§ Cooperazione e sviluppo

Abitare il Mediterraneo




Silvana Di Febo



Sul Mediterraneo si affaccia oggi una gamma davvero vasta di realtà sociali ed economiche profondamente diverse e in rapida trasformazione. Questa varietà di situazioni viene generalmente divisa in due grandi aggregati: la sponda Nord, che presenta redditi mediamente elevati e una popolazione demograficamente matura, e la sponda Sud - nella quale rientra anche la Turchia, "settentrionale" solamente sotto l'aspetto geografico -, che si distingue invece per minor opulenza e per una età media molto bassa. Mentre nei Paesi europei l'anzianizzazione della popolazione lancia una sfida ai sistemi di welfare, pensati e calibrati per una popolazione più giovane di quella attuale e futura, nei Paesi della sponda Sud l'inflazione demografica rischia di diventare un freno alle speranze di sviluppo.
Invero, il mondo mediterraneo presenta un profilo così variegato e multiforme da non consentire una descrizione meramente dicotomica: alla sponda Nord appartengono quattro Stati della Cee, ma anche alcune parti di quel continente alla deriva che è l'Europa centrorientale (Jugoslavia e Albania). Rientra invece nella sponda Sud lo Stato di Israele, che è a tutti gli effetti un Paese a sviluppo avanzato. Anche tra i Paesi arabi del Nord Africa non si registra una totale omogeneità di comportamenti economici e demografici ma, come vedremo meglio in seguito, è possibile localizzare modelli sensibilmente diversi.
Nel corso delle pagine successive tenteremo di sondare alcuni aspetti del futuro dell'area mediterranea allargata (comprendendo quindi, oltre ai Paesi rivieraschi, gli altri Paesi appartenenti alle Cee ed il mondo arabo nel suo complesso), partendo dall'analisi demografica. Diciotto sono i Paesi che si affacciano sul mare Mediterraneo; se escludiamo quelli di piccole e piccolissime dimensioni, possiamo limitare la nostra attenzione a sei Stati europei (Spagna, Francia, Italia, Jugoslavia, Albania e Grecia), che da soli rappresentano oltre il 50% della popolazione ed il 73% delle coste (al Nord più frastagliate), a quattro Stati orientali (Turchia, Siria, Libano, Israele) e ai cinque Stati nordafricani (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto).

Mentre i valori dei tassi di mortalità nei diversi Paesi non differiscono significativamente (anche perché le diverse strutture per età delle popolazioni tendono ad appianare il divario ancora esistente in termini di speranza di vita), la distanza tra i tassi di natalità rimane elevatissima. il rapporto tra tasso di natalità italiano e algerino è, a titolo d'esempio, di 1 a 4.
Si possono facilmente intuire i problemi collegati ad una natalità così elevata: in primo luogo fabbisogno alimentare, ma anche pressione sul sistema scolastico e sanitario e, in prospettiva, pressione sul mercato del lavoro.
Apparentemente eccezionale, il comportamento demografico dei Paesi arabi rientra negli schemi della cosiddetta teoria della transizione demografica.
A che punto si trova attualmente LA transizione demografica nei Paesi arabi? Mentre la mortalità è ovunque in rapido declino da almeno trenta anni, il calo del tasso di natalità stenta invece a consolidarsi. Non mancano, è vero, segnali del fatto che qualcosa si sta muovendo: ad esempio, il numero medio di figli per donna in Algeria è sceso dal 1970 ad oggi da 8 a 6; esiste inoltre Una correlazione negativa tra il livello di istruzione femminile, attualmente crescente, e fecondità (a questo proposito si veda, più avanti, il paragrafo sul lavoro femminile nei Paesi arabi). Purtuttavia, anche ipotizzando un declino alquanto rapido (lei tassi di fecondità, la popolazione araba si appresta a vivere nei prossimi decenni la fase critica della propria transizione, quella che comporta una vera e propria esplosione demografica: da 71 milioni al 1950 si passerà a oltre mezzo miliardo entro i primi tre decenni del prossimo secolo.
Bisogna osservare come all'interno del inondo arabo non sia possibile individuare un'uniformità di comportamenti demografici: alcuni Paesi (come Tunisia ed Egitto) hanno già sensibilmente ridotto la propria natalità e potrebbero veder completato in pochi decenni il processo transizionale; in altri Paesi (Algeria, Libia e tutta la penisola arabica), gli indicatori sociali e demografici lasciano prevedere una durata sensibilmente maggiore.


La separazione tra due aree demografiche (che possiamo definire a "transizione breve" e "a transizione lunga") ha molti tratti in comune con la profonda divisione geo-politica, dai confini instabili, derivante dalle diverse risposte date dai sistemi politici arabi alle pressioni della modernizzazione. Questa parziale sovrapposizione dei confini del comportamento demografico a quelli dei sistemi politico-religiosi mette in evidenza come l'analisi dei fenomeni demografici - forse nel caso dei Paesi arabi più che altrove - non sia scindibile dall'analisi delle culture e delle società entro le quali gli individui agiscono.
La durata della transizione demografica e, di conseguenza, le dimensioni finali delle popolazioni arabe sono evidentemente subordinate alle direzioni e alla velocità di trasformazione della tradizionale organizzazione familiare musulmana e all'abbandono della rigida divisione dei compiti tra i sessi.
Ma la necessità di rivoluzionarie trasformazioni sociali affinché sia completata la transizione demografica non costituisce una caratteristica peculiare della società araba: a ben vedere, anche in Europa durante il passaggio dalla fase pre-transizionale a quella post-transizionale gli assetti sociali ed economici sono stati ribaltati da rivoluzionarie trasformazioni: la diffusione di fratture intergenerazionali, la creazione di un sistema di previdenza, l'universalizzazione dell'istruzione connessa al passaggio da un sistema di reclutamento della manodopera sulla base dello status familiare a quello sulla base delle capacità personali, e così via.
Il ritardo nel completamento della terza fase della transizione da parte delle popolazioni arabe determina un lungo periodo di intensa espansione; le proiezioni segnalano come anche in un'ipotesi di rapido declino della fecondità (ipotesi di prosecuzione delle tendenze in atto), le forze d'inerzia demografica attualmente in moto porteranno le popolazioni dei Paesi arabi a decuplicare le proprie dimensioni nell'arco di un secolo.
Il rapporto numerico tra mondo arabo e Comunità europea si sta perciò capovolgendo: solamente nel 1950 i Paesi oggi appartenenti alla Cee avevano un peso demografico triplo rispetto a quello dei Paesi arabi (dalla penisola arabica al Maghreb). Nel primo decennio del secolo avverrà il sorpasso.
Si noti che in poco più di dieci anni la popolazione araba aumenta di un numero di individui pari a quello di tutti gli italiani e spagnoli messi insieme.


Strettamente correlate alle dimensioni di una popolazione è la sua struttura per età: mentre le popolazioni europee, una volta raggiunta la quasi-stazionarietà, si trovano a dover fronteggiare i problemi legati all'invecchiamento, per i Paesi demograficamente ancora dinamici il "problema" è attualmente costituito dalla presenza di classi giovanili di enormi dimensioni.
Già oggi l'Algeria, che non raggiunge i 25 milioni di abitanti, conta un numero di scolari superiore a quello registrato nelle scuole italiane. E, come è ovvio, il divario tende a crescere.
La diversa composizione per età delle popolazioni mediterranee è evidente: su un campione di persone appartenenti ai Paesi europei troviamo la metà di giovani ed il triplo di anziani rispetto alle presenze riscontrabili in un campione di eguali dimensioni proveniente dalla sponda Sud. In entrambi i casi, il tasso di dipendenza totale (che misura il rapporto tra popolazione 'la carico", cioè inferiore ai 15 anni e superiore ai 65, e popolazione in età lavorativa) èpiuttosto elevato, ma in prospettiva, tale indicatore è destinato a peggiorare nei Paesi europei e a migliorare nei Paesi arabi e in Turchia, per i quali si prevede una rapida crescita della popolazione in età lavorativa.
Va quindi sottolineato il fatto che le Popolazioni abitanti le regioni orientali e meridionali del Mediterraneo saranno chiamate a subire nei prossimi anni trasformazioni straordinarie non soltanto dal punto di vista quantitativo ma anche sotto il profilo della composizione per età.


MAROCCO

Consistenza della popolazione
Grazie ad un tasso medio annuo di incremento costantemente superiore al 2,5%, la popolazione marocchina è cresciuta dai 9 milioni del 1950 ai 20 milioni del 1980. Nel 1987 sono stati raggiunti i 24 milioni ed entro la fine del secolo saranno oltrepassati i 30 milioni di abitanti.
La fecondità ipotizzata per le proiezioni declina dal valore attuale prossimo a 6 figli per la donna a 4 nella metà degli anni Novanta, per passare a 2,35 nel primo decennio del nuovo secolo ed infine raggiungere la soglia del ricambio generazionale (2,1 figli per donna) a partire dal 2013. Anche adottando questa ottimistica ipotesi di deciso declino della fecondità, notiamo come la popolazione cresca di circa 5 milioni di individui ogni decennio.
In termini relativi, la popolazione marocchina costituiva nel 1950 il 4,2% del complesso delle popolazioni che si affacciano sul mare Mediterraneo; nel 1985 il peso demografico del Marocco è salito a 6,2% ed entro la fine del secolo avrà superato il 7%.

