La levata di scudi
contro la proposta di privatizzazione contenuta nella Finanziaria
1992 è stata salutare perché ha fatto venire allo scoperto
gli ideologi dell'intervento pubblico nell'economia. Non a caso il
ministro del Tesoro ha parlato di "residui di socialismo reale"
nel nostro Paese: essi si manifestano in quanti continuano a ritenere
che la proprietà pubblica di mezzi di produzione sia necessaria
per fini strategici e per fini di riequilibrio del mercato.
Posta come l'ha definita il ministro la proposta non obbliga alla
vendita dei "gioielli di famiglia" (una famiglia - lo Stato
- con molti debiti troppi amici interessati al patrimonio), bensì
fa trasparenza sui rapporti tra proprietà e aziende, oggi confusa
in enti pubblici (Iri, Eni, ecc.) che sono una via di mezzo tra una
holding finanziaria e una direzione di un Ministero. A sua volta,
si propone l'abolizione del ministero delle Partecipazioni Statali,
che aveva rappresentato l'anello logico di congiunzione tra la politica
e le aziende di produzione.
Forse la proposta non riuscirà a generare risorse per 15.000
miliardi di lire nel 1992, ma questo non è l'aspetto di maggior
rilevanza, tanto più che sussistono fondati dubbi circa la
corretta iscrizione in bilancio di tale ammontare, posta l'incerta
possibilità di finanziare spesa pubblica corrente con entrate
da alienazione di patrimonio.
Ciò che è più importante è l'avvio di
un processo e la scrittura di procedure che consentono in via ordinaria
le operazioni di dismissione, oggi vincolate a tanti veti incrociati
e procedure politiche da renderle impraticabili.
Vendere o acquistare un'azienda può essere fatto - in via generale
- in due maniere: o attraverso procedure trasparenti e automatiche,
tali da evitare il sospetto di interessi più o meno leciti
sia da parte di privati che da parte di politici e di amministratori
pubblici; o in via del tutto discrezionale, data la necessaria riservatezza
di operazioni - come la vendita o l'acquisto di un'azienda - ove intervengono
tanti elementi di valutazione.
li secondo metodo è quello che vige nel mercato: la discrezione
è necessaria - sia con riferimento al prezzo che con riferimento
ai soggetti - perché l'operato di chi vende o acquista è
giudicato in maniera insindacabile da consigli di amministrazione
che rappresentano la proprietà, giudicano sulla base dei risultati
economici e rischiano in proprio. Lo Stato non può seguire
questo metodo, perché nei Consigli di amministrazione delle
aziende non siedono rappresentanti della proprietà, bensì
dei delegati politici dei Governi protempore che non si assumono alcun
rischio in base al risultato delle operazioni. E' per tale motivo
che le operazioni di dismissioni pubbliche del passato sono state
condotte in mezzo a tante polemiche e tanta pubblicità distorta,
così da rischiare di compromettere i risultati, senza garantire
una vera trasparenza.
La prima esigenza del processo di privatizzazione, dunque, deve essere
quella di assicurare procedure semplici e trasparenti. Non esistono
soluzioni perfette, ma scelte ottimali: quella dell'asta pubblica
sembra essere la migliore, onde evitare polemiche ed intralci. In
questo senso vanno rapidamente modificate quelle norme inserite all'ultimo
momento nel decreto sulle privatizzazioni e che subordinano le singole
scelte al parere del Parlamento: un tale vincolo è la negazione
di procedure rapide e trasparenti, perché reintroduce forme
di patteggiamento politico.

La seconda esigenza è che lo Stato recuperi trasparenza nei
rapporti di proprietà.
La legge di trasformazione degli enti pubblici in società per
azioni (con riferimento a Iri, Eni, Efim, Enel, FFSS ... ) è
un passo importante perché elimina quell'ambiguità di
enti pubblici che oggi sono per metà holding finanziarie e
per metà Direzioni Generali di un Ministero destinato a scomparire.
