Una prima idea
(poi anche ultima) dell'originalità compositiva della Passione
mandoriniana (olio di mt. 5x3: chiesa parrocchiale "Sacro Cuore
di Gesù", Casarano, 1990) riguarda l'assunzione di episodi
classicamente autonomi a momenti eli una storia indivisibile ed unica,
come per intuirne tutta la complessità per pura illusione pittorica.
Si tratta di 18 riquadri, ripartiti in tre serie orizzontali, leggibili,
come in una pagina scritta, da sinistra a destra e dall'alto in basso,
con dinamica interazione dei corrispettivi episodi, e con risolutiva
esaltazione della totalità dello spazio dipinto. Si è
compiuta, in questo effetto realistico-illusionistico, una modificazione
della tradizionale struttura a edicole separate dell'iconografia della
Passione, sicché i vari episodi, reinterpretati in successione
immediata e addensata, e quasi in assenza di terza dimensione, provocano
una lettura simultanea dell'opera, con occhi e mente sospinti a presentire
l'evento finale e onnicomprensivo della crocifissione e morte del
Cristo in ogni istante del suo fatale divenire.

In questa riformulazione
dioramica (neofiamminga) dei racconto evangelico della Passione -
quello dei Sinottici, per presenza pressoché esclusiva umana
e terrestre della figura del Cristo, diversa da quella giovannea,
d'intenzione trascendente - prevale una primaria motivazione di destinazione
popolare, che però non esclude risposte a più esigenti
istanze ricettive.
Altrettanto chiara e determinante è la storicizzazione al presente
di quel racconto, in un estremo Salento finesecolare in crisi di identità
etnico-religiosa, soprattutto del suo tradizionale senso istituzionale
e ritualistico, come, del resto, accade in tante altre periferie dell'ecumene
cattolica.
Più propriamente la posizione interpretativa dell'Artista di
fronte a questo popolare tema evangelico si esprime in una figuralità
laica, di tiri Cristo ricorrente nella storia come figura dell'uomo,
e sua verità esistenziale.
Qesta Passione ha origini remote e immerse nella biografia artistica
di Lionello Mandorino, e compendia drammatiche testimonianze di un
lavoro pittorico sul tema della crocifissione mai esaurito.
Il poeta Nicola G. De Donno è stato scopritore ed interprete
solidale di questa costante iconografica del pittore amico fraterno
nel mirabile polimetro in dialetto magliese Cristu ommu Cristu ddiu
con dedica "a Mandorino pittore di Cristi" ("Natale
1984", in "Contributi", 3, settembre 1985, pp. 49-52;
ora, col titolo Cristu meu, in N.G.D.D., Lu senzu de la vita, Scheiwiller,
Milano 1992, pp. 100-05), nel quale è riproposta la mandoriniana
autobiografizzazione corporale-mortificata del Cristo della Passione
"nchiuatu / pinníu Ggesú finu all'urtimu fiatu,
/ ommu iddu ommu jeu / e ttie, lu cirenèu / ca lu corpu scumpostu
e mmassacratu, / Nellu, sudannu sangu l'ài pittatu"),
emblematicamente contrapposta alla strumentale trasformazione del
Cristo-uomo in Cristo-dio da parte delle gerarchie ecclesiastiche.
E' quel connubio fra etica ed estetica già azzardato dall'olandese
James Ensor, eccentrico precursore dell'espressionismo fra Otto e
Novecento, il quale era arrivato ad identificarsi con la figura-maschera
popolaresca di Cristo, di stile basso, da commedia, sostituendo persino,
nel celebre Calvario, la scritta INRI sulla croce con ENSOR.

