§ Lo Stato in vendita

Ai margini della civile Europa per eccesso di Stato




Flavio Albini



Come uno stanco rituale, ad ogni ripresa riemerge la polemica sulle privatizzazioni e sulla riforma (o abolizione) delle Partecipazioni Statali. Ora però il dibattito avviene in un contesto europeo e interno diverso, che potrebbe portare ad esiti non scontati. Innanzitutto, il Mercato unico comincia a funzionare per davvero, e dunque tutti i nostri ritardi di attuazione del Libro Bianco saltano fuori incontenibilmente: il Paese va in serie B anche perché, o forse soprattutto perché, la nostra amministrazione e il nostro governo non sono capaci di allineare la struttura decisionale dei Paese agli standard europei. Per inciso, ricordiamo che l'Italia a fine maggio '91 ha applicato il minor numero di direttive comunitarie (52 su 126); che pressoché tutto l'apparato di politiche industriali di aiuto alle imprese è in contenzioso con la Comunità; che nello stesso tempo questo è il Paese che ha utilizzato meno di tutti le provvidenze comunitarie disposte per le aree meno favorite, come il Sud (come dimostrato dal conflitto sui Programmi Integrati Mediterranei, parte della cui dotazione, inutilizzata, è stata trasferita alla Francia).
I risultati sono palesi, e lo stesso preteso dibattito sulla permanenza in serie A e sulla retrocessione in serie B risulta superato se si guardano i dati non solo sul deficit e sull'inflazione, ma anche sulla crescita delle disparità regionali, che portano l'intero nostro Mezzogiorno lontano dall'Europa, in singolare contrasto - ad esempio - con le regioni spagnole, che migliorano sia in termini di reddito che di occupati. E' in questo contesto che si pone oggi il problema delle privatizzazioni e delle Partecipazioni Statali.
Qual è l'elemento istituzionale che ci rende diversi dall'Europa? Non è soltanto l'esistenza, dovuta a motivi storici ben chiari, di un sistema di imprese a partecipazione statale, le cui decisioni sono influenzate dal potere politico, ma è che l'intero sistema di relazioni produttive e finanziarie dei Paese è intriso dell'influenza dominante del potere politico. Il problema della diversità italiano non si risolve allora vendendo ad un privato pezzetti delle Partecipazioni Statali, ma introducendo regole di trasparenza che obblighino coloro che hanno responsabilità amministrative nelle imprese pubbliche - dalle PP SS.alle banche, dalle municipalizzate alle Usi fino ai Teatri dell'Opera - così come i privati che a ogni titolo ricevono soldi dallo Stato, in forma di aiuti o di appalti, a renderne effettivamente conto.
Infatti, la differenza è proprio qui: la disciplina comunitaria considera che le imprese pubbliche debbano rispondere alle stesse regole di concorrenza delle private e, qualora vi siano deficit dovuti all'esercizio di un servizio Pubblico, le cause delle perdite e le modalità della copertura debbano essere chiaramente dichiarate caso per caso.
La materia è disciplinata dall'articolo 90 del Trattato di Roma, che precisa che gli Stati non possono emanare né mantenere nei confronti delle imprese pubbliche misure contrarie al Trattato stesso: questo dettato è stato poi completato con la direttiva 80/723 del 25 giugno 1980, e la successiva direttiva 85/413 sulla trasparenza delle relazioni finanziarie tra Stati e imprese pubbliche.
La direttiva del 1980 specifica dapprima che per impresa pubblica si intende "ogni impresa nei confronti della quale i poteri pubblici possono esercitare direttamente o indirettamente un'influenza dominante per ragioni di proprietà, di partecipazione finanziaria o della normativa che la disciplina", e che per poteri pubblici si devono intendere "lo Stato nonché altri enti territoriali" (articolo 2). L'articolo 3 poi preciso che "le relazioni finanziarie fra poteri pubblici e le imprese pubbliche, la cui trasparenza è da assicurare, sono in particolare: a) il ripiano di perdite d'esercizio; b) i conferimenti di capitale sociale o dotazione; c) i conferimenti a fondo perduto o i prestiti a condizione privilegiate; d) la concessione di vantaggi finanziari sotto forma di non percezione dei benefici o di non restituzione dei crediti; e) la rinuncia a una remunerazione normale delle risorse Pubbliche impiegate; f) la compensazione di oneri imposti dai poteri pubblici".