La dinamica del movimento naturale
Nel corso degli anni Ottanta le nascite annue si sono aggirate intorno alle 800.000 mentre si sono avuti mediamente 240.000 decessi annui. Il movimento naturale della popolazione è dunque scandito, ogni anno, da un saldo positivo di oltre mezzo milione di individui.
Il declino della mortalità è in buona parte imputabile alla riduzione del tasso di mortalità infantile, sceso dal 180 per mille dei primi anni Cinquanta (che corrisponde al decesso di quasi un neonato sii 5) al 70 per mille alla fine degli anni Ottanta. Anche in conseguenza di ciò, la speranza di vita alla nascita è cresciuta del 50%, passando da poco più di 40 anni agli attuali 60 anni. Entro il 2010 si prevede un ulteriore guadagno di vita media i circa un decennio.

Le trasformazioni nella struttura per età
Il fenomeno più evidente nell'evoluzione "qualitativa" della popolazione marocchina è quella del relativo invecchiamento. Attualmente l'età mediana è pari a 18 anni., ciò significa che il 50% della popolazione non ha ancora compiuto il diciottesimo anno di età. Nell'arco dei prossimi 40 anni tale valore dovrebbe salire e superare i 32 anni.
La quota di anziani (65 anni e oltre) sul totale della popolazione non supera attualmente il 4%. Il suo raddoppio è previsto entro il 2027.
La forte riduzione nella quota di giovani e il parallelo (se pur più lento) incremento nella quota degli anziani, si traducono in un progressivo declino dell'indice di dipendenza o di carico sociale, che rapporta l'ammontare di soggetti teoricamente "a carico" della società (giovani e anziani) al numero di coloro potenzialmente in grado di sostenerli.
Da questa netta riduzione (ogni persona a carico nel 1970 dipendeva da un lavoratore, mentre a partire dal 2007 potrà contare sul lavoro di due individui) emerge una chance di sviluppo per il Marocco.

La popolazione in età lavorativa
La popolazione in età lavorativa - i cui limiti sono fissati convenzionalmente ai 15 e ai 64 anni - tende ad aumentare il proprio peso sul totale della popolazione.
La contrapposizione tra la consistenza dei flussi quinquennali di ingresso nell'età lavorativa e quella dei flussi in uscita, evidenzia, per almeno un paio di decenni, un'eccedenza dei primi sui secondi dell'ordine di due-tre milioni di unità. In parallelo, il tasso di ricambio della popolazione maschile in età lavorativa si mantiene per un lungo periodo al di sotto del 20% per ogni 100 soggetti che fanno il loro ingresso nell'età lavorativa, ve ne sono non più di 20 che raggiungono i limiti dell'età pensionabile.


ALGERIA

Consistenza della popolazione
Come per gli altri Paesi nordafricani, il secondo dopoguerra è stato un periodo di fortissima espansione della popolazione algerina: da poco meno di 9 milioni di abitanti nel 1950, si è passati a circa 23 milioni e mezzo nel 1987, e le previsioni (nell'ipotesi di una progressiva riduzione dei livelli di fecondità e di saldo migratorio nullo) stimano per l'anno 2027 Una consistenza totale pari a oltre 60 milioni di abitanti.
La rapida crescita della popolazione algerina fa registrare ritmi particolarmente elevati anche rispetto agli altri paesi della sponda Sud del Mediterraneo: il "peso" demografico dell'Algeria era nel 1950 pari al 16,9% dei paesi arabi africani e al 4,1% rispetto al complesso di tutti i paesi mediterranei. Nel 2000 si prevede che tali valori diventino rispettivamente 19,3 e 7,8%.

La dinamica del movimento naturale
Come si è visto, il tasso medio di incremento è stato durante gli anni Ottanta e continuerà ad essere per almeno un decennio superiore al 3%.
Nel 1987 sono nati in Algeria circa 800.000 bambini (un numero che nessun Paese appartenente alla Comunità europea ha raggiunto nello stesso anno). Per contro, i decessi sono stati pari a 161.000. La differenza, pari a 639.000 individui, costituisce l'incremento naturale annuo della popolazione algerina; durante gli anni Ottanta, tale incremento non è mai stato inferiore alle 600.000 unità.
Come abbiamo già visto per il Marocco, un fattore determinante della crescita demografica attuale, è localizzabile nel declino della mortalità infantile, scesa verticalmente negli ultimi anni.

Le trasformazioni nella struttura per età
Il censimento della popolazione effettuato nel 1987 consente una lettura approfondita dei tratti demografici algerini. L'aspetto che colpisce di più rimane l'estrema giovinezza della popolazione: il 55% dei cittadini algerini non ha 20 anni, mentre solo 6 persone su 100 superano la sessantina.
L'indice di dipendenza tende a ridursi man mano che le generazioni consistenti nate negli anni Settanta ed Ottanta fanno il loro ingresso nell'età lavorativa.

La popolazione in età lavorativa
Come abbiamo già accennato per il Marocco, la futura straordinaria concentrazione di popolazione in età lavorativa potrebbe costituire una grande opportunità di sviluppo per i Paesi dell'area.
Certamente dal riuscito o mancato soddisfacimento delle aspettative di lavoro di milioni di individui, dipendono la stabilità economica e politica dei paesi interessati.
La contrapposizione tra la consistenza dei flussi annui in ingresso nell'età lavorativa e quella dei flussi in uscita evidenzia un'eccedenza dei primi sui secondi che giungerà a superare nel prossimo secolo le 800.000 unità. Il rapporto tra soggetti che faranno il loro ingresso nell'età lavorativa e soggetti in uscita sarà 7 a I.


TUNISIA

Consistenza della popolazione
La Repubblica di Tunisia è il più piccolo degli Stati del Nord Africa: sul suo territorio vivevano nel 1950 circa 3 milioni e mezzo di abitanti. Al censimento del 1984 (l'ultimo effettuato) se ne sono contati il doppio. La dinamica demografica tunisina appare meno esplosiva rispetto a quella registrata nei Paesi confinanti (Algeria e Libia); di conseguenza, le proiezioni della popolazione prevedono tassi annui di accrescimento più contenuti. La crescita relativamente più lenta della popolazione tunisina si traduce in una perdita di peso nell'ambito dei paesi nordafricani: dal 6,8% nel 1950 si passerà al 5,4% all'inizio del nuovo secolo.

La dinamica del movimento naturale
Sebbene il tasso di incremento naturale si mantenga al di sopra del 20 per mille, il deciso calo della natalità tunisina lascia intuire un completamento del processo di transizione demografica in tempi relativamente brevi.
Se escludiamo il Libano, la Tunisia è il Paese arabo in cui si registra il minor numero di figli per donna: 4,4 nel 1987, mentre nel 1970 erano 6. Un ruolo importante è stato svolto dall'accesso generalizzato ai servizi di pianificazione familiare, praticamente assenti nella maggior parte dei Paesi arabi.
Una seconda causa del rallentamento della fecondità è costituito dall'abbandono della poligamia: solo 5 uomini sposati su 1.000 hanno più di una sposa in Tunisia, mentre la media araba èpari a 56 per mille-, anche in questo caso bisogna riconoscere alla popolazione tunisina un primato all'interno del mondo arabo.

Le trasformazioni nella struttura per età
Come abbiamo visto, le differenze del comportamento socio-demografico della popolazione tunisina sono notevoli rispetto al contesto arabo.
L'attuale struttura per età appare comunque squilibrata, e dovranno passare ancora alcuni decenni prima che possa dirsi completata la fase transizionale. L'età mediana è attualmente pari a 20 anni. Salirà a 35 entro il primo trentennio del nuovo secolo.
L'indice di dipendenza si aggira attualmente intorno al 74% ma è destinato a scendere al 64% nel 1999 e sotto il 50% a partire dal 2008.

La popolazione in età lavorativa
L'alto ritmo di crescita registrato negli anni Ottanta e Novanta, si attenua progressivamente, pur senza esaurirsi: dalle 150.000 unità annue si passa a 50-60.000.
Il rapporto tra flusso in uscita e flusso in entrata nell'età lavorativa si aggira intorno a 4. Si noti che per la Tunisia la pressione sul mercato del lavoro non avrà un'origine esclusivamente demografica, ma sarà determinata anche dal processo di femminilizzazione della forza lavoro attualmente in corso.


