§ Nostoi

Elissa degli specchi




Antonio Errico



La dolcezza straziante dei silenzi, le parole perdute dentro i pozzi stregati, e i letti ancora freddi, per l'insonnia, il sospetto. Adesso è più stanco il ricordo, stremato.
Assaporavo la morte guardando sul mare le navi già pronte a cercare lontano non so poi che cosa, la gloria dei nome, forse, o una terra. Così, almeno, dicesti. Ma non ho capito dove finisse il destino dell'uomo e cominciasse il veleno del serpe, l'inganno feroce. Non ho capito se sono state un'infamia soltanto anche le frasi che non ti ho mai chiesto, che nel dormiveglia a volte ho sentito accarezzarmi.
Questo vorrei sapere, solo questo, ti giuro, ora che della vita ormai son sciolti i nodi, ora che niente può ridarci noi stessi e il ricordo è come una morsa che gonfia le vene alla gola.
Ridevo disperata al pensiero di farti dei male ammazzandomi.
Non seppi pensare a nient'altro se non al martirio, a me che punivo con la mia morte il tuo tradimento. Svenarmi, trapassarmi col ferro, ardere, godere nel grido inumano, nell'ultimo grido che spaventò la notte lucida, calma.
Ricordo che qualcuno nelle stanze cantava una nenia. Fu triste odiarti mentre morivo.
Non volli fidarmi dei segni. Fu questo l'errore. Sognai di affrontare nemici e di allattare un bambino. Sognai cieli scuri e grandi corvi sul davanzale. Ecco, pensavo, sventura s'annuncia, ma quale sventura?
Una morte, forse, o Iarba davanti alle porte dei regno? Non sospettai il tradimento e fu la rovina.
Scappavi come bestia insidiata, impaurita, che cerca salvezza tra i rovi.
Spiavi la notte, le stelle, del vento cercavi il conforto. Con gli occhi fissi nel tenebrore io ti vedevo.
Ma perché non fermarti, non chiederti dove dirigi le navi, per quale ragione o per quale follia abbandoni il tuo regno, dico il tuo regno. La perfidia della gente che ti seguiva, del branco di lupi affamati, di vili scampati all'incendio di Troia ti convinse a fuggire, o un disegno divino o davvero il destino? che cosa, che cosa?
Parlami. Se hai parole nuove, se adesso non sei più idolo, se non sei più voce di racconto, se anche tu sei nome tra i nomi che la storia ha travolto e confuso, parlami.
Ora sono qui, mi vedi: cambio ogni mese il colore dei capelli, faccio impacchi d'edera alle borse degli occhi -nascondo così le rughe di millenni - costruisco barchette di carta e immagino che un mare furioso le travolga.
Mi vedi. Adesso bevo; poi vomito: poi vomito i versi del tuo poeta, la tua pietas, il tuo orgoglio, la tua ipocrisia, i tuoi dei, i miei rimpianti. Vomito le menzogne con cui hanno eretto statue al tuo destino, quella immagine di eroe che hai lasciato, il disordine che lasciavi nella stanza, l'alito pesante, la tua maschera virtuosa.
Ogni sera mi vesto da regina, e giro per le stanze immense e vuote come sonnambula, mi guardo negli specchi, in quegli stagni di riflessi misteriosi.
Mi guardo. Muovo un passo di danza. Mi allontano. A distanza non vedo le rughe, non vedo i nidi di scarafaggi negli intarsi delle cornici.
Ogni sera, dopo che ho chiuso le porte e la bombola del gas, dopo che ho preparato il sugo e la moka per domani, quando i bambini dei vicini smettono di urlare, e la portiera spegne la sua radio, quando finisce il diluvio degli scarichi di tutto il condominio, allora mi vesto da regina. E ogni sera a quest'ora è deriva, trama di fantasie, resurrezione di sensi; precipito nella voragine di specchi che si apre nei muri della stanza.
A quest'ora ho speranza di salvarmi dalla malinconia, dal tradimento, dallo stento dei giorni, dalla guerra che ogni giorno combatto contro il sogno. Perché a quest'ora è solo solo un sogno. Una marea di sogni mi trascina sul fondo di un passato che per me non ha nessuna storia.
Tutte le sere mi guardo negli specchi, e pronuncio un nome: Elissa. lo non voglio tornare.
