§ Rivoluzioni musicali

Viaggio intorno all'opera (2)




Sergio Bello



In Italia, dunque, assistiamo alla nascita ed allo sviluppo progressivo ed inesorabile del teatro musicale, dai primi, misurati, dotti, sperimentali passi mossi a Firenze, fino alla suggestiva, frenetica esuberanza del melodramma settecentesco. E in Europa? Quell'Europa che, con dominazioni alterne e con alterni esiti, imperversa in Italia nel corso degli anni qui presi in esame?
A ben guardare, relativamente al dramma musicale, questa Europa si rivela fortemente indebitata con il lacero stivale.
Ed il debito se lo accollano tanto le nazioni - sarebbe meglio dire le aree - la cui vita culturale è resa difficile da situazioni di politica interna frammentata qual è quella delle zone corrispondenti all'attuale Germania, impelagate in interminabili guerre, divise in innumerevoli staterelli ed oltretutto impegnate in violenti dissidi teologici, quanto - seppur meno direttamente -quegli Stati che godono di una più solida identità nazionale, tale da consentire loro di attraversare sanguinosi stravolgimenti politici ed ideologici senza tuttavia compromettere irreversibilmente unità interna e prestigio internazionale, com'è il caso della Francia dei Luigi e della Rivoluzione, e dell'Inghilterra di Cromwell e delle colonie.
Ed è un debito il cui peso, a quanto pare, spesso pesa insopportabilmente sulle spalle di intellettuali, compositori, mecenati ed uomini di cultura in generale, considerati i numerosi quanto vigorosi tentativi - ai quali avremo presto modo di accostarci con maggiore attenzione - di contrapporsi ad esso.
in un quadro qual è quello che stiamo per illustrare, la Francia si mostra, in apparente contraddizione, come il caso al tempo stesso più emblematico e singolare dell'intera vicenda, e questo la condanna ad una trattazione maggiormente approfondita e attenta, separatamente dalle restanti nazioni europee.
Analizziamo dunque la consistenza e la natura del debito contratto dal mondo della cultura musicale europea nei confronti dell'Italia nel corso dei secoli XVII e XVIII, così da poterne valutare le conseguenze mediate ed immediate.
Diremo subito che i fenomeni più tipici della vita musicale delle nazioni - Germania, Austria, Inghilterra e Russia - che toccheremo in questo nostro tragitto esplorativo si possono riassumere in due vasti filoni, ora fruttuosamente interagenti, ora dialetticamente contrapposti, spesso, se non reciprocamente fusi, quanto meno ben mimetizzati: da una parte l'emigrazione ed il conseguente trapianto di compositori italiani all'estero, dall'altro i tentativi di costituzione di Teatri Nazionali che, adeguatamente caratterizzati, si discostassero dal teatro in musica di discendenza italiana ed ad esso si sostituissero.
Gli esiti di tali tentativi nazionalisti non sempre si sono rivelati soddisfacenti; spesso, anzi, si sono mostrati capaci di ben scarsa presa, a tutto vantaggio dell'egernonia italiana.
Al riguardo, Mario Baroni ed Enrico Fubini - entrambi cattedratici in Storia della musica, il primo a Bologna, il secondo a Torino - sono lapidari: "Nonostante i tentativi di creare una tradizione operistica nazionale in Francia, in Inghilterra e in Germania, il modello dell'opera italiana già alla fine del Seicento si era imposto in tutta l'Europa, con i suoi vizi e le sue virtù, e appariva indubbiamente come il più gradito ad ogni ceto sociale,,.
Ma vediamo dunque quali sono stati, caso per caso, questi tentativi di teatro nazionale, a cominciare proprio da quella Germania - unitamente all'Austria - tanto lacerata.
In questi Paesi, durante l'intero arco dei secoli XVII e XVIII, l'influsso delle opere italiane è stato cosa dilagante che si può, tranquillamente parlare in termini di egemonia. Per un'opera nazionale di effettiva presa tanto sul pubblico quanto sul mondo della cultura nazionale ed internazionale bisogna arrivare al romanticismo, con Carl Maria von Weber ed il suo Freishutz (Il franco cacciatore) del 1821.
Nel frattempo, il più vistoso tentativo di sottrarsi all'influsso italiano si ha nella libera città di Amburgo, nell'ambito di una Germania che, uscita dalla stremante avventura della Guerra dei Trent'anni, sembra ritrovare il desiderio di una volontà politica indirizzata verso una concezione unitaria, che si manifesta nella tendenza dei maggiori Stati germanici verso 'espansione territoriale, ai danni dei principati minori.