EGITTO

Consistenza della popolazione
Oltre un quarto dell'intera popolazione araba risiede attualmente in Egitto: nel 1950 la popolazione egiziana aveva già superato i 20 milioni; al termine degli anni Settanta sono stati raggiunti i 40 milioni e le nostre proiezioni segnalano come attorno al 2030, anche ipotizzando una riduzione drastica dei tassi di fecondità, l'Egitto sarà abitato da oltre 100 milioni di abitanti.
In termini relativi, nel 1950 la popolazione egiziana costituiva il 9,5% dell'intera popolazione dei paesi che si affacciano sul bacino Mediterraneo. Mezzo secolo dopo, si prevede che il peso demografico dell'Egitto sull'area sarà salito fino al 14,9%.

La dinamica del movimento naturale
Durante gli anni Ottanta si sono avute in Egitto circa 1.600.000 nascite all'anno, mentre i decessi si sono aggirati intorno al mezzo milione-, il tasso medio annuo di incremento ha recentemente superato il trenta per mille, valore che corrisponde al raddoppio della popolazione in meno di 24 anni.
Questa accelerazione della crescita demografica va imputata al netto calo della mortalità: all'inizio degli anni Cinquanta, un neonato egiziano aveva una speranza di vita pari a circa 42 anni; uno su 5 non raggiungeva il primo compleanno. Oggi, la speranza di vita ha raggiunto i 60 anni e la mortalità infantile colpisce un neonato su 12; per il 2015 si stima che la speranza di vita salirà fino a 70 anni, mentre la mortalità infantile declinerà sino al 3,6%, un valore che rimane comunque estremamente elevato rispetto ai livelli medi occidentali.

Le trasformazioni nella struttura per età
Come per altri Paesi dell'area, l'età mediana egiziana è piuttosto giovane: il 50% della popolazione ha meno di 20 anni ed il 40% meno di 14. Per contro, il numero di anziani (sessantacinquenni ed oltre) non supera il 4%.
L'indice di dipendenza o di carico sociale appare relativamente meno alto rispetto alla media dei Paesi arabi.

La popolazione in età lavorativa
La crescente immissione di leve giovanili particolarmente numerose porterà la popolazione in età lavorativa a svilupparsi più velocemente della popolazione totale, sino a comprendere il 70% di quest'ultima.
La differenza tra i flussi annui in entrata e quelli in uscita dall'età lavorativa, sarà durante i prossimi tre decenni pari a circa un milione di Unità. Nel periodo in cui i 5 soggetti fanno il loro ingresso nella fase della vita dedicata al lavoro, solamente uno raggiunge i limiti dell'età pensionabile.


TURCHIA

Completiamo questa breve serie di schede nazionali con la Turchia, Un Paese per alcuni versi l'unico" nel contesto mediterraneo, diviso tra aspirazioni occidentali (la Turchia è Stato membro di OCDE, Nato, Consiglio d'Europa e ha presentato la domanda di ammissione alla Cee) e tradizioni asiatiche, saldamente inserito nell'arca islamica ma, a differenza degli altri Paesi musulmani della regione, non appartenente al mondo arabo.

Consistenza della popolazione
Come nei casi precedenti, l'intensità della crescita demografica in Turchia si è mantenuta estremamente elevata a partire dal secondo dopoguerra. Tra pochi decenni, la popolazione residente in Turchia dividerà con la popolazione egiziana il primato di popolazione più numerosa del bacino mediterraneo. Le proiezioni si basano sull'ipotesi di prosecuzione delle tendenze riproduttive in atto: dal 1950 ad oggi il numero medio di figli per donna è sceso da oltre 6 a meno di 4; entro il 2020 si ipotizza un ulteriore declino fino ad una media di 2,4 figli per donna.

La dinamica del movimento naturale
Il tasso di natalità della popolazione turca si mantiene elevato (circa 30 nati all'anno per 1.000 abitanti) mentre quello di mortalità - anche a causa della struttura per età estremamente giovane -si aggira intorno all'8 per mille; il tasso di accrescimento naturale è quindi superiore al 2% annuo.
Ancora preoccupante è il livello della mortalità infantile: nonostante i significativi progressi raggiunti nel campo dell'alimentazione e della medicina, che hanno fatto dimenticare gli anni in cui un bambino sii 4 non raggiungeva il primo anno di età, il tasso di mortalità infantile è sceso sotto il 100 per mille solamente alla fine degli anni Ottanta.
La speranza di vita alla nascita è di poco superiore ai 60 anni per entrambi i sessi.

Le trasformazioni nella struttura per età
La Turchia presenta una popolazione strutturalmente giovane.
Le persone con un'età inferiore ai 15 anni costituiscono un terzo dell'intera popolazione; per contro, la componente anziana è piuttosto esigua: solo il 4% degli individui ha più di 65 anni.
I mutamenti previsti per i prossimi decenni modificheranno la struttura: al 2025 si prevede che i giovani scenderanno sotto il 25% mentre gli anziani supereranno il 9%. A seguito di queste trasformazioni, l'indice di dipendenza (o di carico sociale) proseguirà la contrazione iniziata durante gli anni Settanta.

La popolazione in età lavorativa e forza lavoro
La popolazione in età lavorativa è cresciuta tra il 1950 e il 1985 da circa dodici milioni di individui a oltre ventinove milioni; entro il 2025 è previsto un ulteriore raddoppio.
Di fronte a tali dati appare evidente l'enorme rilevanza che il fattore demografico assume al fine di determinare sia l'offerta potenziale di lavoro, sia le problematiche di equilibrio economico e sociale che ad essa si ricollegano.
A differenza di quanto si registra sui mercati del lavoro dei Paesi arabi (ai quali saranno dedicate le prossime pagine), il mercato del lavoro turco è caratterizzato da una forte presenza femminile: alla fine degli anni Ottanta oltre un terzo della forza lavoro era costituita da donne; le previsioni stimano che tale quota debba salire nei prossimi anni ed avvicinarsi al 40%.
Anche per questo motivo, appare estremamente elevato il numero di posti di lavoro che il sistema economico turco dovrebbe creare per garantire la stabilità dei tassi di disoccupazione di fronte alla crescente immissione netta di forza lavoro: circa 5 milioni da oggi alla fine del secolo (due dei quali destinati a giovani donne) e 14 milioni nei successivi 25 anni.