Tutto da riscoprire questo versante cristologico della pittura mandoriniana.
In questa sede si vuole appena accennare ad una trama filogenetica,
risalente a supremi archetipi novecenteschi, oltre ogni memoria classica
caratterizzata da specifica segnicità del sacro.
Quelli di maggiore pertinenza ideologico-figurativa appartengono,
oltre al già ricordato Ensor, all'area espressionistica dei
primi decenni del secolo, poiché in essa si reinventa una figura
di Cristo d'individualissima sofferenza e, insieme, di disperata denuncia
sociale. Si pensi, al di là delle diversità stilistiche,
ai quadri sulla Vita di Cristo di Emil Nolde (1912), alle litografie
dei Soldati combattenti intorno al Crocifisso di Oskar Kokoschka (1917,
con riferimenti alla prima guerra mondiale, decisivi per la metamorfosi
umana del sacro), alle xilografie dedicate alla Vita di Cristo di
Karl Schmidt-Rottluff (1918). E non si escluda la durata - per quanto
sotterranea e, almeno in certa oltranza defigurativa, abbastanza dissimulata
- di questa lezione espressionistica in esemplari italiani di nuovi
tragici appuntamenti della figura del Cristo con la guerra, come La
Crocifissione di Renato Guttuso (1941) e Il Crocifisso e il generale
di Giacomo Manzù (1939-43); per non parlare di altri essenziali
richiami, come quelli elegiaci e visionari della Crocifissione gialla
(1943) e dei Crocifissi (1944) di Mare Chagall, o quelli, recentissimi,
di grande arditezza formale e cromatica, della Crocifissione di Vertova
(1989) e del ciclo L'altra via Crucis (1989-1990) del bergamasco Vittorio
Belloni, riferiti ai dannati e agli esclusi di ogni terzo e quarto
mondo.
Si può dire che il sentimento del tragico nelle arti figurative
di questo secolo si sia ampiamente riconosciuto nella figuralità
del Christus patiens e della sua croce, fino ad un massimo di universalizzazione
metastorica per eccesso di storia.
Mandorino è dentro questo Novecento pittorico della Passione,
del quale accentua la reinvenzione laico-evenemenziale in sequenze
di coinvolgenti primi piani, quasi si trattasse di cronaca eli una
condanna e di una esecuzione ripresa per una visività massmediale.

Il luogo deputato
di quest'opera - sua primaria ragione estetica spaziale - comporta,
relativamente ad una convenzione comunicativa, un rapporto di continuità
con le tradizionali 14 formelle plastico-cromatiche della Passione,
di secentesca importazione spagnola, visibili negli interni perimetrali
di molte chiese. Che è poi da intendere come rapporto con una
universale memoria di un evento ancorato a suoi specifici segni permanenti
d'inesauribile potenzialità figurativa.
Non trascurerei qui analogie con tradizioni letterarie e folcIoriche
d'area regionale.
Per esempio, le anomale ottave dell'Orologio della Passione (IRENE
MARIA MALECORE, la poesia popolare nel Salento, Olschki, Firenze 1967,
pp. 261-64), in relazione soprattutto all'eccezionale rilievo dell'azione
drammatica; e i riti della settimana santa, imitativi della tortura
e morte di Cristo, ancora vitali nel Salento secondo schemi e (nodi
eli una plurisecolare controriforinistica "atletica penitenziale".
Il figuralismo mandoriniano della Passione, per quanto modernamente
complesso, non oblitera mai un suo primo momento di spettacolo rivissuto,
arcaicopopolare e primordiale.

