§ Industria & salari

Saldi di bassa stagione




R. A.



L'economia italiana si presenta come l'unica tra quelle dei Paesi industrializzati che non riesca ancora ad avvertire i segni della lenta, ma avviata, ripresa del ciclo congiunturale internazionale. La domanda interna è sostenuta in ragione del corposo flusso di spesa pubblica che rappresenta una sorta di domestica rigidità espressiva, ma essa si scarica, per ora, nell'incremento delle importazioni, mentre langue l'industria nazionale.
La crisi del settore industriale, perché di questo si deve ormai parlare, non è stata ancora percepita in tutta la sua portata, forse, neanche dai padroni dell'industria stessa, da quella miriade di piccoli e medi operatori che, insieme con poche grandi famiglie, rappresentano la spina dorsale dell'iniziativa privata nel nostro Paese. Le ragioni di questa crisi sono, come si diceva una volta, strutturali e non lasciano affatto ben sperare per il futuro. Esse vengono dal decennio alle nostre spalle, un periodo nel quale si sarebbe potuto e dovuto far meglio in molti campi, ma che ha registrato, al contrario, l'ennesima occasione mancata della storia economica nazionale. Le ragioni contingenti della crisi che colpisce il settore industriale stanno scritte nei bilanci del 1991 e si leggono nella marcata flessione dei profitti che questo esercizio sconterà pesantemente. La causa di questa flessione deve essere letta nella dinamica nominale del costo del lavoro: una variabile del sistema economico alimentata dalle numerose inefficienze dell'organizzazione sociale che si scaricano nella richiesta pressante di una crescente capacità di spesa per i salariati che consenta loro di provvedere privatamente alle vistose inadempienze della macchina pubblica nei campi più elementari della vita sociale: scuola, sanità, trasporti.

Insomma, una delle ragioni dominanti dell'incremento del costo del lavoro sta nella circostanza che il salario svolge ormai una funzione di supplenza monetaria, sul mercato dei beni di consumo, dell'incapacità dello Stato di fornire i servizi essenziali per la riproduzione dello stessa forza lavoro. L'altra molla che spinge verso l'alto i salari dell'industria è l'effetto di imitazione nei confronti del pubblico impiego che, in dispregio della crescente inefficienza delle strutture da esso amministrate, vede incrementare il proprio reddito in termini nominali, mentre il tempo di lavoro richiesto per la controprestazione è sistematicamente più basso e molto peggio utilizzato di quello corrispondente nell'industria. In termini relativi, dunque, il lavoro produttivo dell'operaio è retribuito assai peggio di quello dei pubblici funzionari e non deve, quindi, stupire la vera e propria fuga dall'attività industriale delle nuove generazioni.
Sia come sia, crescono i salari nominali e questo, in presenza di cambi fissi con i mercati europei verso i quali esportiamo i nostri manufatti industriali, rappresenta un fattore di svantaggio assoluto. Non ci si può aspettare, d'altra parte, che in un anno, il 1992, fra l'altro gravido di prove elettorali, si ponga mano a quel riallineamento del cambio che, forse, realizzato tempestivamente all'inizio del 1991, ci avrebbe risparmiato parte di questa difficile congiuntura.
Il governo aveva intuito la difficoltà strategica insita nel rapporto tra salari e profitti, e si era mosso con largo anticipo, rispetto alla tradizionale bagarre di fine d'anno alimentata dalla legge finanziaria, sull'obiettivo di un patto sociale in materia di politica dei redditi. La metodologia vaga, il lento ritmo della trattativa e l'indeterminatezza della stessa, oltre alla sovrapposizione con la questione altrettanto delicata ma ineluttabile della riforma del regime delle pensioni, ci hanno fatto largamente consumare e disperdere questo vantaggio.
Nell'interesse strategico dei salariati dell'industria, se il nostro Paese vuole continuare ad avere un'industria, bisogna ora sciogliere questo nodo in termini sia assoluti che procedurali. Serve un accordo sulla dinamica attesa del costo del lavoro, serve una trattativa seria sulla revisione degli automatismi e serve una ridefinizione della complessa procedura nazionale, aziendale e settoriale, con la quale si procede ai rinnovi contrattuali. E' evidente che si possono perseguire queste opzioni secondo punti di vista alternativi, ma è altrettanto evidente che oggi è primario interesse dei lavoratori garantirsi un quadro economico del 2000 che registri la presenza di un'industria forte e non di un'industria "emigrata" oltre frontiera, in Francia piuttosto che nei Paesi dell'Europa orientale.


