazione efficiente per la struttura
proprietaria dell'industria italiana (familiare e pubblica). Questa
struttura proprietaria rappresenta un vincolo alla crescita competitiva.
Nel caso dell'impresa a controllo familiare, il vincolo discende dai
passaggi di generazione e dal timore di perdere il controllo e, nel
caso dell'impresa pubblica, dal venir meno dei fondi di dotazione
e dalle interferenze politiche;
8 - diventa evidente la mancanza di un efficiente mercato finanziario
e di un insieme di idonee istituzioni che sappiano incanalare fette
consistenti e crescenti del risparmio al capitale di rischio.
Occorre poi non dimenticare che di per sé la struttura per
dimensioni e la specializzazione per settori dell'industria italiana
presentano alcùni aspetti non favorevoli. La struttura per
dimensioni a livello nazionale vede di gran lunga la prevalenza delle
piccole imprese.
Secondo una rilevazione dell'Istat, nel manifatturiero ben l'87 per
cento degli addetti è occupato in imprese con meno di 500 addetti,
che in una prospettiva di mercato globale sono considerate "piccole
imprese". Le imprese con oltre 500 addetti sono solo 102, contro
oltre 260.000 imprese con meno di 500 addetti. Se si guarda al fatturato,
risulta che nel nostro Paese le imprese con oltre 1.000 miliardi di
fatturato che possono essere considerate di media dimensione a livello
mondiale sono solo poco più di 60. Di queste, pochissime sono
le grandi imprese, molte meno non solo della Germania, del Regno Unito
e della Francia, ma anche della Svezia, dell'Olanda e della Finlandia.

Il sistema delle
piccole-medie imprese è adeguato ad affrontare le sfide del
mercato unico e del mercato globale? Per le piccole imprese, anche
se organizzate in un sistema flessibile, diviene sempre più
difficile mantenersi innovative, attraverso uno sforzo originale di
ricerca e di sviluppo che non è nella loro portata finanziaria.
Non sempre l'innovazione può essere acquisita dall'esterno
a costi competitivi, soprattutto quando si tratta di innovazione di
prodotto e non di quella di processo.
La specializzazione del nostro sistema industriale è caratterizzata,
inoltre, da una prevalente presenza dei settori che producono beni
"tradizionali" e macchinario per la produzione degli stessi:
questi settori insieme pesano per quasi tre quarti delle nostre esportazioni.
Abbiamo, invece, una debole presenza dei settori che producono beni
ad alta tecnologia e beni caratterizzati da processi produttivi e
distributivi che richiedono grandi economie di scala. Negli anni Ottanta
questa specializzazione produttiva avrebbe potuto penalizzare di per
sé la crescita del sistema produttivo, perché l'Italia
risulta debole e scarsamente specializzata nei settori caratterizzati
da una dinamica della domanda più pronunciata, che sono appunto
quelli che producono beni ad elevata tecnologia o che sono prodotti
e distribuiti con processi che richiedono grandi economie di scala.

La penalizzazione in termini di minore crescita complessiva non è
avvenuta perché l'Italia ha saputo acquisire quote di mercato
nei settori tradizionali, conquistandole nei confronti degli altri
Paesi industriali grazie alla grande efficienza del nostro modello
produttivo, che consiste di un insieme di modelli di piccole-medie
imprese organizzate verticalmente e orizzontalmente in modo flessibile
e competitivo, spesso attraverso i cosiddetti distretti industriali.
Di conseguenza, negli anni Ottanta, l'Italia ha potuto crescere al
ritmo degli altri Paesi industriali, superando la penalizzazione della
sua specializzazione produttiva e ripetendo così per il quarto
decennio successivo una performance di crescita di dimensioni elevate.
Nel nuovo scenario degli anni Novanta, quali margini ancora sussistono
ad un'ulteriore erosione di quote di mercato degli altri Paesi industriali
da parte delle nostre imprese dei settori che producono beni tradizionali
e macchine per i settori tradizionali? Negli anni Novanta, gli spazi
da conquistare sono certamente minori perché la parte maggiore
dell'acquisizione di quote è già avvenuta negli anni
Ottanta e perché le quote di mercato dei segmenti più
bassi dei prodotti tradizionali subiranno una crescente erosione da
parte delle importazioni, necessariamente crescenti, dai Paesi dell'Est
e del Sud, oltre che dall'estremo Oriente.
Tuttavia, per il "made in Italy", vi sono ancora grandi
potenzialità di acquisizione di maggiori quote nei segmenti
medio-alti dei mercati, che saranno in forte crescita in relazione
ai processi dinamici di industrializzazione in corso. E' peraltro
destinata a crescere la competizione nei confronti di alcuni settori
(costruzioni navali, impianti elettrici, industria alimentare, tessile
e calzature, mobile e arredo) da parte delle imprese dei Paesi di
nuova industrializzazione e dei Paesi dell'Est.