Assai rilevante e decisiva nel concepimento globale dell'opera la
semplificazione della narrazione evangelica: Pilato che si lava le
mani e abbandona Gesù alla folla urlante la condanna alla crocifissione;
la via crucis con la prima caduta sotto la croce; il Cireneo; le altre
due cadute, la spoliazione; la crocifissione; la deposizione nel sepolcro;
conclusivamente, un extratesto di rifrazione al presente dell'evento
e eli committenza dell'opera. Sono momenti di pura azione drammatica
assunti in figurazioni di estrema esaustiva fisicità. Coerente
a questo immanentismo selettivo e sublimativo è l'esclusione
di episodi ritenuti secondari: Barabba; la flagellazione; il rifiuto
da parte di Gesù di bere la bevanda inebriante per lenire i
dolori; i due ladroni; l'angelo del sepolcro scoperchiato. Per la
stessa ragione è escluso ogni riferimento al profetismo evangelico
della Passione, mezzo scelto da Dio per salvare il mondo, e al numinoso
post-sepolcrale della Resurrezione.
Centrale punto d'attrazione è la figura del Cristo con la croce,
ritmicamente ripetuta, per cui quasi ogni episodio è simultaneamente
diverso e speculare rispetto al successivo, e tale da costringere
ad un'attenzione particolare al simbolo primario dell'intera rappresentazione.
Per questo optimum di economia estetica è da ritenersi solo
prefatoria e didascalica la scena di Pilato con la folla plagiata
dal potere politico e farisaico, per quanto la tipologia ritrattistica
di Gesù e della folla già istituisca una importante
norma di reciprocità figurativa, contraddistinta da somiglianti
strutture corporee primitive: abbozzate forme della natura umana e
stigmi genetici immutabili di innumerevoli generazioni arcaiche di
un estremo sud d'Italia e di tutti i sud del mondo, realizzati attraverso
unitarie tecniche di valori plastici e di cubismo sintetico, come
accade di osservare in efficacissimi effetti di pittura cartellonistica
e murale.
I tre successivi riquadri istituzionalizzano le due realtà
emblematiche della Passione, quella del Cristo e quella della croce,
con originale soluzione concentrazionaria dello spazio pittorico,
nel senso di un grande trapezio delimitante, ai due lati, con i bracci
verticali della croce, due momenti del cammino verso il Calvario;
alla base, la prima caduta del Cristo sotto la croce; in altezza,
quattro figure retrostanti a mezzo busto: uno della folla, le due
Marie ed un soldato. Si tratta di apparente disarmonia distributiva
delle figure nello spazio, di alta rimemorazione simbolica primitivistica
e giottesca, per cui le grandezze spaziali riflettono le grandezze
dei valori dipinti. La figura intensissima di un Cristo contorto e
bloccato sotto un'immane croce elude, inizialmente, le ripercussioni
corali del suo dramma, e s'impone nell'unicità e nell'assolutezza
di un destino immutabile di solitudine e dolore, che è proprio
dell'uomo d'ogni luogo e d'ogni tempo. Così come la sua veste
bianca è così grande e ripetuta esaltazione cromatica
da trasfigurare il racconto di Luca (XXIII, 11), secondo il quale
sarebbe stato Erode a farla indossare a scherno a Gesù nel
rimandarlo a Pilato, e da aprirsi a moderni significati, etnici, sociali,
culturali, politici, assai vicini a quell'ostinata purezza ideale
(opposta all'impura realtà) del Cristo pasoliniano in film
come Vangelo secondo Matteo e La ricotta.
Gli ultimi due riquadri della prima serie possono addursi a riprova
di questa gerarchica metodologia compositiva. Narrativamente secondario
è l'episodio della sostituzione di Cristo con Simone di Cirene,
come l'altro, accanto, del compianto delle Marie in mezzo a scorci
di folla, concluso in una serialità di patetiche icone preficali.
L'Artista qui fa il suo mestiere e basta; semmai prolunga emozioni
del fortissimo trittico precedente in un pittoricismo di avvolgenti
distanze oscurate, allusivo e glossatorio.

Quel trittico è riattualizzato in quasi tutte le scene della
seconda serie, con ripresa crescente del ritmo drammatico nella nuova
e pur sempre compressa spazialità orizzontale, ospitante uno
spettacolo totale della sacra rappresentazione, quello della maggiore
mobilitazione di folla all'evento della Passione, fra teriomorfa crudeltà
dei crocifiggenti e umanissima rabbrividita pietà delle Marie
e di altre donne. Le soluzioni compositive delle varie scene in limitati
spazi coattivi sono occasione di virtualità espressiva, come
si verifica nella metrica chiusa della grande poesia, sicché
l'iconografia ricorrente di ogni scena (Cristo, croce, pie donne,
folla) è riformalizzata con sempre nuova produzione di senso.
Pittoricamente è ingrandito l'effetto dialettico Cristo-folla
con la ripetizione della figura bianca del protagonista premuta dentro
l'addensato e caotico coro dei partecipanti. Difficile è dire
quanto questo marcato sistema di opposizioni sia a livello pittorico
che compositivo conservi più tracce del sacro evangelico, di
una qualche aura del divino di Cristo che continui a trascenderlo
oltre l'umano che, invece, tende ad assorbirlo e a risolverlo in sé.
Ma ciò non è rilevante; il Cristo in veste bianca è
già tutto l'assoluto comprensibile della purezza: la presenza
di un assoluto positivo nella storia e nel mondo. Tanto più
ripetuta questa presenza, razionalmente e storicamente tanto più
credibile e reclamata, quanto più palpitante nella realtà
del martirologio, nel corpo che si piega e si contrae sotto la croce.
Anche all'altezza di questa seconda serie drammatica, la pittorica
realtà oggettiva resta quella che è, analizzabile in
soli segni di umanissima cronaca di violenza e sofferenza e morte,
la prima e l'ultima di una vicenda eterna sempre uguale a se stessa.