Tuttavia, e mai come in questo caso, il nuovo teatro aveva in sé il germe della propria distruzione: il teatro di Amburgo, sulle cui tavole si rappresentarono i primi esperimenti di teatro nazionale tedesco, venne infatti inaugurato con l'Adamo ed Eva di Johann Theile, discepolo di quel l'Heinrich Schutz, o Henricus Sagittarius, che, sotto gli auspici del principe mecenate Maurizio d'Assia, tanto studio a Venezia con Giovanni Gabrieli e Claudio Monteverdi, e con tali risultati, da venir ricordato dal già citato Mario Baroni per [ ... ], il gusto per la declamazione espressiva all'italiana, che egli fu uno dei primi ad introdurre in Germania, [ ... ]". E' quindi assai difficile dedurre in cosa consistesse il teatro nazionale nato ad Amburgo, con il quale si cimentarono compositori del calibro di Telemann ed Haendel: i risultati pratici si limitarono ad opere in cui al testo in lingua tedesca si accompagnava uno svolgimento musicale influenzato dalla vocalità italiana, e nulla più.
Scontato, viste le premesse, il progressivo ritorno all'opera italiana, a chiudere un'avventura durata meno di mezzo secolo.
Nelle restanti città, invece, non ci si sogna nemmeno di mettere in dubbio l'egemonia italiana fino ad almeno tutto il 1750. Il successo delle rappresentazioni consentì, ed anzi favori la diffusione della lingua italiana; poeti-librettisti quali Pietro Metastasio ed Apostolo Zeno furono insigniti dagli imperatori d'Austria del titolo ufficiale di "Poeta Cesareo", titolo che mantennero fino alla morte; cantanti, compositori, architetti teatrali italiani o di formazione italiana erano richiestissimi nelle corti.
Vienna, Dresda, Monaco e Berlino vantarono il maggior numero di presenze italiane.
Vienna si distinse per il fasto delle rappresentazioni, com'è il caso del Pomo d'oro di Marcantonio Cesti, con i suoi 5 atti e le sue 67 scene; a Dresda si cimentarono Carlo Pallavicino, Antonio Lotti, Johann Adolph Hasse; Monaco ospitò, dopo il primo impulso datole dall'impegno compositivo di Johann Kaspar Krell - allievo di Carissimi a Roma -, Bernabei, Steffani e Torri, e poté oltretutto vantare la prima de La finta giardiniera, opera buffa di stampo italiano del giovane Mozart; Berlino fu, tra queste città, l'ultima in ordine di tempo a conoscere il fascino dell'opera italiana, ma non ne fu meno conquistata: la prima opera viene rappresentata nel 1700, e, fino al regno di Federico Guglielmo I, Attilio Ariosti e Giovan Battista Bononcini dominarono le scene musicali. Lo spettacolo d'opera italiano ritornò a nuovo e più fulgido splendore con Federico Guglielmo II, che aveva in uggia gli artisti autoctoni, mentre stimava cantanti, scenografi e librettisti italiani, che mai mancarono alla sua corte. Il suo successore, tanto per tenere viva quella che si può ormai definire una tradizione di alternanze al vertice ora a vantaggio, ora a svantaggio del teatro italiano, favorì gli autori tedeschi, senza tuttavia censurare l'opera italiana, come si era premurato di fare a Monaco Carlo Teodoro elettore del Palatinato, che nel 1787 ordinò la cessazione delle rappresentazioni di opere italiane.
L'opposizione all'opera italiana a Vienna e a Dresda si manifesto sul piano, decisamente più produttivo, del confronto artistico, che vide impegnati Gluck e Calzabigi nella prima e, molto più tardi, il già citato von Weber nell'altra.
il fallimento dei propositi di costituzione di un teatro nazionale in Germania non si rivelò un caso isolato: l'Inghilterra era lì a far buona compagnia!
La cronologia della debàcle della nobile isola si riassume in un tentativo ed un episodio.
Il tentativo fu condotto dal maggior compositore del Seicento inglese, Henry Purcell, il quale raccolse la Tradizione del masque, spettacolo che si componeva di una successione di danze, musiche vocali e musiche strumentali che svolgevano un argomento di carattere mitologico o anche allegorico - guarda caso anch'esso derivato dalla tradizione italiana, oltreché francese -, e compose sei opere teatrali, tra cui il suo capolavoro, Dido and Aenea. Tuttavia, lingua a parte, queste opere hanno poco di effettivamente caratterizzante, com' èstato per i tentativi amburghesi. E questo, unitamente alla brevità dell'arco produttivo di Purcell, morto a soli trentasei anni, non consentirono un benché minimo sviluppo al teatro nazionale inglese.