Nel nuovo quadro competitivo degli anni Novanta l'ottica della politica
industriale si identifica dunque in primo luogo con la politica macroeconomica
di aggiustamento dei conti pubblici e con le politiche dei redditi
che devono ridurre le divergenze nei prezzi e nei costi che separano
l'Italia dai Paesi forti dell'Europa.
Alla competitività del sistema industriale serve imbrigliare
il debito pubblico, ma anche provocare un salto di qualità
nell'efficienza del sistema-Paese, attraverso il miglioramento nella
qualità dei servizi pubblici e, in particolare, dei servizi
delle grandi reti di trasporto e di posta e telecomunicazioni, nonché
dei servizi che creano, direttamente e indirettamente, l'ambiente
favorevole allo sviluppo dell'impresa (formazione, ricerca e sviluppo).
Ma il miglioramento nella qualità dei servizi discende necessariamente
dalla messa sotto controllo dei flussi quantitativi della finanza
pubblica, perché non appare possibile controllare i flussi
di entrata e di spesa ai fini del risanamento senza incidere sui meccanismi
che li determinano rendendo la macchina pubblica di raccolta delle
spese sostanzialmente più efficace, oltre che più efficiente.
La soluzione del nodo del disavanzo pubblico, insieme a quello delle
politiche dei redditi, è la condizione necessaria per trasferire
gradualmente risparmio, oggi impiegato per coprire spese correnti
della Pubblica amministrazione, al capitale di rischio delle imprese.
In prospettiva, questo trasferimento di capitale appare cruciale per
mantenere la competitività del nostro sistema produttivo sul
mercato globale. Ma sulla capacità del sistema politico-istituzionale
oggi esistente di porre sotto controllo l'anomalia italiana dell'elevato
disavanzo pubblico è lecito nutrire qualche dubbio. Le perplessità
sulla capacità di raggiungere nel 1994 gli obiettivi di correzione
dei conti pubblici fissati nella manovra triennale trovano giustificazione
nell'esperienza degli anni Settanta e Ottanta, in cui i tentativi
dei ministri del Tesoro di chiudere i rubinetti della spesa pubblica
contenuti nei programmi pluriennali di risanamento si sono quasi sempre
infranti di fronte al Parlamento.
Vi è un solo modo per eliminare alla radice l'incapacità
telescopica del sistema politico di apprezzare che con la crescita
del debito alla lunga si mina alle fondamenta la vitalità del
sistema produttivo italiano nella competizione globale: la riforma
delle istituzioni.
Le strade possibili vanno da una "grande riforma" istituzionale
alla semplice modifica dell'articolo 81 della Costituzione in materia
di bilancio.
Con una grande riforma si potrebbe modificare il nostro ordinamento
costituzionale sul modello di uno dei sistemi politico-istituzionali
che negli altri Paesi forti dell'Europa hanno saputo garantire, grazie
alla stabilità dell'esecutivo e all' alternanza, la gestione
efficiente della finanza pubblica e della politica economica. Si tratterebbe
peraltro di una strada molto difficile da percorrere, che richiederebbe
tempi lunghi, eccessivi rispetto a quelli disponibili per rimuovere
la divergenza con l'Europa.
Non rimane allora che la strada della riforma parziale mediante l'introduzione
nel nostro sistema, attraverso la modifica dell'art. 81 della Costituzione,
di adeguati vincoli alle ampie possibilità di cui oggi il Parlamento
dispone di modificare la legge di bilancio. Questa strada, che pure
non sembra sufficiente a rimuovere alle radici tutti i mali della
partitocrazia, potrebbe essere percorsa in tempi ragionevoli e quindi
produrre i risultati voluti del processo di convergenza nei tempi
(cinque anni) disponibili per restare in Europa con il gruppo dei
Paesi forti.
Purtroppo, nella situazione attuale, è facilmente prevedibile
che senza l'auspicata riforma, il processo di convergenza rimanga
bloccato. Sotto i nostri occhi (e quelli dei nostri partner europei)
i traguardi fissati nell'ultimo Documento di programmazione triennale
rischiano di scorrere inesorabilmente in avanti, nonostante le promesse,
le espresse volontà e gli sforzi del ministro del Tesoro e
del governo nel fissare nella Finanziaria linee-guida di politica
economica coerenti con il programmma di aggiustamento.
Le azioni necessarie per rimuovere la divergenza devono cominciare
al più presto, perché l'Italia non può perdere
un altro anno. Poiché il governo non è stato in grado
di far approvare la "piccola riforma" dell'articolo 81 entro
la fine della legislatura, è probabile che l'anno elettorale
finisca con l'imporre soluzioni insufficienti, pannicelli caldi, per
non scontentare gli elettori e in qualche caso offrire ad essi qualche
zuccherino. In questa prospettiva, il rinvio dell'aggiustamento al
governo che uscirà dalle prossime elezioni può produrre
costi elevati ed aprire il rischio che la situazione vada fuori controllo.