Come tremendo vortice o tempesta che si scatena nell'aria all'improvviso, come vampata di fuoco sopra il viso, come gelido vento che trapassa la carne illividita. Così sei stato, così io ti ho sentito penetrare nell'anima, scendere fino in fondo alla memoria, sconvolgermi i pensieri e scardinare l'amore - o forse, non lo so, forse il rispetto - che avevo per Sicheo. Per te ho tradito la mia volontà di donna, i giuramenti, per te ho riacceso fiaccole e ordinato sacrifici nuovi sugli altari, per te ho capito che cosa è la vergogna. Da bambina sognavo di smarrirmi dentro un labirinto. Sei stato il labirinto, l'oscurità, il terrore, ma anche il sussulto del risveglio, l'alba che mi giungeva sopra il letto.
L'anima, ti dicevo, perché l'anima era la paura di perderti, il dolore senza ragione - o che senza ragione almeno mi sembrava - la smania di sapere, di capire.
Ma tu non hai visto la verità, hai confuso l'amore con la follia.
Credevi che io chiedessi, che volessi sapere di te, della tua vita, che ti cercassi negli occhi la conferma alle parole perché la mente ormai non aveva riposo. Forse era anche questo ma non questo soltanto.
Dimmi se per te è una pazzia voler penetrare i pensieri, ricostruire i minuti, gli attimi a volte. Se vuoi sapere che cosa vuol dire per me, ti dirò che è stata passione e passione vuol dire l'amore sfrontato, l'amore senza pudore, la voglia che cresce, che cresce, l'azzardo, la pena di non poter vivere in eterno, di doverti lasciare per morire.
Ma morire è stato non lasciarti. Che senso potevano avere i giorni e le notti, l'inverno e l'estate che senso potevano avere gli anni che avevo da vivere ancora. Come avrei potuto abituarmi di nuovo al vuoto delle stanze, alla monotonia, dopo aver vissuto tutti gli splendori?
Ecco quel che posso dirti adesso: se anche questo corpo martoriato gli dei ricomponessero, se non solo la vita riavessi ma anche la mia città e il mio regno soltanto a patto di non amarti, di nuovo io ti amerei.
Tutte le sere mi vesto da regina, mi guardo negli specchi, sussurro un nome: Elissa. Elissa, bocca occhi seno palpitante fianchi spezzati.
Felix, heu nimium felix, si litora tantum numquam dardaniae tetigissent nostra carinae.
Mi guardo. Non sono cambiata. Non molto. Elissa, regina superba, Elissa assediata da potentissimi amanti che muore per uno straniero.
Mi giungono, eco di un'eco lontana, le accuse, le ingiurie.
Ma chi può capire che cosa sei stato, ma chi può capire questo mio vaniloquio, questo mio smanioso stranirmi?
Tutte le sere lui tornava ubriaco. lo gli contavo i passi sulle scale, sentivo il suo affanno che cresceva. Quante volte ho pensato non gli apro, quante volte mi son detta no, stasera non posso sopportare di vederlo sbarrare gli occhi per il capogiro.
Tutte le sere gli chiedevo una ragione. E lui tirava fuori dalla tasca piccoli fogli di carta. Tutte le sere mi leggeva le sue poesie.
Forse qualcuna la ricordo ancora. Allora mi dicevo non è cresciuto, non ha saputo crescere. A quarant'anni, mi dicevo, non si può morire di parole. Ma lo ascoltavo. Lo ascoltavo? Lo ascoltavo a volte fino a notte.
Poi tornavo a domandargli una ragione. Una sera mi disse: sai, nella vita non si può essere felici, ma si deve cercare di essere per quanto più si può meno infelici. Quando scrivo io sono meno infelice. Così mi disse. Tutte le sere mi vestivo da regina, fuggivo negli specchi, diventavo immagine smemorata tra i riflessi, e sognavo sogni d'altri sonni, avevo un'altra voce, altre parole. Mi separavo da lui, dalla mia disperazione. Così cominciai a tradirlo.
La carne può abbattere le mura più forti, può aprire le porte serrate, corrodere il senno, frantumare anche i voti più duri, i ricordi più vivi.
Quando l'altro arrivò io non pensai che era straniero, che poteva abusare della mia città, violare gli altari.
Una sera mi telefonarono dall'ospedale. Gli portai fiori e sigarette. Ora cerco di pensarci sempre meno.
Io non voglio tornare.
Ti maledissi gli occhi, il respiro, il nome. Sperai che il mare ti travolgesse il figlio e che tu vivo potessi sentire la morte morderti il cuore, e che i rimorsi ti dilaniassero la mente e i rimpianti avvelenassero ogni giorno, ogni attimo della tua vita. Ma ti giuro che ora non ho più rancori. La morte dà pace e saggezza.
