Come uno stanco
rituale, ad ogni ripresa riemerge la polemica sulle privatizzazioni
e sulla riforma (o abolizione) delle Partecipazioni Statali. Ora però
il dibattito avviene in un contesto europeo e interno diverso, che
potrebbe portare ad esiti non scontati. Innanzitutto, il Mercato unico
comincia a funzionare per davvero, e dunque tutti i nostri ritardi
di attuazione del Libro Bianco saltano fuori incontenibilmente: il
Paese va in serie B anche perché, o forse soprattutto perché,
la nostra amministrazione e il nostro governo non sono capaci di allineare
la struttura decisionale dei Paese agli standard europei. Per inciso,
ricordiamo che l'Italia a fine maggio '91 ha applicato il minor numero
di direttive comunitarie (52 su 126); che pressoché tutto l'apparato
di politiche industriali di aiuto alle imprese è in contenzioso
con la Comunità; che nello stesso tempo questo è il
Paese che ha utilizzato meno di tutti le provvidenze comunitarie disposte
per le aree meno favorite, come il Sud (come dimostrato dal conflitto
sui Programmi Integrati Mediterranei, parte della cui dotazione, inutilizzata,
è stata trasferita alla Francia).
I risultati sono palesi, e lo stesso preteso dibattito sulla permanenza
in serie A e sulla retrocessione in serie B risulta superato se si
guardano i dati non solo sul deficit e sull'inflazione, ma anche sulla
crescita delle disparità regionali, che portano l'intero nostro
Mezzogiorno lontano dall'Europa, in singolare contrasto - ad esempio
- con le regioni spagnole, che migliorano sia in termini di reddito
che di occupati. E' in questo contesto che si pone oggi il problema
delle privatizzazioni e delle Partecipazioni Statali.
Qual è l'elemento istituzionale che ci rende diversi dall'Europa?
Non è soltanto l'esistenza, dovuta a motivi storici ben chiari,
di un sistema di imprese a partecipazione statale, le cui decisioni
sono influenzate dal potere politico, ma è che l'intero sistema
di relazioni produttive e finanziarie dei Paese è intriso dell'influenza
dominante del potere politico. Il problema della diversità
italiano non si risolve allora vendendo ad un privato pezzetti delle
Partecipazioni Statali, ma introducendo regole di trasparenza che
obblighino coloro che hanno responsabilità amministrative nelle
imprese pubbliche - dalle PP SS.alle banche, dalle municipalizzate
alle Usi fino ai Teatri dell'Opera - così come i privati che
a ogni titolo ricevono soldi dallo Stato, in forma di aiuti o di appalti,
a renderne effettivamente conto.
Infatti, la differenza è proprio qui: la disciplina comunitaria
considera che le imprese pubbliche debbano rispondere alle stesse
regole di concorrenza delle private e, qualora vi siano deficit dovuti
all'esercizio di un servizio Pubblico, le cause delle perdite e le
modalità della copertura debbano essere chiaramente dichiarate
caso per caso.
La materia è disciplinata dall'articolo 90 del Trattato di
Roma, che precisa che gli Stati non possono emanare né mantenere
nei confronti delle imprese pubbliche misure contrarie al Trattato
stesso: questo dettato è stato poi completato con la direttiva
80/723 del 25 giugno 1980, e la successiva direttiva 85/413 sulla
trasparenza delle relazioni finanziarie tra Stati e imprese pubbliche.
La direttiva del 1980 specifica dapprima che per impresa pubblica
si intende "ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici
possono esercitare direttamente o indirettamente un'influenza dominante
per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della
normativa che la disciplina", e che per poteri pubblici si devono
intendere "lo Stato nonché altri enti territoriali"
(articolo 2). L'articolo 3 poi preciso che "le relazioni finanziarie
fra poteri pubblici e le imprese pubbliche, la cui trasparenza è
da assicurare, sono in particolare: a) il ripiano di perdite d'esercizio;
b) i conferimenti di capitale sociale o dotazione; c) i conferimenti
a fondo perduto o i prestiti a condizione privilegiate; d) la concessione
di vantaggi finanziari sotto forma di non percezione dei benefici
o di non restituzione dei crediti; e) la rinuncia a una remunerazione
normale delle risorse Pubbliche impiegate; f) la compensazione di
oneri imposti dai poteri pubblici".