Anche la seconda serie come la prima si conclude con una sorta di
a parte delle ultime scene rispetto a quelle centrali del Cristo e
della croce; ed infatti la diversione narrativa delle scene del Cireneo
e delle pie donne corrisponde alla stessa diversione delle scene della
spoliazione e mercificazione delle vesti del Cristo; visibile ancora
questa omologazione di ritmi seriali nell'abbassamento tonale dei
colori, velati e smorzati nei grigi cenere delle vesti e nell'incarnato
sbiadito e smorto del torace della vittima, ancora negli stessi grigi
dello spogliatore posto a sinistra di chi guarda e nel giallo terroso
ed opaco dell'altro spogliatore posto a destra, nei volti retrostanti,
appena accennati e anodini, sicché l'intera unità narrativa
converge in un unico anticromatismo della degradazione e dello squallore.
L'acme della Passione è raggiunta nei primi due riquadri della
terza ed ultima serie, quelli della crocifissione e della morte sulla
croce, o della grande pittura dell'azione corale.
L'Artista qui si appella alle risorse della tecnica espressionistica,
senza tuttavia mai compromettere la natura realistico-dialettale,
lo stesso eversivo vernacolarismo, del suo linguaggio pittorico. Un'operazione,
questa, che si riconosce nell'ammassamento caotico e nella esasperata
gestualità dei partecipanti, e di cui l'estremo dinamismo visivo
è affidato a vibranti opposizioni di aggrumati colori interi.
L'arcaico corrotto preficale delle Marie e di altre donne (la pietà
non ha spettacolo di altri volti se non di quelli femminili, come
è millenaria tradizione pre e post-cristiana dei lamenti funebri)
preme, avvolgendola come da cerchio a centro, sulla figura del Cristo,
come per una summa sublimativa dell'intera vicenda della Passione,
e come per liberarne il grido, o il lamento primitivo.

Poi la classica quiete strutturale e cromatica della deposizione nel
sepolcro, in perfetta armonia con la realtà e con la contemplazione
della morte. In questo riquadro, per la già segnalata economia
interpretativa del racconto evangelico, è trascurato il primo
momento di questo episodio, quello della discesa dalla croce, ritenuto
secondario, ed è, invece, centralizzato, dentro circoscritte
volute spaziali, l'unitivo rapporto del corpo del Cristo con il masso
sepolcrale. Si tratta di una rigorosa ed originale transunzione pittorica
del terrestre radicalismo ideologico dal quale muove l'interpretazione
mandoriniana della Passione. A questa assolutezza della morte del
Cristo, in durata di pensieri chiusi e di emozioni profonde, tendono
singoli personaggi, da Giuseppe di Arimatea, nel cui sepolcro è
deposto Cristo, a Nicodemo, portatore degli unguenti e degli aromi
con i quali si preparavano i cadaveri, e gruppi corali, dalla folla
indistinta alle Marie. Le stesse icone corali sono disegnate e colorate
dentro il grande festone decorativo circoscrivente il Cristo morto.
Mandorino, ritraendo la più nota cronaca di morte di tutti
i tempi, ricorda sempre una cronaca funebre del suo paese.

La metamorfosi laica, o, se si vuole, la dimensione moderna della
Passione si avverte, infine, in elementi di dettaglio.
E' il caso del soldato armato di lancia, pronto ad aprire il costato
e a trafiggere il cuore del Cristo per assicurarsene del decesso;
certamente da interpretare come simbolizzazione dei riti di violenza
del potere ufficiale.
E non possono ritenersi casualmente ammucchiati sotto i piedi dell'ultima
figura di Cristo dadi e monete, referenti evangelici del commercio
delle sue vesti; questa dislocazione rispetto al riquadro di pertinenza
prefigura allusioni a tempi e a destini di simonie e corruzioni politico-religiose.
Un estremo, forse definitivo, segno del tempo della novecentesca tradizione
pittorica del sacro.