Nel Settecento infatti il melodramma italiano prevalse incontrastato, se si eccettua l'episodio di cui sopra, la Beggar's Opera di John Gay, simpatica satira dei costumi e dell'opera italiana; ma non si va al di là del mero inserimento di canzoni inglesi semplici e garbate: nulla più.
In Russia, terra di grande tradizione nazionalista, sempre orgogliosa della propria cultura, accade paradossalmente il contrario: l'opera italiana, fin dall'arrivo nella capitale dell'epoca, Pietroburgo, nel 1735 della compagnia del napoletano Francesco Araja, viene accolta con eguale entusiasmo (la regnanti, intellettuali e musicisti, e solo con il XIX secolo ed il Gruppo dei Cinque verrà soppiantata da una vivissima propensione verso la tradizione musicale locale.
In particolare, con l'avvento al trono di Caterina II la Grande nel 1762, dopo la parentesi delle lotte di successione protrattesi per quasi quarant'anni dopo la morte di Pietro I il Grande, l'opera italiana verrà letteralmente portata di peso in Russia.
Il progetto di occidentalizzazione ereditato da Pietro I, infatti, spinse la Zarina a chiamare presso di sé numerosi compositori di scuola napoletana.
Il primo fu Baldassarre Galuppi, il già menzionato Buranello, giunto a Pietroburgo nel 1765; a lui succedette il bitontino Tommaso Traetta che, lasciata la carica di direttore del Conservatorio dell'Ospedaletto a Venezia, giunse nella prima città russa nel 1768, per poi trasferirsi a Londra nel 1774.
Particolarmente stimolante e fruttuoso si rivelò il soggiorno russo di Giovanni Paisiello, chiamato da Caterina II per ricoprire la carica di Maestro della Cappella di corte; durante il soggiorno presso la Zarina, protrattosi dal 1776 al 1784, infatti, compose le sue opere più apprezzate, La serva padrona, sullo stesso libretto che musicò Pergolesi, e Il barbiere di Siviglia, senz'altro il lavoro meglio riuscito.
Quindi fu la volta di Giuseppe Sarti, in due trance: dal 1784 al 1787 prima e dal 1789 al' 1791 poi. Nel mezzo - dal 1789 al 1791 - Domenico Cimarosa.
Questo dunque il quadro europeo: contrastata o adulata, osteggiata o venerata che fosse, l'opera italiana, ed in particolare l'opera buffa napoletana, si dimostrò capace di imporre la propria autorità ovunque mettesse piede, dando vita a contese e dibattiti accaniti. E' proprio da quest'ottica che si deve guardare alla Francia, assente, finora, nel corso della trattazione. Il periodo di maggior successo dell'opera italiana corrisponde a grandi linee al periodo di maggior fermento intellettuale, sociale ed ideologico francese e, per irradiazione, europeo. Ogni evento culturale - indigeno o importato che fosse - veniva vagliato, giudicato, catalogato secondo categorie di pensiero spesso discordanti, sempre intensamente sentite e vissute. Il parametro dell'intensità elevato alla massima potenza diventa il comune denominatore che volge sintomaticamente il confronto in contrapposizione, lo scambio di idee in rissa ideologica. 1 dibattiti si fanno "querelles".
La Francia vantava già nel XVI sec. una forma di teatro - il ballet de cour - composta da un susseguirsi di danze sorrette da parti cantate e musiche strumentali collegate da un tenue filo narrativo. A questa forma si aggiunse, nella prima metà del secolo successivo, la comedie-ballet, in cui i dialoghi recitati - novità propria eli questa forma di teatro musicale francese -acquistano un ruolo preminente rispetto a danze e musiche, queste ultime in funzione di cerniera.
Nel frattempo l'opera italiana esordisce a Parigi grazie all'opera mediatrice del cardinale Mazarino, reduce dalle rappresentazioni al Teatro Barberini a Roma.
La finta pazza di Francesco Sacrati in avanscoperta nel 1645; l'anno dopo l'Egitto di Francesco Cavalli, e nel 1647 la prima opera italiana appositamente composta per i teatri francesi: l'Orfeo di Luigi Rossi.
E' in questo clima che emerge con prepotenza quello che sarà il più apprezzato compositore "francese" del Seicento: le virgolette sono d'obbligo, essendo costui l'italiano - fiorentino per l'esattezza - Giovan Battista Lulli.
