§ Le incognite del Bel Paese / 2

Sindrome polacca?




Alfredo Recanatesi



Poco più di tre anni, o giù di lì, è il tempo che l'Italia ha impiegato per invertire la propria direttrice di marcia. Oggi siamo in evidente affanno nell'arginare il divario che si va aprendo tra noi e l'Europa più avanzata: quella che intende adottare, di qui a cinque anni, un'unica moneta. Appena tre anni fa, invece, anche noi marciavamo sicuri verso quell'obiettivo, forse con qualche eccesso di baldanza, ma anche con qualche confortante fondamento che poi si è perso rapidamente per strada.
Gli uomini di governo vanno ripetendo che "ce la possiamo fare": posizione quasi d'obbligo che, se si ferma a questo, lascia il tempo che trova. E infatti, quegli stessi uomini di governo dimostrano di non essere del tutto ciechi quando, come fanno da qualche tempo, si dan da fare per diluire o procrastinare l'impegno europeo. Ricordate la pietra angolare dei gennaio 1993? Ebbene, quella pietra si è sfaldata, si preferisce parlare della moneta unica per il solo motivo che implica scadenze più lontane nel tempo.
Ricordate le prime dispute sulla serie A o B? Al solo parlarne, qualche ministro scattava con accuse di disfattismo, di lesa patria, di strumentali pregiudizi anti-italiani. Ma oggi persino il ministro dei Tesoro indulge nel ricordare come tutto la costruzione dell'Europa sia avvenuto con Paesi che sono andati avanti ed altri che poi hanno seguito, quando hanno voluto o quando hanno potuto.
Cos'è cambiato, dunque? Perché il favore degli anni '80 ci ha fatto perdere posizioni anziché consentirci di guadagnarne? I molti incontri avuti in questi ultimi tempi hanno prodotto molteplici risposte a questa domanda che abbiamo monotonamente posto a diversi interlocutori: la politica fiscale, il mercato dei lavoro, le finalità politiche della spesa pubblica, il mercato finanziario; il che poi ha portato e porta tuttora gli esiti finali più evidenti sui quali gli economisti ormai non fanno che pestar acqua nel mortaio: perdita competitività del prodotto italiano, la dinamica dei costo del lavoro, le continue esplosioni dei disavanzo pubblico, l'irriducibile inflazione. Ma la risposta sintetica che tutte possa accoglierle ed esprimerle è paradossale: è che non è cambiato proprio un bel niente. Peggio: è cambiata solo la politica del cambio, la quale ora sta lì come un fattore di incongruenza rispetto a tutto il resto che è rimasto come prima, sicché il cambio fisso appare come un avamposto stabilito in una terra fondamentalmente ostile in attesa di rincalzi e di salmerie che non sono mai venuti.
Non è cambiato soprattutto il comportamento di una società che, decidendo di aprirsi all'Europa, ha preteso e pretende di non rinunciare alla comoda e tiepida serra nella quale finora ha vissuto. Intendiamoci, l'industria al di là delle Alpi c'è andata e si è fatta valere. Ma è rimasta minoritaria: l'unico suo valore che è stato mutuato e diffuso senza altra condizione è il livello dei reddito che nei momenti più favorevoli era stato in grado di assicurare. L'effetto non è stato solo quello di innalzare il livello di benessere ben oltre quello della disponibilità di risorse, ma soprattutto quello di spegnere l'iniziativa, inibire la mobilitò e l'innovazione, accordare protezione. ai settori ed ai lavoratori inefficienti.
Il caso del mercato dei lavoro è emblematico. La grande ristrutturazione degli anni '80 ha accresciuto l'efficienza dell'industria espellendo manodopera, come è avvenuto in ogni altro Paese avanzato. Altrove questa manodopera eccedente si è trasferita verso nuovi impieghi produttivi, tra l'altro favorendo la nascita di un terziario degno di configurare come post-industriale l'era che si va schiudendo. Da noi, invece, i redditi consentiti dall'industria a metà degli anni '80 si sono propagati all'intera economia - compresi Pubblica Amministrazione, servizi e Mezzogiorno -diffondendone i costi a settori che non possono permetterseli. Così l'inflazione non ha potuto ridursi, come non si è ridotta la disoccupazione, congelata a carico dei bilancio statale con l'esplosione della spesa che tutti conosciamo. Girato l'angolo della congiuntura favorevole, tutto questo è disastrosamente emerso sia in termini di disavanzo sia in termini di protezione, con le commesse e gli appalti pubblici, delle aree produttive più inefficienti.
Altrove - in Francia, ad esempio - la spesa pubblica è anche più elevata che da noi, ma vivaddio è stata la leva che ha innalzato l'occupazione facendo fulcro sull'efficienza e sull'innovazione dell'intera economia promosse attraverso commesse pubbliche condizionate alla fornitura di tecnologie avanzate. Non è stata una politica facile, perché dovette confrontarsi con lunghi scioperi nei servizi (banche, scuole, poste) ed anche con resistenze di settori industriali ai quali non poteva piacere di essere messi alla frusta.
Ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti: occupazione, inflazione, competitività, finanza pubblica sono ai migliori livelli. Da noi la ricerca dell'immediato consenso ha portato a distribuire assistenza e protezione, a spese dell'ammodernamento e dell'avanzamento dell'economia. Un'economia, quindi, sempre più lontana dall'intraprendenza tedesca. francese o spagnola, e sempre più vicina al grigio solidarismo della Polonia.

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