MERCATO DEL LAVORO

E CAMBIAMENTO SOCIALE NEL MONDO ARABO

L'evoluzione demografica presente e prevista per i prossimi decenni nei Paesi arabi è dunque straordinariamente dinamica. Inoltre i ritmi di crescita delle popolazioni in età lavorative sono ancora più sostenuti di quelle delle popolazioni globali. Quale potrà essere l'impatto di tale pressione demografica sui mercati del lavoro?
Nel 1985 la popolazione in età lavorativa nell'interno del mondo arabo era costituita da circa 97 milioni di individui, il 70% dei quali abitante in Stati nordafricani (i 5 Paesi mediterranei più il Sudan).
Nello stesso anno la forza lavoro nei Paesi arabi era valutata intorno ai 50,5 milioni; il tasso di attività globale (misurato sull'intera popolazione in età lavorativa) era dunque pari al 52%, un valore nettamente inferiore al 61% italiano. La ragione principale di questo sensibile divario sta nel fatto che la presenza femminile sul mercato del lavoro dei Paesi arabi è limitatissima.
I motivi della bassissima partecipazione delle donne arabe al lavoro extra-domestico dipendono principalmente dalla netta divisione dei ruoli tra i due sessi conforme ai principi della tradizione islamica (non si tratta dunque di una caratteristica peculiare del mondo arabo che, lo ricordiamo, rappresenta solamente un quinto del panorama islamico mondiale): il privilegio del contatto con il mondo esterno (che si attua dapprima grazie alla scuola e in seguito con la vita lavorativa) è generalmente riservato all'uomo, mentre la vita della donna si svolge entro i confini familiari.
Fino al 1960 ogni donna araba partoriva in media 7 o 8 figli; i tempi di allattamento erano allora più lunghi di quelli attuali e la speranza di vita non superava i 50 anni. Tutta l'esistenza di una donna adulta era dunque dedicata allo svolgimento del ruolo materno.
Da venti anni a questa parte, tuttavia, si registrano importanti trasformazioni nella società araba: tra i fattori di cambiamento più rilevanti si segnala il generale innalzamento della scolarizzazione femminile.
In tutti i paesi in via di sviluppo si registra un'ineguale partecipazione scolastica per sesso: nel complesso dei PVS si registravano, all'inizio degli anni settanta, 72 iscrizioni femminili alle scuole primarie per ogni cento iscrizioni maschili. Negli stessi anni il rapporto nei paesi arabi era di 56 per 100. La minor scolarizzazione femminile nei paesi arabi è evidenziata dai tassi di analfabetismo.
In ogni Paese si registra per entrambi i sessi un netto miglioramento dei livelli di istruzione; certo, il tasso di analfabetismo femminile rimane ancora nettamente superiore a quello maschile; ma questo divario è imputabile in primo luogo al fatto che i progressi della scolarizzazione possono incidere solo marginalmente sull'analfabetismo della popolazione adulta e anziana; va poi detto che alcuni punti percentuali di differenza tra i due sessi nei livelli di istruzione trovano una giustificazione nella struttura demografica: la popolazione femminile, più longeva, è mediamente più anziana di alcuni anni rispetto a quella maschile e, quindi, risente relativamente meno del peso delle classi giovani più istruite.
La partecipazione scolastica femminile cresce, e questo fatto costituisce una delle tendenze più rilevanti nelle società arabe contemporanee.
infatti, anche se il maggiore accesso all'istruzione da parte di giovani donne arabe non si traduce immediatamente in maggiore partecipazione al mercato del lavoro, esso contribuisce a rimuovere una delle barriere all'ingresso, quella dell'assenza di "sapere". Inoltre, effetti immediati della maggiore scolarizzazione femminile investono la sfera della fecondità: in primo luogo il prolungamento del periodo dedicato all'istruzione ritarda il matrimonio e riduce dunque la fase della vita destinata alla maternità; in secondo luogo l'allungamento degli studi comporta un incremento notevole dei costi sostenuti dalle famiglie per l'istruzione che potrebbe incidere sulla decisione di mettere al mondo un numero elevato di figli; infine l'apertura al mondo esterno data dalla scuola può offrire alla giovane donna modelli di realizzazione personale alternativi a quello tradizionale della maternità: la creazione di aspettative professionali potrebbe anch'essa contribuire a limitare la fecondità.
A un maggiore livello di istruzione corrisponde dunque un minor numero di figli e, di conseguenza, una maggiore disponibilità di tempo da dedicare ad attività extra-domestiche. Quanto poi la maggiore scolarizzazione delle donne arabe si traduca in una maggiore partecipazione al mercato del lavoro non è facile prevedere: variabili imponderabili, quali il ritmo e le traiettorie di sviluppo economico dei Paesi arabi o il ritorno di sentimenti integralisti islamici, influiscono in maniera diretta sulla praticabilità di attività extra-domestiche da parte delle donne arabe.
Se tuttavia non interverranno elementi di freno e di disturbo alle tendenze più recenti, ci si deve aspettare un forte aumento della presenza delle donne all'interno della forza lavoro.
Sul versante maschile della forza lavoro nel corso degli anni Settanta ed Ottanta si è osservata una contrazione piuttosto rapida dei tassi di attività; le ipotesi assunte prevedono un rallentamento del calo nel corso dei prossimi anni che porterà, a partire dal nuovo secolo, ad una stabilizzazione della partecipazione.
Applicando alle proiezioni della popolazione in età lavorativa i tassi di attività suddivisi per sesso e per età si ottiene una stima dell'offerta di lavoro proveniente dai Paesi arabi.
Nell'arco di quattro decenni la forza lavoro araba crescerà di oltre 103 milioni, il che significa che 103 milioni di individui si presenteranno sul mercato del lavoro per reclamare un posto che oggi non esiste. La creazione di un numero così ingente di posti di lavoro rappresenta sicuramente una delle grandi sfide, dall'esito incerto, per i sistemi economici dei Paesi arabi. Oltre il 60% dei posti da creare sarà concentrato nei Paesi arabi del Nord Africa: nel solo Egitto l'offerta di lavoro sta crescendo al ritmo di mezzo milione di nuovi potenziali lavoratori all'anno.
Per meglio valutare lo sforzo che le economie dei quattro Paesi nordafricani dovrebbero compiere (10 milioni di posti di lavoro entro la fine del secolo), ricordiamo che la stessa espansione occupazionale ha richiesto, per i dodici Paesi attualmente membri della Cee, circa 24 anni: dal 1965 al 1989 gli occupati nei Paesi Cee sono saliti da 122,6 a 132,6 milioni (su un totale di popolazione più che doppio rispetto alla popolazione nordafricana).
La drammatica affidabilità delle previsioni che abbiamo presentato trova una conferma nel fatto che le migliaia di persone che si affacceranno sui mercati del lavoro arabi nei prossimi quindici anni sono già nate. A rigor di logica, non si dovrebbe nemmeno parlare di previsioni, ma di lettura orientata al futuro della situazione attuale.
Quando si parla di migrazioni che coinvolgono le popolazioni arabe, viene spontaneo pensare ai flussi di individui che approdano nei Paesi europei alla ricerca di un lavoro. Meno note sono altre dinamiche migratorie che, dal punto di vista quantitativo, non sono meno rilevanti di quelle dirette verso la sponda Nord del Mediterraneo: ci riferiamo ai fenomeni di mobilità connessi all'urbanesimo e alle migrazioni di lavoratori all'interno del mondo arabo.
Le motivazioni che spingono milioni di individui ad abbandonare, almeno temporaneamente, la regione di origine affondano le proprie radici nelle difficoltà incontrate dal mondo arabo sulla strada dello sviluppo. Ma alle spiegazioni di tipo economico (ricerca di occupazione e di maggiori redditi, abbandono di aree depresse) - che fanno della mobilità stessa il sintomo più evidente del generale disagio - si affiancano tuttavia e si combinano motivazioni di altra matrice; va infatti ricordato come la religione islamica attribuisca un elevato valore alla mobilità delle persone: dalla pratica del pellegrinaggio alla diffusione della fede musulmana attraverso le grandi migrazioni, la mobilità è da sempre intimamente legata alla storia dell'Islam.

Urbanesimo nei Paesi arabi
Abbiamo visto in precedenza come il tasso di crescita delle popolazioni arabe sia stato, nel corso degli ultimi decenni, estremamente elevato; ancora più alto, tuttavia, è stato il tasso di espansione della popolazione urbana. In Marocco, ad esempio, si è registrato un tasso superiore al 4,5% (che corrisponde al raddoppio della popolazione urbana nel giro di sedici anni).
I problemi connessi all'urbanesimo sono noti: tutti i Paesi conoscono o hanno conosciuto fasi storiche in cui si verifica una concentrazione crescente della popolazione nelle aree urbane per effetto di flussi migratori provenienti dalle campagne di persone che abbandonano l'attività agricola per cercare lavoro nell'industria o nei servizi.
Nel caso dei Paesi arabi, tuttavia, si possono rilevare due "aggravanti" che complicano il modello della crescita delle popolazioni urbane: la fragilità dell'ambiente rurale di partenza e la velocità alla quale si svolge il processo di urbanesimo. In primo luogo, l'abbandono sistematico di alcune aree del territorio da parte di giovani uomini (che mette in moto processi di femminilizzazione e di anzianizzazione della popolazione locale) si traduce in un deterioramento fisico del suolo. L'inaridimento di terre un tempo fertili costituisce una minaccia costante per buona parte dei Paesi arabi: il rischio di desertificazione è infatti estremamente elevato per l'entroterra maghrebino e per vaste aree del Medio Oriente (il deserto avanza in tutti i Paesi della penisola arabica, in Siria come nello Yemen); se si pensa che la superficie coltivabile è pari al 3,2% dell'intero territorio algerino, al 2,5% in Egitto e solamente allo 0,5% nell'immensa Arabia Saudita, si capisce come l'erosione da parte del deserto possa suscitare ben motivate preoccupazioni.
In secondo luogo, quando l'intensa mobilità interna si combina con una rapida crescita demografica, l'ampliamento delle strutture urbane (abitative, di trasporto, ecc.) per accogliere un numero così elevato di nuovi abitanti, generalmente poco abbienti, avviene in modo disordinato e si traduce sovente, come insegna l'esperienza latino-americana e messicana, nello sviluppo di desolanti periferie (bidonvilles), prive delle più elementari opere di urbanizzazione e che di l'urbano" hanno solo l'elevata densità.


A titolo di esempio citiamo le previsioni delle Nazioni Unite relative alla città del Cairo: nel 1950 non raggiungeva i 2 milioni e mezzo di abitanti, alla fine del secolo supererà i 13 milioni.
L'esodo selvaggio verso la città non ha trovato, negli anni recenti, un valido ammortizzatore nella crescita dell'economia e dell'occupazione. Da possibile polo di sviluppo, la città nordafricana si scopre invece fonte di dipendenza alimentare nei confronti dell'estero: su ogni due calorie consumate dalla popolazione della riva del Sud del Mediterraneo una è importata.
Non mancano, è vero, tentativi di potenziamento del settore agro-alimentare per far fronte all'ingente domanda interna; ma questi vengono ostacolati dall'esiguità della superficie disponibile.
L'ampliamento della superficie arabile grazie a grandi progetti di irrigazione risulta estremamente costoso (e praticabile solo su scala medio-grande), mentre la soluzione del disboscamento (il 3,4% della superficie totale del Maghreb è coperta da boschi) può provocare effetti a lungo termine controproducenti, in quanto priva il suolo della sua più valida difesa contro l'inaridimento. Un ulteriore grave vincolo allo sviluppo del settore agricolo nei Paesi nordafricani è costituito dalla scarsità d'acqua. La rapida urbanizzazione provoca un sensibile aumento della domanda di acqua potabile. E' stato calcolato, ad esempio, che l'attuale consumo di acqua potabile nell'intera Tunisia sarà in grado di soddisfare, al 2000, le richieste della capitale.
Il soddisfacimento dei crescenti bisogni idrici dei cittadini (che consumano, nel Nord Africa, 150 litri di acqua al giorno contro i 10 litri di un abitante delle campagne) rischia di ostacolare i programmi di potenziamento dell'irrigazione sui quali si fondano le strategie di rilancio dell'agricoltura.
A ciò si aggiunge il fatto che con la moltiplicazione delle strutture turistiche (fenomeno che peraltro offre un canale irrinunciabile di afflusso di valuta estera) si svilupperanno nuove e importanti richieste di acqua potabile: un turista occidentale consuma in media oltre 700 litri al giorno di acqua potabile.
Non va infine dimenticato l'impatto ambientale derivante dalla proliferazione di periferie fatiscenti.