A questo punto è necessario un chiarimento. Le SpA dovranno
essere gestite non già come fantomatici strumenti di politica
industriale (ciò che farebbe rivoltare la Comunità europea,
oltre che il buon senso), bensì come patrimonio da cui ricavare
un utile, il quale a sua volta - se appartiene allo Stato - può
essere utilizzato per finanziare una politica industriale. Ecco allora
che le SpA delle Partecipazioni Statali debbono essere allocate non
al ministero dell'Industria, ma a quello del Tesoro, ossia non al
ministero che fa politica industriale, ma al ministero che ha la gestione
del debito pubblico e che quindi può comparare gli utili che
ricava dal proprio patrimonio con gli interessi che paga sul debito:
se i secondi sono superiori ai primi, egli sarà indotto a dismettere
patrimonio non redditizio per abbattere un debito costoso; viceversa,
farà anche nuove acquisizioni se il reddito atteso risulterà
superiore agli interessi pagati sul debito.
Finirà così il timore di quanti oggi paventano posizioni
ideologiche: sarà l'aritmetica del dare e dell'avere a decidere
se vale la pena dismettere. A questo punto, se vi sarà ancora
qualche assertore della presenza pubblica nei settori produttivi per
fini strategici, si assumerà la responsabilità effettivamente
di essere l'ultimo epigono del socialismo reale in un mondo che cambia.
La terza esigenza è quella di evitare di inserire nei processi
di dismissione condizioni di limitazione nella gestione operativa
e nella strategia delle imprese. Si finirebbe in tal caso col rendere
non praticabili le dismissioni per eccessi di vincoli, fornendo l'alibi
- a chi non vuol vendere le aziende pubbliche - della inesistenza
di una domanda privata. E' così che, al danno, si sommerebbero
le beffe e il processo di dismissione sarebbe solo una formula vuota.
In effetti, se non si vuole che le privatizzazioni siano una mera
operazione ideologica, è necessario che lo Stato abbandoni
ogni pregiudiziale di strategia industriale (che va condotta con altri
mezzi che non quelli della proprietà delle aziende produttive)
e giudichi solo sulla base del rendimento: gli amministratori degli
enti pubblici trasformati in SpA avranno tutto l'interesse ad un rendimento
elevato delle loro aziende se non vogliono perdere il posto in seguito
a modifiche nella composizione azionaria della proprietà. Per
raggiungere elevati rendimenti, tali amministratori non accetteranno
più nomine politiche nelle loro aziende e si affretteranno
a ridurre i costi di gestione e a cedere quelle attività che
non riescono a dare una remunerazione sufficiente.
Quando il mercato avrà la sensazione che le holding pubbliche
hanno necessità di vendere per realizzare i fondi necessari
alle loro ristrutturazioni, così come è successo per
le imprese private, allora i compratori si faranno avanti, diversamente
da quanto avviene oggi, come giustamente sottolinea il presidente
dell'Iri, Nobili, che afferma di ricevere solo offerte per vendere
all'Iri aziende private e nessuna proposta di acquisto. Infatti, oggi
l'Iri, con il sostegno dello Stato e senza alcuna necessità
di remunerare il suo azionista, non potrà mai essere un venditore
potenziale, bensì sarà sempre un acquirente, perché
nessuno tenterà di acquistare un'azienda da chi è finanziariamente
protetto, non ha problemi di copertura delle perdite e, quindi, non
ha alcuna necessità eli vendere; in un caso come questo, il
venditore imporrà un prezzo molto elevato o venderà
per motivi che poco hanno a che fare con l'economia. E' solo quando
il venditore ha un reale interesse a vendere che si crea anche una
domanda e si può determinare un mercato: la trasformazione
degli enti pubblici in SpA e la necessità di remunerare il
capitale dello Stato azionista possono far emergere questo processo
di dismissioni basato su presupposti economici e non ideologici.