Nel 1654, tredicenne, era a Parigi in qualità di valletto di camera di M.Ile de Montpensier, membro della reale famiglia. Nel 1652 passa al servizio del re, Luigi XIV, come compositore, e dal 1664 compone e sovraintende alle musiche di corte. La collaborazione di Lulli - o Lully, essendosi nel frattempo naturalizzato -con il geniale commediografo Jean-Baptiste Poquelin, detto Molière, nella composizione di comedie-ballet, dà vita a capolavori quale Le bourgeois gentilhomme ("Il borghese gentiluomo"). Lulli si trovò tuttavia ben presto costretto a fare i conti con il successo che riscuoteva l'opera italiana importata dal cardinale Mazarino.
A togliere le castagne dal fuoco castagne che diventavano sempre più bollenti - al nostro furono il librettista ed abate Pierre Perrin ed il compositore Robert Cambert, i quali, dopo aver brillantemente indicato la strada per la costituzione di un teatro nazionale francese con le opere Pastorale d'Issy e Pomona, rispettivamente del 1659 e del 1671, ebbero il buon gusto di indebitarsi e dunque fallire a causa di una gestione evidentemente meno brillante della loro opera compositiva, lasciando libero il campo.
Lulli, dal canto suo, dimostrò tutta l'abilità di cui era capace, e non solo in ambito compositivo: con l'ottica e gli scrupoli - evidentemente assenti - di un uomo d'affari, sfruttò ampiamente la stima in lui riposta da Luigi XIV, ottenendo il "privilegio" reale appartenuto a Perrin, che riponeva nelle sue capaci mani il monopolio delle rappresentazioni parigine, fondo l'Acadèmie royale de musique et danse, da cui originerà l'Opera di Parigi, e a distanza di un anno soltanto dalla rappresentazione di Pomona, sviluppando con coerenza geniale la formula melodrammatica approntata da Perrin e Cambert, creò l'opera francese, battezzandola Tragèdie lyrique.
Questa nuova forma melodrammatica si sviluppa intorno a ben determinate scelte letterarie e musicali, scelte che la dotano di quel carattere peculiare che mancò ai tentativi di teatro nazionale inglese e tedesco: scelta di strutture draminatiche tipiche delle contemporanee tragedie in versi di Corneille e Racine; versificazione basata sul verso classico francese, l'alessandrino; divisione dell'opera in 5 atti; semplificazione del tessuto melodico delle arie e rinuncia ad artifici belcantistici; maggiormente curati recitativi e cori; ouverture introduttiva in tre parti - della poi alla Lulli - Grave, Allegro fugato, Adagio; il tutto atto a conferire maggiore compostezza e drammaticità della rappresentazione.
L'intero secolo successivo sarà caratterizzato dall'impronta, lasciata dalle composizioni di Lulli: alla tradizione della Tragèdie lyrique si agganciarono, ad esempio, Andrù Campra e Andrù Destouches; Jean-Philippe Rameau, invece, pur proseguendo la via tracciata da Lulli, nondimeno assimilerà il gusto melodico italiano, ma soprattutto svilupperà una ricerca armonica che lo spingerà verso la pubblicazione del trattato Traité de l'harmonie reduite à ses principes naturels, primo studio della scienza armonica intesa in senso moderno.
L'applicazione dei principi teorici da lui desunti nelle sue composizioni, se è vero che gli diedero una sconfinata notorietà, è vero anche che lo scaraventarono nel mezzo di una delle famose querelles sviluppatesi in questo periodo: da una parte, i crociati della tradizione, i cosiddetti Lullisti; dall'altra gli intellettuali più avanguardisti, i Ramisti.
Analoga contesa si ebbe dopo la rappresentazione, nel 1752, dell'opera buffa La serva padrona di Pergolesi: questa volta le avverse fazioni presero il nome di Buffonisti ed Antibuffonisti; ai primi, che durante le rappresentazioni erano soliti radunarsi sotto il palco della regina (coin de la reine), si unirono i filosofi ed i letterati dell'Illuminismo, Rousseau e Diderot in particolare, i quali degli spettacoli italiani apprezzavano la fondamentale verosimiglianza con la realtà. I secondi, arroccati sotto il palco del re (coin du roi), si richiamavano alla tradizione nazionale ed al suo massimo rappresentante del tempo, Rameau.
L'ultima tra le più famose querelles francesi del '700 fu quella che vide contrapposti Gluckisti e Piccinnisti.