Per quanto riguarda le Partecipazioni Statali, quindi, risulta sicuramente necessario che si proceda a privatizzazioni, ma bisogna anche che ogni altra impresa, sia che produca beni di mercato, sia che offra servizi in monopolio, agisca in un contesto di trasparenza, e quindi sia sottoposta alla vigilanza delle autorità antitrust nazionali e comunitarie.
La prima e fondamentale forma di privatizzazione è allora stabilire alcune regole chiare che valgano per tutti, sia per la proprietà pubblica che privata; Innanzitutto le regole comunitarie della concorrenza. e all'interno di queste il principio che le imprese in proprietà pubblica debbano essere trasparenti nel loro
comportamento, quindi, fine delle teorie e delle pratiche degli oneri impropri connessi a compiti impropri. Se si intende incentivare una particolare attività o la localizzazione in una data area, si definiscano interventi, anche con eventuale erogazione di aiuti, ma nell'ambito degli indirizzi comunitari, superando così anche il contenzioso in materia di aiuti.
Se invece una impresa - sia essa in gestione pubblica, sia essa privata ma pubblicamente regolato - svolge un servizio pubblico, si identifichi esattamente quali siano i beni pubblici offerti e se ne spieghino i motivi di sussidio, e quindi perché quel servizio debbo essere finanziato a carico dei contribuenti. Quindi, non è detto che tutte le attività in proprietà, per motivi storici del governo centrale e degli enti territoriali, come i Comuni, siano beni pubblici, il caso dell'Iri dimostra che possono essere in proprietà pubblica attività che non sono beni pubblici, nonostante che in cinquant'anni siano state cercate molteplici spiegazioni sul perché lo Stato dovesse gestire direttamente tali attività.
Questo discorso vale, anche se con eccezioni per le attività minori, pure per i servizi locali. La recente legge 142 dell'8 giugno 1990, che esplicita - in esecuzione della Costituzione -che i Comuni sono enti autonomi, e la drastica riduzione delle risorse finanziarie dei Comuni possono essere il bastone e la carota per spingere anche i Comuni, almeno quelli più grandi, a pensare che il governo dei servizi pubblici possa essere perseguito con strumenti più efficienti della gestione diretto dei servizio stesso.
Reidentificare esattamente quali attività sono beni pubblici e dichiarare come vengono finanziate, sia a livello centrale che locale, è un fatto di grande rilevanza, che non solo incide sull'efficienza, ma anche sulla democrazia. Anche
in questo caso la via indicata dalla Comunità, una chiara separazione tra le Funzioni di indirizzo e di controllo dell'esercizio del servizio pubblico e le funzioni di attivazione e gestione dei servizio stesso, è l'elemento cruciale per garantire trasparenza. In altre parole, per evitare la facile critica che le privatizzazioni in Italia non sono possibili perché mancano gli acquirenti, basta ricordare che privatizzazione oggi nel linguaggio della Comunità vuoi dire eliminare le diversità istituzionali coltivate per cinquant'anni, applicando lo normativa comunitaria risalente al 1980.
Detto questo, però, bisogna sottolineare che le "privatizzazioni" in senso stretto, cioè le vendite di imprese pubbliche a privati, servono agli enti a partecipazione statale per provvedere mezzi in alternativa al trasferimento di fondi pubblici, ed in primo luogo di Fondi di dotazione, che sono stati storicamente il modo con cui si tenevano al guinzaglio i presidenti delle imprese pubbliche. D'altra parte, se si rilegge la storia dell'ultimo decennio si vede chiaramente che tanto l'Iri quanto l'Eni negli anni '80, anni di "professori", hanno ottenuto - vendendo maggioranze e ancor più cedendo minoranze - più fondi di quanti non ne abbiano ricevuti dalla Stato.
La recente dichiarazione secondo la quale o lo Stato aumenta i fondi di dotazione all'Iri o questo sarà costretto a vendere la Sme, è un'ottima occasione per portare le Partecipazioni Statati ad operare come imprese in un mercato: vendano attività non strategiche per finanziare attività strategiche secondo i fini interni del gruppo.
In questa fase, in cui si attorcigliano richieste di grandi riforme con bisogni conclamati di pulizia, perseguire con coerenza la via dell'integrazione europea vuoi dire attuare finalmente le norme comunitarie più volte sottoscritte.


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