Il mercato del lavoro non è l'unica cosa che funziona male, compromettendo le ragioni di fondo della competitività internazionale della nostra industria. Non funzionano neanche, e sono per giunta vistosamente ingolfati, i nostri mercati finanziari. Debiti e crediti, come tutti sanno, sono disciplinati da norme convenzionali e, dunque, la qualità della legislazione vigente rappresenta la leva fondamentale per garantire l'efficienza dei mercati finanziari. Dopo un decollo promettente, la nascita dei Fondi comuni, la legge Carli-Amato, la nascita delle Sim ed il varo della legge antitrust e di quella sul riciclaggio, la strada del rinnovamento si è bruscamente interrotta. La nefasta vicenda della legge sui "capital gains" ha dato il colpo mortale alla Borsa che scontava, del resto correttamente, la caduta tendenziale della redditività delle imprese nazionali, e della legge delega per una nuova normativa complessiva sui mercati finanziari non si sente neanche più parlare. Anche se, prima di abbandonare l'Italia per altri contesti operativi più gratificanti, il direttore generale del ministero del Tesoro, Sarcinelli, aveva condotto a termine un interessante lavoro di ricognizione e di proposta sui maggiori problemi aperti e da risolvere, in vista dell'ulteriore integrazione con gli altri mercati europei.
Senza riferimenti strategici e ingolfato dai titoli del debito pubblico, il mercato langue nella indeterminatezza, tenendo ben alto il livello dei tassi nominali a breve, almeno per difendersi dall'incertezza dichiarata sul futuro prossimo.
Stretta tra le lame della forbice, gli incrementi salariali e gli alti tassi dell'interesse, mentre il risparmio nazionale e gran parte dei fondi affluenti dall'estero finanziano l'inefficienza della pubblica gestione, l'industria nazionale non sembra più il motore capace di portare la nave italiana fuori dalle secche: ma l'equipaggio e i passeggeri farebbero bene a preoccuparsi e a regolarsi di conseguenza.

Il rifiuto della fabbrica

E' finito il sogno della tuta blu?

Dalla Basilicata una notizia che fa riflettere: i corsi di formazione professionale attivati dalla regione per fornire ai giovani disoccupati e in cerca di prima occupazione una qualificazione adeguata per le selezioni che la Fiat attiverà per le assunzioni nello stabilimento di Melfi hanno fatto fiasco. Il 33 per cento degli iscritti al corso tecnico non ha portato a termine le trecento ore previste. Perché questo rifiuto della fabbrica? Probabilmente una delle ragioni, anche se non la sola, risiede nel fatto che l'incontro tra due culture, l'industria e il Sud interno, implica un tempo non brevissimo.
Certamente l'impatto dell'industrializzazione sulla vecchia cultura contadino, che forse sopravvive ormai solo nella Basilicata, comporta traumi e cambiamenti nelle vecchie e nelle nuove generazioni. Ma le ragioni di questo disimpegno dei giovani risiedono anche in una serie di altri fattori comuni ad altre regioni meridionali. In primo luogo, la natura della disoccupazione giovanile, che per molti è rifiuto di un'occupazione che non sia il "posto pubblico". Di qui il rifugio nelle università, viste da molti giovani come aree di parcheggio per perpetuare indefinitamente una condizione di studente in attesa del desiderato posto di lavoro nella pubblica amministrazione.
In secondo luogo, la perplessità di molti giovani meridionali ad accedere al lavoro manuale, visto come `Fatica` nell'accezione tradizionale dei bracciantato agricolo e della manovalanza edile. E a questo orientamento hanno dato il loro contributo decenni di stratificazione culturale delle buone famiglie della piccola e media borghesia meridionale, per cui il `pezzo di carta' rappresentava l'unica condizione di promozione sociale e di successo economico.
Infine, ma non per ultimo, gioca in quest'atteggiamento dei giovani disoccupati meridionali la logica diseducativa e devastante dello Stato assistenziale, che ha distrutto progressivamente ogni incentivo a cercare guadagno in attività produttive. La quota del settore manifatturiero sul valore aggiunto - come risulta da un'indagine della Svimez -rappresenta oggi nel Mezzogiorno solo il 13 per cento del totale a fronte dei 27 per cento delle regioni centro-settentrionali. Il tasso di disoccupazione ufficiale non ha smesso di aumentare, raggiungendo il 21 per cento della forza-lavoro nel suo complesso e il 50 per cento dei giovani in cerca di prima occupazione.
C'è di più. Tale stato di cose è alimentato da una distorta politica della spesa pubblica. Esso costituisce oltre il 50 per cento della domanda aggregato della media dei Paese e il 75 per cento dei Mezzogiorno. li .40 per cento del reddito disponibile delle famiglie italiane è costituito da stipendi pubblici, pensioni ed altri trasferimenti dello Stato e da altri enti pubblici; questa proporzione nelle regioni meridionali sale al 70 per cento.
Tutti questi motivi concorrono, quindi, a spiegare perché il giovane disoccupato lucano rifiuta la fabbrica. Non una motivazione luddista o un ritorno agli scenari bucolici. La ragione più profonda della fine dei sogno -una volta grande - della tuta blu risiede nell'attesa beckettiana dei posto pubblico, dei "pane dello Stato", più appetibile, meno faticoso, meno controllato di quello dell'industria privata; ma soprattutto con un margine di certezza quasi assoluto di illicenziabilità.


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