Migrazioni interarabe
La povertà della terra e la carenza di opportunità occupazionali hanno provocato da sempre importanti movimenti migratori a partire dai Paesi arabi; all'inizio del secolo, nella fase di transizione dall'egemonia ottomana a quella europea, circa 8 milioni di arabi attraversarono l'Atlantico diretti prevalentemente in America Latina.
Al termine della seconda guerra mondiale si modificarono le destinazioni scelte dai migranti arabi: un flusso consistente di lavoratori nordafricani si diresse verso i Paesi industrializzati dell'Europa centro-settentrionale; un secondo flusso, non meno importante, prese invece la direzione dei Paesi del Golfo Persico che, con il boom petrolifero degli anni Cinquanta, divennero forti importatori di manodopera.
Caratteristiche di tali Paesi erano le dimensioni estremamente ridotte delle popolazioni locali: nel 1950 gli abitanti dei 7 Paesi esportatori di petrolio (Arabia Saudita, Iraq, Oman, Qatar, Kuwait, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti) non raggiungevano i 10 milioni.
L'eccezionale richiesta di manodopera - derivante da un lato dall'elevata domanda di greggio espressa dall'economia mondiale, dall'altro dal boom delle costruzioni reso possibile dall'afflusso di enormi liquidità - non poteva essere soddisfatta dalla popolazione autoctona (che non solo era di dimensioni ridotte ma anche piuttosto benestante e poco disposta a svolgere lavori faticosi o pericolosi; inoltre le note barriere sociali hanno impedito un significativo maggiore coinvolgimento della popolazione femminile nei processi produttivi) e, quindi, vennero attirati lavoratori dall'estero.
Con la crisi petrolifera del 1973-1974, le opportunità lavorative offerte dai sistemi economici più sviluppati subirono una sensibile riduzione; i Paesi europei tradizionali importatori di manodopera (in primo luogo Francia e Germania) inaugurarono politiche immigratorie restrittive; per contro, il lavoro non venne certo a mancare nei Paesi produttori di petrolio, ma anzi aumentarono le opportunità di impiego: la presenza dei lavoratori stranieri nel Golfo assunse quindi nel corso degli anni Settanta dimensioni ragguardevoli. Non èfacile quantificare la presenza di manodopera straniera (araba e non) nei Paesi produttori di petrolio: la condizione di clandestinità è molto diffusa e i locali sistemi di rilevazione statistica non consentono di disporre di dati di sicura affidabilità.
Una stima indica in oltre 5 milioni e mezzo i lavoratori stranieri impiegati nell'anno 1985 nei Paesi del Golfo (escluso l'Iraq); se a questi sommiamo il milione e mezzo di lavoratori stranieri presenti in Iraq prima della guerra otteniamo una stima totale di 7 milioni di lavoratori, rispetto ad una popolazione locale di circa 25 milioni. 1 lavoratori provenienti dai Paesi arabi poveri erano valutati all'inizio degli anni Settanta pari al 77% della forza lavoro immigrata nei Paesi del Golfo.
Recentemente la quota è scesa per effetto della crescente concorrenza loro opposta da parte della manodopera asiatica (indiani e pakistani in prevalenza, con minoranze di bangladeshi, coreani e indonesiani), disposta a sopportare orari più gravosi (una media di 47 ore alla settimana) in cambio di un salario inferiore (162 dinari kuwatiani al mese contro i 224 ricevuti da palestinesi e giordani); non stupisce quindi che la composizione etnica della forza lavoro immigrata sia mutata a sfavore dei lavoratori arabi: dal 77% già citato dell'inizio degli anni Settanta, la presenza di lavoratori arabi sul totale degli immigrati è scesa al 57% nel decennio successivo.
Tra i Paesi arabi esportatori di manodopera spiccano la Giordania, l'Egitto e la Siria. Oltre ai già citati Paesi produttori di petrolio del golfo, un importante ruolo di attrazione di forza lavoro viene esercitato dalla Libia, che ha richiamato consistenti flussi di lavoratori dai Paesi confinanti (Tunisia, Egitto e Sudan) oltreché dalla Turchia e dalla Giordania (prevalentemente palestinesi).
A differenza di quanto avviene in Europa, dove gli immigrati arabi difficilmente sono riusciti ad occupare posizioni privilegiate nella piramide occupazionale, nei Paesi produttori di petrolio la manodopera araba immigrata è occupata a quasi tutti i livelli professionali, dall'operaio generico fino alle posizioni medioalte di responsabilità (direttori del personale, tecnici ad alta qualificazione). Solamente i vertici dell'organizzazione (posizioni manageriali) vengono occupati da persone provenienti dagli Stati Uniti e dall'Europa.
Non mancano i segni di disordine e di inefficienza: l'incapacità dei sistemi locali di istruzione e di formazione di fornire alle economie personale sufficientemente qualificato genera una situazione di cronica carenza della forza lavoro dotata di un minimo di bagaglio professionale e crea notevoli tensioni sul lato delle retribuzioni.
I produttori più ricchi attirano con salari elevati i lavoratori dagli Stati poveri dell'area, i quali si trovano a loro volta a dover richiamare forza lavoro dall'estero per colmare i vuoti creati. Così la Giordania, la Cui forza lavoro era occupata nel 1975 per il 40%, all'estero ha impiegato nel decennio successivo circa 130.000 immigrati (prevalentemente egiziani) su una forza lavoro totale composta (la circa 800.000 individui.
Negli ultimissimi anni l'atteggiamento dei governi arabi nei confronti delle migrazioni di lavoratori è parzialmente mutato; i Paesi importatori hanno rallentato la propria produzione di greggio e, soprattutto, la riduzione del prezzo del petrolio sul mercato mondiale ha limitato i profitti ed i nuovi investimenti; sono stati quindi imposti controlli più rigidi all'ingresso di lavoratori stranieri ed i rinnovi dei permessi di soggiorno e dei contratti di lavoro sono stati concessi con sempre minore generosità. Per contro i Paesi esportatori, un tempo nettamente favorevoli all'emigrazione, che riduceva la disoccupazione e l'instabilità interna, sono sempre più consapevoli dei rischi determinati da un'emigrazione selettiva, che impoverisce la già fragile economia nazionale dei migliori elementi.
Ai citati motivi che lasciano supporre una futura contrazione dei flussi migratori all'interno del mondo arabo (forte concorrenza dei lavoratori asiatici e politiche immigratorie restrittive da parte dei Paesi del Golfo) si sono aggiunte prepotentemente le tensioni della recente crisi irakena e della guerra del Golfo, anche se è ancora troppo presto per prevedere come i sistemi politici ed economici arabi sapranno ricucire la ferita aperta.
L'interrogativo che scaturisce naturalmente dalle riflessioni precedenti è il seguente: quali saranno gli effetti della progressiva occlusione della maggior valvola di sicurezza per la pressione migratoria dai Paesi arabi poveri?
Crediamo sia possibile azzardare due risposte: in primo luogo potrebbe restringersi uno dei principali canali di redistribuzione della ricchezza all'interno del mondo arabo.
I Paesi in difficoltà economiche, privi di risorse del sottosuolo, vedranno probabilmente impoverirsi una delle voci attive della bilancia dei pagamenti con l'estero, quella dell'ammontare globale delle rimesse degli emigrati; i Paesi arabi più ricchi potrebbero quindi contribuire in misura ancora inferiore di quanto non abbiano fatto sinora allo sviluppo dei Paesi poveri.
In secondo luogo, si può ipotizzare una progressiva intensificazione dei flussi diretti verso l'Europa occidentale, che rimane l'unica destinazione alternativa offerta dalla mappa geoeconomica della regione.