Per quanto riguarda
le Partecipazioni Statali, quindi, risulta sicuramente necessario
che si proceda a privatizzazioni, ma bisogna anche che ogni altra
impresa, sia che produca beni di mercato, sia che offra servizi in
monopolio, agisca in un contesto di trasparenza, e quindi sia sottoposta
alla vigilanza delle autorità antitrust nazionali e comunitarie.
La prima e fondamentale forma di privatizzazione è allora stabilire
alcune regole chiare che valgano per tutti, sia per la proprietà
pubblica che privata; Innanzitutto le regole comunitarie della concorrenza.
e all'interno di queste il principio che le imprese in proprietà
pubblica debbano essere trasparenti nel loro
comportamento, quindi, fine delle teorie e delle pratiche degli oneri
impropri connessi a compiti impropri. Se si intende incentivare una
particolare attività o la localizzazione in una data area,
si definiscano interventi, anche con eventuale erogazione di aiuti,
ma nell'ambito degli indirizzi comunitari, superando così anche
il contenzioso in materia di aiuti.
Se invece una impresa - sia essa in gestione pubblica, sia essa privata
ma pubblicamente regolato - svolge un servizio pubblico, si identifichi
esattamente quali siano i beni pubblici offerti e se ne spieghino
i motivi di sussidio, e quindi perché quel servizio debbo essere
finanziato a carico dei contribuenti. Quindi, non è detto che
tutte le attività in proprietà, per motivi storici del
governo centrale e degli enti territoriali, come i Comuni, siano beni
pubblici, il caso dell'Iri dimostra che possono essere in proprietà
pubblica attività che non sono beni pubblici, nonostante che
in cinquant'anni siano state cercate molteplici spiegazioni sul perché
lo Stato dovesse gestire direttamente tali attività.
Questo discorso vale, anche se con eccezioni per le attività
minori, pure per i servizi locali. La recente legge 142 dell'8 giugno
1990, che esplicita - in esecuzione della Costituzione -che i Comuni
sono enti autonomi, e la drastica riduzione delle risorse finanziarie
dei Comuni possono essere il bastone e la carota per spingere anche
i Comuni, almeno quelli più grandi, a pensare che il governo
dei servizi pubblici possa essere perseguito con strumenti più
efficienti della gestione diretto dei servizio stesso.
Reidentificare esattamente quali attività sono beni pubblici
e dichiarare come vengono finanziate, sia a livello centrale che locale,
è un fatto di grande rilevanza, che non solo incide sull'efficienza,
ma anche sulla democrazia. Anche
in questo caso la via indicata dalla Comunità, una chiara separazione
tra le Funzioni di indirizzo e di controllo dell'esercizio del servizio
pubblico e le funzioni di attivazione e gestione dei servizio stesso,
è l'elemento cruciale per garantire trasparenza. In altre parole,
per evitare la facile critica che le privatizzazioni in Italia non
sono possibili perché mancano gli acquirenti, basta ricordare
che privatizzazione oggi nel linguaggio della Comunità vuoi
dire eliminare le diversità istituzionali coltivate per cinquant'anni,
applicando lo normativa comunitaria risalente al 1980.
Detto questo, però, bisogna sottolineare che le "privatizzazioni"
in senso stretto, cioè le vendite di imprese pubbliche a privati,
servono agli enti a partecipazione statale per provvedere mezzi in
alternativa al trasferimento di fondi pubblici, ed in primo luogo
di Fondi di dotazione, che sono stati storicamente il modo con cui
si tenevano al guinzaglio i presidenti delle imprese pubbliche. D'altra
parte, se si rilegge la storia dell'ultimo decennio si vede chiaramente
che tanto l'Iri quanto l'Eni negli anni '80, anni di "professori",
hanno ottenuto - vendendo maggioranze e ancor più cedendo minoranze
- più fondi di quanti non ne abbiano ricevuti dalla Stato.
La recente dichiarazione secondo la quale o lo Stato aumenta i fondi
di dotazione all'Iri o questo sarà costretto a vendere la Sme,
è un'ottima occasione per portare le Partecipazioni Statati
ad operare come imprese in un mercato: vendano attività non
strategiche per finanziare attività strategiche secondo i fini
interni del gruppo.
In questa fase, in cui si attorcigliano richieste di grandi riforme
con bisogni conclamati di pulizia, perseguire con coerenza la via
dell'integrazione europea vuoi dire attuare finalmente le norme comunitarie
più volte sottoscritte.