Ora qui ho mattini chiari e lunghe notti di sonno, notti in cui ti sogno a volte e poi ti tocco i capelli e il viso stanco.
Sento di non averti mai perduto e guardo se un'ombra dal fondo scuro sale a questo monte. Forse puoi tornare ancora. Aspetto che si plachi il tumulto della storia.
Il tempo in questo posto è immobile ma io vivo una vita che in certi attimi assomiglia all'altra già vissuta.
Ritorno con te. Ritornano i discorsi che scaldarono l'inverno che correva verso la fine, ritornano i bagliori di quel temporale, la trama delle sorti e dei misteri. Ti giuro che nessun inferno potrà mai bruciarne il ricordo, nessun lamento orrendo potrà farmi scordare la gioia infinita di averti avuto. E poi che cosa è la morte, che cosa può essere?
Forse questi occhi ciechi, questa solitudine eterna, o non è stato piuttosto il momento in cui mi sono accorta che volevi fuggire? E se per un solo istante - un solo istante, dico - potessimo rincontrarci in qualche luogo, morte la chiameresti questa morte?
Adesso sono qui, mi vedi, distante da me, da noi, ormai incapace di abbandonarmi all'inganno degli specchi, legata al palo di un ricordo che non riesco più a governare.
E' passato tutto come un temporale: la lunga guerra, il delirio, il suo racconto.
Adesso qui mi costringono a dormire per non disturbare le altre nella stanza. Ma il vestito lo nascondo nell'armadio, l'ho conservato con la naftalina.
Lo metto la domenica quando le altre scendono a parlare coi parenti; allora io mi vesto da regina, anche se non ho specchi.
(In giorno mi scoprirono. Ero uscita sul balcone, mi sembrava di veder venire navi forestiere. I bambini che giocavano sul prato se ne accorsero, cominciarono ad urlare: la matta, la matta, c'è una matta col vestito di sposa sul balcone.
Vennero le infermiere. Poi arrivò il dottore.
lo piansi. Non avevo mai pianto tanto.
Era giovane il dottore, un ragazzino.
Gli raccontai ogni cosa: del naufragio, dei tradimento, di lui che ritornava tutte le sere ubriaco. Mi ascoltò attento, silenzioso.
Mi chiese il nome. lo lo guardai negli occhi e all'improvviso mi ricordai di cosa gli dissi quella notte all'ospedale, quella notte che si sfilò dal braccio l'ago della flebo; ricordai le parole ad una ad una.
Gli dissi: saltem si qua mihi de te suscepta fuisset ante fugam suboles; si quis mihi parvulus aula luderet Aeneas, qui te tamen ore referret, non equidem omnino capta ac deserta viderer.
Elissa gli risposi.
Lui sorrise.
E' tutto così lontano adesso, così morto. Ormai non do più la carica alla sveglia. Non ha senso che io sappia quale ora passa sulla mia vita se la vita mi è indifferente, se il giorno in cui ti sto scrivendo perché tu sappia -ma forse non m'importa più nemmeno questo - non viene da nessuna notte e non va verso nessuna notte.
Anna, soror, i nuovo è primavera, di nuovo il roseto s'è fiorito. In primavera si spalancavano le porte e l'odore del mare nelle case scacciava l'odore del dolore.
Ora alzo barricate sulla soglia perché la stagione che torna non mi porti il riverbero di un sogno, perché un'eco non torni a risuonare o un racconto dal mare non riprenda ad assalirmi, ad incantarmi.
Non aspetto più nessuno e non so dirti che cosa mi trattiene ancora qui, che cosa mi impedisce di negarmi a questa solitudine che cresce mentre intorno a me crollano i ponti che gettai per non precipitare; ora sono macerie le finzioni, le recite, i travestimenti; è maceria la vita, il cristallo degli specchi.
La storia ormai è finita, è già passata con il vento di ieri cancellando la voce, oscurando i miei orizzonti di carta colorata.
Restano solo segni dolorosi. Resta la mia vecchiaia, la follia, resta il murmure di una fantasia che adesso però è sfinita, si è sfiancata.
Anna, sorella, di nuovo è primavera. Sbatte un'ala di passero sul vetro. Forse si ferisce. Si stordisce - un naufragio, un sogno, la paura di non riuscire più ad alzarsi in volo -. Ma si riprende, si rifugia in un cespuglio.
Sento il suo strido - un canto di vittoria -, un richiamo e l'attesa silenziosa di una risposta che non viene. Poi chiama ancora.
Poi aspetta ancora.
Io non aspetto più nessuno.

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