I rischi per l'Europa
L'Europa guarda perciò con una certa preoccupazione a questo scenario e, consapevole del fatto che una strozzatura nello sviluppo dell'area vicina costituisce una minaccia per i suoi stessi equilibri sociali ed economici, si interroga sul ruolo che le compete.
Rispetto al recente passato, si è sensibilmente ridotta la capacità di assorbimento di importanti flussi di immigrati da parte dei mercati del lavoro europei: non lo dimostra tanto l'osservazione dei tassi di disoccupazione (peraltro cresciuti, per i dodici Paesi Cee, da un valore medio del 2,1% nel 1965 a valori prossimi al 10% alla fine degli anni Ottanta) quanto Piuttosto l'analisi del tipo di domanda espressa dal sistema produttivo, sempre più orientata verso personale altamente istruito e qualificato.
Stiamo assistendo in questi anni, in Europa come nelle altre aree a sviluppo avanzato, a una vera e propria rivoluzione occupazionale trainata dal rapido mutamento tecnologico: un recente studio della Commissione delle Comunità Europee sulle prospettive dell'occupazione stima che entro il 2000 due impieghi su tre saranno direttamente interessati dalle nuove tecnologie dell'informazione e delle comunicazioni.
Anche se noi stentiamo ancora a rendercene conto perché siamo protagonisti e non meri osservatori dei processi, la rivoluzione tecnologica non soltanto ha modificato profondamente le regole di funzionamento delle società europee, esaltando come mai prima il ruolo centrale del sapere e delle risorse umane qualificate, ma nello stesso tempo ha accentuato le distanze dell'Europa rispetto ad altre aree, segnatamente rispetto ai Paesi in via di sviluppo dell'area mediterranea.
In questa prospettiva, le distanze con il mondo ex-comunista, pur importanti, sono comunque minori e avranno probabilmente minori difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro comunitario gli immigrati provenienti dai Paesi dell'Est europeo. I livelli di istruzione di questi ultimi sembrano infatti meno distanti dalle richieste del sistema economico di quanto non lo siano quello dei lavoratori africani ed asiatici.
La maggiore predisposizione di alcuni lavoratori dell'Europa centrale a occupare alcuni nuovi posti che si verranno a creare nei Paesi della Comunità costituisce un ulteriore elemento da tenere in considerazione quando si propongono soluzioni ai problemi dell'arca mediterranea.

PROGETTARE LO SVILUPPO

UN'ALTERNATIVA ALLE MIGRAZIONI

L'Italia e l'Europa, sistema politico e opinione pubblica sono stati colti di sorpresa dalla modifica del modello migratorio, con nuovi flussi non più richiesti ed auspicati dalle società di arrivo, ma invece indotti, spinti dall'aggravarsi della situazione demografica, economica e talvolta politica dei Paesi di partenza.
Forse inconsapevoli della distanza sempre più grande che a livello demografico, economico e tecnologico ci separa dai Paesi in via di sviluppo dell'Africa e dell'Asia mediterranea, noi europei ci siamo trovati impreparati di fronte alla possibilità di queste nuove e intense migrazioni provenienti soprattutto dai Paesi arabi dell'Africa settentrionale.
Alla drammatica realtà di una crescente pressione migratoria si è dunque aggiunta una seconda preoccupante realtà: quella dell'impreparazione europea ad affrontarla. Non soltanto, si badi, da parte dei Paesi, come l'Italia, che da poco conoscono il fenomeno migratorio, stentano a gestirlo sul piano pratico e non ne hanno ancora pienamente afferrato la complessità politico-culturale, ma anche da parte di quei Paesi, come la Francia, che hanno ormai una lunga consuetudine con il fenomeno, ma che, di fronte ai nuovi termini del problema, sembrano oggi revocare in dubbio tutte le certezze precedentemente acquisite.
Senza esagerare, si può dire che di fronte alle nuove migrazioni e al modo di affrontarle l'Europa si trova oggi all'anno zero. Grande il disorientamento culturale, poche le idee credibili, meno ancora i progetti politici.
Lasciando per il momento da parte qualsiasi rigore prescrittivo, il problema va analizzato su diversi piani: culturale, politico, tecnico-economico.

A. Dimensione culturale.
Si tratta di acquisire una nuova consapevolezza del problema del sottosviluppo e della povertà, restituendo credibilità alle politiche di cooperazione allo sviluppo.
La polemica sulla inadeguatezza del contributo delle nazioni più avanzate alla crescita di quelle più povere è nota, e non serve insisterci, se non per ricordare che finché la solidarietà internazionale vorrà fondarsi sul solo obbligo morale continuerà ad andare purtroppo incontro, come provano gli ultimi decenni, a delusioni ed insuccessi.
Poiché, tuttavia, la cooperazione internazionale allo sviluppo resta per accordo unanime l'unica via percorribile per accorciare le distanze fra Nord e Sud del mondo, allora vale forse la pena che l'Occidente, e l'Europa in particolare, si interroghino per trovare, accanto a quelle etiche, ragioni di convenienza per intervenire in aiuto dei Paesi poveri.

 

Quegli importanti trasferimenti di ricchezza (che potrebbero essere necessari anche in misura superiore a quell'1% di cui spesso si è parlato) che il loro senso morale non è riuscito in questi anni a fare, forse potranno farli la paura e l'interesse. Perché questo avvenga occorre tuttavia che la scelta dei governi sia condivisa dall'opinione pubblica. E perché l'opinione pubblica dia il proprio consenso occorre giustificare politiche che non possono essere indolori, facendo comprendere la lungimiranza di interventi la cui messa in pratica comporta per le nazioni europee un'importante serie di rinunce e di sacrifici con dei ritorni non immediatamente visibili. In altre parole, i sacrifici di oggi devono essere valutati alla luce della convenienza di evitare i costi che domani l'Europa rischia di dover sopportare. Da questo punto di vista, vanno preventivati in primo luogo gli effetti di una massiccia e incontrollabile immigrazione che, data la relativa impermeabilità occupazionale europea, si tradurrebbero in tensioni sociali di dimensioni non prevedibili e in costi a carico dei sistemi di sanità, assistenza e previdenza sociale. La prospettiva di un esodo di proporzioni gigantesche verso le città europee (di gran lunga superiore numericamente agli 8-10 milioni di immigrati che già oggi vivono nella Comunità, con tutte le note difficoltà) è certo tale da incutere timori. Ma non è l'unico rischio. Si affacciano, inoltre, dietro l'angolo nuovi pericoli per la sicurezza dell'intera arca collegati all'instabilità sociale e politica di alcuni Paesi (tanto a Sud quanto a Est). Ancora vi è seriamente da temere il disastroso impatto ambientale determinato dai processi di urbanizzazione selvaggia, che fenomeni di mobilità accelerata e non razionalmente gestita inevitabilmente comportano.
Sebbene non si possa dare un quadro esauriente dei rischi futuri derivanti dalla pressione demografica ed economica dei Paesi poveri dell'area mediterranea, i pochi esempi fatti dovrebbero già essere sufficienti per convincere che esistono, al di là delle buone intenzioni e degli obblighi di solidarietà, oggettivi interessi dell'Europa ad impegnarsi con maggiore energia e sensibilità sul problema dello sviluppo globale dell'area. Ci si riferisce, in primo luogo, alla possibilità di realizzare con i Paesi nordafricani accordi finalizzati ad interrompere i flussi migratori verso la Comunità, in cambio appunto di un generoso sforzo in materia di cooperazione allo sviluppo.
In questo campo occorre abituarsi a ragionare su orizzonti più estesi, non solo sotto il profilo geografico ma anche temporalmente utilizzando gli strumenti previsti maggiormente affidabili per speculazioni di lunga gittata; occorre imparare a valutare gli effetti che si avranno tra decenni a seguito delle azioni intraprese (o non intraprese) oggi; preparare infine con debito anticipo quegli interventi che sappiano ridimensionare le tensioni future.
Solo in questa ottica allargata sarà possibile individuare le contropartite negoziabili intorno alle quali instaurare un accordo internazionale, non più costruito intorno all'immagine romantica delle società ricche che aiutano quelle più povere in nome di una ipotetica solidarietà internazionale, ma incentrato sulla più concreta consapevolezza del fatto che i contributi allo sviluppo sono il prezzo da pagare per contenere le esternalità negative indotte dalla straordinaria crescita demografica dei Paesi mediterranei in via di sviluppo. Si tratta quindi di raggiungere una nuova frontiera culturale, in cui l'aiuto allo sviluppo diventi un elemento centrale, non marginale delle strategie politiche dei Paesi comunitari, consapevolmente scelto anche a tutela degli interessi europei.