Cristoph Willibald Gluck fu infatti l'artefice. di una radicale riforma del melodramma, attuata per mezzo della realizzazione di tre opere su libretto di Ranieri de' Calzabigi - l'Orfeo ed Euridice, l'Alceste e il Paride ed Enea -rappresentate prima a Vienna e poi a Parigi tra il 1774 ed il 1776, intesa a restituire l'originaria importanza all'azione teatrale ed alla parola.
La prefazione all'Alceste (vedi riquadro) rappresenta una sorta di manifesto programmatico degli intenti riformatori di Gluck e Calzabigi, che sul piano musicale si riassumono nell'uso espressivo della strumentazione, nella caratterizzazione psicologica della sinfonia d'apertura in relazione al clima in cui si immergerà l'azione teatrale, nell'ampio uso di cori e balli e nell'adozione di un vasto repertorio di forme d'aria.
Nel 1776, visto il favore incontralo presso il pubblico francese dalle opere "riformate", i fautori dell'opera italiana invitarono nella capitale francese il compositore barese Nicolò Piccinni, per contrapporlo all'autore dell'Alceste.
Piccinni compose, quindi, il Roland nel 1778, ottenendo un buon successo di pubblico e di critica, e guadagnandosi la direzione della compagnia italiana. L'autore pugliese compose l'Atys nel 1780, per poi cedere al confronto diretto con Gluk avvenuto per mezzo della Iphigènie en Tauride, datata 1781, con la quale si era a sua volta cimentato l'avversario due anni prima.
Quest' ultimo, sintomatico episodio assolve perfettamente al compito di cadenza sospesa su quello che sarà il melodramma dell'Ottocento, beneficiario di una doppi eredità che, scansate le facili quanto sterili contrapposizioni, si rivelerà decisamente fruttuosa.

Il manifesto di GIuck

Musica in poesia

"Quando presi a far la musica dell'Alceste mi proposi di spogliarla affatto di tutti quegli abusi che introdotti o dalla male intesa vanità dei contanti o dalla troppa compiacenza de' maestri, da tanto tempo sfiguravano l'opera italiana, e dei più pomposo e più bello di tutti gli spettacoli ne fanno il più ridicolo e il più noioso.
"Pensai restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia per l'espressione, e per le situazioni della favola senza interrompere l'azione o raffreddarla con degli inutili superflui ornamenti, e credei ch'ella far dovesse quel ch'è sopra un ben corretto e ben disposto disegno la vivacità de' colori, e il contrasto ben assortito de' lumi e delle ombre. che servono ad animare le figure senza alterarne i contorni.
"Non ho voluto dunque né arrestare un attore nel maggior caldo del dialogo per rispettare un noioso ritornello né fermarlo a mezza parola sopra una vocale favorevole o far pompa in un lungo passaggio dell'agilità di sua bella voce o ad aspettare che l'orchestra le dia tempo di raccorre il fiato per una cadenza. Non ho creduto di dover scorrere rapi domente la seconda parte di un'aria, quantunque fosse la più appassionata e importante per aver luogo di ripeter regolarmente quattro volte le parole della prima, e finir l'aria dove forse non finisce il senso, per dar comando al cantante di far vedere che può variare in tante guise capricciosamente un passaggio; insomma ho cercato di sbandire tutti quegli abusi "contro" de' quali da gran tempo esclamavano invano il buon senso e la ragione.
"Ho imaginato che la sinfonia debba prevenire gli spettatori dell'azione che ha da rappresentarsi e Formare, per dir così, l'argomento: che il concerto degli istrumenti abbia a regolarsi a proporzione degli interessi e della passione e non lasciare quel tagliente divario fra l'aria e il recitativo che non tronchi a controsenso il periodo né interrompa mai a proposito la forza e il caldo dell'azione.
"Ho creduto poi che la mia maggior fatica dovesse ridursi a cercare una bella semplicità; ed ho evitato di Far pompa di difficoltà in pregiudizio della chiarezza; non ho giudicato spregevole la scoperta di qualche novità se non quando fosse naturalmente somministrata dalla situazione e dall'espressione; e non v'è regola d'ordine ch'io non abbia creduto doversi di buona voglia sacrificare in grazia dell'effetto.
"Ecco i miei principi. Per buona sorte si prestava a meraviglia al mio disegno il libretto in cui il celebre autore "R. de' Calzabigi" immaginando un nuovo piano per il drammatico aveva sostituito alle fiorite descrizioni, ai paragoni superflui e alle sentenziose e fredde moralità, il linguaggio dei cuore, le passioni forti, le situazioni interessanti, e uno spettacolo sempre variato".
(Estratto della prefazione alla stampa dell'Alceste di C.W. Gluck)

(2-continua)


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