B. Dimensione politica.
L'impreparazione culturale ha conseguenze immediate sulla dimensione politica: e infatti non esiste oggi alcun progetto credibile in tema di rinnovamento dei rapporti con i PVS. Nell'area mediterranea qualcuno parla di passare dall'assistenza allo sviluppo comune (fra sponda Nord e sponda Sud): prospettiva condivisibile, ma per ora prospettiva più culturale che politica, perché non ancora suffragata da linee politiche precise. Anche qui siamo all'anno zero e il disorientamento prevale. Bisogna osservare che la progettualità e l'attività delle forze politiche e di governo europee è stata molto più pronta a rispondere all'improvvisa novità ed emergenza del collasso del sistema comunista, piuttosto che a reagire a un problema ben conosciuto e a una crisi da tempo annunciata come quella dei Paesi in via di sviluppo.
La prima richiesta da fare alle forze politiche e di governo è allora che senza togliere spazio ai problemi dell'Europa centrale e orientale, si cerchi uno spazio di progettualità per i problemi dei PVS, uno spazio adeguato al dramma che essi vivono e ai problemi gravissimi e drammatici che pongono e si apprestano a porre ai Paesi europei occidentali. Ridata la necessaria priorità al problema generale dei PVS, occorre procedere per linee politiche e, a questo proposito, la Fondazione Agnelli, senza alcuna pretesa di essere già alla conclusione di un lavoro appena iniziato, invita a riflettere su alcune questioni cruciali, riservandosi di compiere futuri interventi più puntuali e più argomentati.
1) Le grandi differenze fra i Paesi in via di sviluppo richiedono che anche il problema dell'intervento in favore del loro sviluppo sia disaggregato e differenziato. Se esiste infatti una dimensione globale e mondiale del problema, al cui interno si colloca ad esempio la questione del pagamento degli interessi del debito contratto dai PVS, vi è una dimensione molto importante di accordo regionale, che può in effetti riguardare anche l'arca mediterranea.
2) In questo senso, pur nel quadro di una strategia mondiale e nel proseguimento dell'attenzione verso aree storicamente significative per ciascun Paese (per l'Italia i Paesi sudamericani a causa del forte insediamento di popolazione di origine italiana), non vi è dubbio che vi sia un'oggettiva convergenza di interessi dei Paesi comunitari a indirizzare i propri sforzi verso i Paesi arabi dell'Africa settentrionale. Da qui la possibilità di dare un peso più rilevante a questi Paesi, attraverso forme di cooperazione mirata, sperimentando nel bacino mediterraneo la fattibilità della partnership per lo sviluppo.
3) Una partnership per lo sviluppo del Mediterraneo postula, probabilmente, formule, anche istituzionali, di cooperazione-multinazionale, interaraba e euroaraba. Non vi è infatti dubbio che gli sforzi dei Paesi europei potrebbero utilmente affiancarsi interventi e sacrifici anche da parte dei Paesi arabi produttori di petrolio, tradizionalmente poco propensi alla prodigalità nei confronti dei Paesi nordafricani e invece più generosi con Siria, Giordania e Yemen.
A supporto dell'ipotesi che i Paesi arabi ricchi possono fare di più per i loro vicini meno fortunati, ecco alcuni dati: gli aiuti pubblici allo sviluppo sono stati, negli anni 1987-1988, pari al 3,1% del PIL in Marocco, dello 0,3% in Algeria, del 3,4% in Tunisia e del 4,9% in Egitto. Tuttavia, solo nel caso algerino la quota di aiuto proveniente da altri Paesi arabi ha superato il 10%.
L'Europa comunitaria ha giocato con successo, in quarant'anni di vita, la carta dell'ingegneria costituzionale: questa esperienza può essere di stimolo per la cooperazione interaraba e, spogliata di ogni significato politico e ridotta rigidamente alla dimensione economica, anche per la cooperazione euroaraba.
4) Una maggiore chiarezza e incisività delle scelte politiche comunitarie ènecessaria per regolare la dimensione degli scambi internazionali. E' quest'ultima infatti probabilmente la dimensione maggiormente conflittuale, entro la quale si confrontano gli interessi dei produttori dei Paesi a sviluppo avanzato e quelli dei produttori dei PVS.
La rimozione delle strozzature protezionistiche allo sbocco sui mercati internazionali più solidi sembra essere una delle condizioni per la crescita delle produzioni nei Paesi arretrati. Una generosa opera di finanziamento (trasferimento di risorse) che non si accompagni a una parziale rinuncia di garanzie degli interessi dei produttori nazionali rischia di non recare gli effetti espansivi desiderati. Le speranze di un effettivo sviluppo da parte di aree ancora arretrate dipendono quindi dalla delicatissima operazione di composizione degli interessi in gioco, che potrà compiersi solo ricercando un equilibrato rispetto delle diverse posizioni. Occorre creare, in altre parole, all'interno della Comunità i presupposti per il successo degli interventi nei Paesi arabi: non si possono compiere interventi nell'agricoltura maghrebina, usando risorse dei contribuenti europei, e nello stesso tempo avere una politica agricola che penalizzi gli esiti di quegli interventi: sarebbe tra l'altro un pessimo affare anche per il contribuente europeo.
E' solo un esempio: procedendo nell'industrializzazione, questi esempi dovrebbero moltiplicarsi. Gestire questi conflitti senza ricorso a misure protezionistiche presuppone una grande maturità della coscienza europea e può considerarsi un altro aspetto della nuova frontiera culturale.

C. La dimensione tecnico-economica.
All'interno di un quadro di riferimento complessivo che può essere definito attraverso adeguati strumenti politici e culturali, ad alcuni dei quali si è accennato nelle pagine precedenti, la concreta articolazione dei progetti di cooperazione fra l'Europa comunitaria ed i Paesi del Nord Africa deve muoversi a livello tecnico ed economico secondo alcune direttrici fondamentali, tutte orientate al medesimo obiettivo: offrire aiuti mirati che non siano di semplice sollievo immediato alle disastrose condizioni economiche attuali, ma realizzino con solidità nel tempo tutti i principali fattori per uno sviluppo autonomo.
Certo, nella maggior parte dei Paesi arabi della sponda mediterranea vi è la necessità di rafforzare la struttura economica, puntando sulla creazione di un'attiva rete di piccole e medie imprese e su un efficiente sistema cooperativo, all'interno dei quali ricavare spazi occupazionali adeguati. Altrettanto importanti sono le infrastrutture di trasporto e di comunicazione, per non parlare delle reti di distribuzioni commerciali.
Ma forse si tratta di partire da qualcosa che è ancora più importante e preliminare. Infatti, non vi è aiuto economico o finanziario europeo che possa essere davvero efficace e risolutivo, se prima non si creano le condizioni per riceverlo ed utilizzarlo positivamente.
A monte di tutto si impone dunque l'esigenza di formare una cultura favorevole al mutamento e, cioè, risorse umane qualificate in grado di gestire un progetto di cooperazione di ampio respiro. Non ci si riferisce soltanto alla creazione del personale tecnico e del management della struttura produttiva, ma anche alla costruzione di una burocrazia e di un'organizzazione dello Stato adeguate alla modernità.
Prima di tutto, occorre allora creare un efficace sistema di formazione che permetta di dotare la maggioranza degli individui di quel bagaglio di conoscenze di base (matematica, lingue straniere) sul quale sia possibile innestare specifiche conoscenze professionali e competenze gestionali. Gli aiuti orientati alla diffusione e alla valorizzazione della "risorsa sapere" hanno dunque un carattere davvero prioritario, e in questa direzione l'Europa può e deve offrire molto in termini di formazione e di strumenti didattici tecnologicamente avanzati. Accanto alla crescita di risorse umane qualificate, le chances future di decollo delle produzioni dei Paesi arretrati per una crescita economica dipendono dai trasferimenti di tecnologie.
Ma forse ancora di più del mero trasferimento, la questione veramente delicata resta quella della gestione delle tecnologie: in quali processi produttivi esse vengano applicate, come esse vengano impiegate e aggiornate nel tempo, quale incremento di efficienza derivi dalla loro adozione.
Il discorso è naturalmente appena aperto e, come si è già detto più volte, nessuno può avere ricette semplici per problemi di così grande complessità. Tuttavia, è possibile e realistico pensare che l'arca mediterranea possa davvero costituire un banco di prova per l'avvio di una nuova stagione nei rapporti politici ed economici tra i Paesi a sviluppo avanzato e i PVS.
La realizzazione di un serio patto di cooperazione allo sviluppo fra i Paesi europei e quelli dell'Africa Settentrionale può infatti portare grandi benefici per entrambi i contraenti. Per i Paesi africani si tratta, come si è detto, di un'occasione per rafforzare tutti i principali fattori dello sviluppo (risorse umane e tecnologiche, investimenti, migliori prospettive di competitività). Per i Paesi europei si apre la possibilità di legittimamente richiedere ed ottenere dai propri interlocutori le garanzie di misure efficaci per arrestare all'origine i flussi migratori.

Transizione demografica

Dieci miliardi... un solo pianeta

L'osservazione dell'evoluzione delle popolazioni degli ultimi due secoli ha portato all'elaborazione della cosiddetta "teoria della transizione demografica"; secondo tale teoria, il processo di modernizzazione di ogni popolazione, parallelo al percorso economico dell'industrializzazione, avviene seguendo una successione di fasi storiche.
In sintesi, si possono localizzare quattro fasi distinte:
1) fase pre-transizionale, con tassi di mortalità e natalità entrambi elevati; la popolazione si mantiene stabile o cresce leggermente;
2) prima parte della transizione propriamente detta, con declino dei tassi di mortalità e natalità che rimane a livelli elevati; la popolazione inizia a crescere rapidamente;
3) seconda parte della transizione p.d., in cui al declino della mortalità si affianca il declino della fecondità; la popolazione è sempre in espansione, ma a ritmi meno elevati;
4) fase post-transizionale, in cui i tassi di mortalità e di natalità hanno ormai raggiunto livelli molto bassi; la popolazione si assesta ad un nuovo livello di equilibrio.
Per l'Inghilterra ed i Paesi scandinavi, la dato di inizio della transizione può essere collocata alla fine del XVIII secolo, mentre l'uscito dalla transizione avviene nel secondo dopoguerra: l'intero processo è durato circa un secolo e mezzo. In Italia il declino della mortalità divento significativo solamente verso la fine del secolo scorso; nonostante il rito iniziale rispetto ai Paesi dell'Europa settentrionale, la transizione italiano si è completata con gli anni Sessanta, con una durata totale di circa ottanta anni.
Il caso spagnolo è in tutto simile a quello italiano, con l'unica differenza rappresentata da un rallentamento del declina della natalità durante l'epoca di Franco, seguito da un'accelerazione a partire dalla fine del regime franchista.
Pur con importanti differenze, il processo di transizione si è ormai completato in tutti i Paesi a sviluppo avanzato. Nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, al contrario, il processo è attualmente in atto. Una significativa differenza tra il modello transizionale europeo e quello di molti PVS (tra i quali i Paesi arabi) consiste nella diversa intensità di crescita delle popolazioni nelle fasi centrali della transizione: il tasso di incremento naturale (dato dalla differenza dei tassi di natalità e di mortalità) più elevato registrato durante i primi anni dei secolo in Germania, Belgio, Cecoslovacchia o durante gli anni Venti in Italia, Spagna e Grecia (cioè nei periodi di massima crescita naturale) è stato inferiore ad 1,5%, un valore che porta ad un raddoppio della popolazione in circa 47 anni. In Messico (casi come in Brasile e in altri Paesi dell'America Latina), dove la transizione è iniziata verso il 1920, il tasso di incremento naturale durante gli anni Sessanta è stato pari a 3,4%: in presenza di un così elevato divario tra i valori di natalità e di mortalità. il raddoppio della popolazione avviene in soli 20 anni!
Attualmente il declino della natalità nei Paesi dell'America Latina lascia supporre un completamento del processo transizionale entro il primo decennio del nuovo secolo. Meno facile prevedere un termine per l'espansione demografica dei mondo arabo. La transizione in quei Paesi si è avviato in tempi relativamente più recenti: la lotta contro l'elevata mortalità ha infatti dato i primi risultati solamente a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta. Una meccanica trasposizione al sistema demografico arabo dei tempi transizionali misurati per le popolazioni dei Paesi sviluppati (da 70 a 150 anni) - pur con tutti i limiti che una tale operazione comporta - permette di ipotizzare la fine della transizione araba tra il 2015 ed il 2090. Il XXII secolo potrebbe dunque aprirsi con una stabilizzazione della popolazione mondiale attorno ai 10 miliardi di abitanti.

Islam in Europa

Diversi ma integrati

Gli immigrati islamici in Europa sono oggi circa dieci milioni e la loro presenza può considerarsi stabile e definitiva. L'Ipotesi di un Islam europeo è dunque concreto. Come sarà? Sopra diventare un Islam moderato e modernizzato? O sarò piuttosto un Islam fondamentalista, gelosamente attaccato agli aspetti più radicali della sua ortodossia? Sono interrogativi legittimi ed attuali, perché già oggi l'islam rappresenta in Europa un nuovo importante polo ideologico e religioso. Ed è bene che lo diventino anche per l'Italia, in considerazione dei fatto che anche da noi la grande maggioranza degli immigrati extracomunitari è islamica.
Esiste naturalmente una profonda relazione fra l'evoluzione dell'Islam europeo e le strategie di integrazione degli immigrati. Un'analisi delle esperienze dei principali Paesi europei mette in evidenza due principali modelli d'integrazione: l'integrazione individuale e l'integrazione comunitaria (la strategia adottata in Germania non può definirsi di integrazione, poiché l'immigrato è sempre gastarbeiter, lavoratore ospite che prima o poi deve andarsene).
L'integrazione individuale postula la laicità e l'indivisibilità dello Stato e richiede l'accettazione di alcuni valori comuni a tutta la società. Entro questo ambito, ciascun immigrato adotta strategie personali di inserimento e definisce autonomamente i limiti della propria appartenenza alla comunità etnica e culturale d'origine. Ciò significa, nel caso dell'Islam, che il singolo individuo può scegliere di continuare a seguire le leggi coraniche come fatto privato o, comunque, non in opposizione alle norme della convivenza sociale.
Radicalmente diversa è l'integrazione (o meglio l'inserzione) comunitaria. In questo caso, la comunità immigrato vuole essere messo nelle condizioni di preservare in toto la propria identità etnica e culturale, mantenendone tradizioni ed usi. A questo fine può richiedere uno speciale regime giuridico che riconosca il suo statuto di minoranza etnica, tuteli la sua diversità ed esiga dallo Stato politiche sociali conseguenti. L'estensione dei diritti speciali per la comunità immigrata, vere e proprie eccezioni alle regole sociali generali, può variare molto e spaziare dai casi più marginali e curiosi (come l'esenzione, in vigore in Gran Bretagna dal 1976, dall'obbligo del casco della moto per i Sikh: non sta sopra il turbante rituale) fino a toccare le strutture fondanti della convivenza. Ed è qui che la differenza degli universi culturali si trasforma in complessi problemi sociali e giuridici dei tutto nuovi per l'Occidente. Si pensi solo alle radicali, incompatibili differenze che separano dalla nostra la concezione islamica del diritto familiare (poligamia, rifiuto della parità dei sessi) o quella dei rapporto fra religione e Stato.
Oggi in Europa la discussione sui due modelli è quanto mai viva e riflette le difficoltà che i principali Paesi, Francia e Gran Bretagna soprattutto, incontrano con le popolazioni immigrate. La Francia da anni ha adottato consapevolmente il modello di integrazione individuale, che però attraversa oggi una crisi profonda, alimentata in particolare dalle pressioni della comunità islamica a favore dei modello alternativo, l'inserzione comunitaria. In Gran Bretagna sono state compiute scelte diverse e si è perseguito una forma di integrazione che aveva molte caratteristiche dell'inserzione comunitaria, ma non prevedeva il riconoscimento dello statuto di minoranza etnica e l'istituzione di un vero regime giuridico particolare. Oggi le pressioni delle comunità immigrate per conseguire anche questi ultimi obiettivi stanno creando oltremanica tensioni sociali e discussioni politiche.
In sostanza, le maggiori esperienze europee segnalano un accentuarsi delle tensioni nel momento in cui aumento la pressione delle popolazioni immigrate per Forme d'integrazione comunitaria. E' del resto comprensibile che proprio questa strategia incontri grande Favore presso le popolazioni e le comunità islamiche, anche Fra quelle insediate da più lungo tempo. L'inserzione comunitaria è in effetti funzionale all'obiettivo di rivendicare e conservare l'identità culturale e religiosa, aspirazione connaturata alla storia di ogni popolo che abbia conosciuto l'emigrazione. D'altra parte, è proprio sulla legittimità e sull'estensione dei diritti speciali connessi a questa forma di inserimento che nascono le perplessità dell'opinione pubblica e delle forze politiche europee.
Non è irragionevole pensare che anche in Italia l'integrazione individuale e l'inserzione comunitaria si presentino come le due possibili alternative d'inserimento.
Bisogna dunque incominciare a chiedersi da che cosa dipende la scelta dell'una o dell'altra. Intanto, bisogna ammettere che gran parte della questione è nelle mani delle popolazioni immigrate. Come sarà l'Islam in Europa dipende dagli immigrati islamici. Questo non significa che l'Italia e l'Europa non abbiano voce in capitolo. Vi sono anche altri Fattori in gioco e, Fra questi, il numero degli immigrati, che senza essere condizione sufficiente può Fare la differenza.
In altri termini, finché il numero di immigrati rimane contenuto in termini ragionevoli, è possibile discutere e contrattare le possibili strategie di integrazione. Mantenere, cioè, la presenza immigrata entro le dimensioni attuali permette di pensare a strategie di integrazione individuale forse più adatte a comporre le tensioni economiche, sociali e culturali che inevitabilmente sorgono. E questo, nel lungo periodo, potrebbe incoraggiare (più di un'ipotesi, è una speranza) un'evoluzione in senso moderato e moderno dell'Islam europeo.
Se invece il numero degli immigrati dovesse raddoppiare o triplicare, aumenterebbero le pressioni per una soluzione comunitaria all'integrazione.


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