Ambigue affinitą (atto primo)




Bruno Brancher



LA MADRE (I)

Achtung-achtung, urlarono gli altoparlanti sparsi nel collegio. Poi udì le sirene. Indi: swaaamm, swaaammm ùùùaaùhhhhh, sfrecciarono gli aeroplani, sganciarono le bombe, le mitragliatrici fecero fuoco senza beccare un aereo e tutti, lui escluso, si avviarono di corsa verso le cantine. A rifugi. E il ragazzo, che di ragazzo si trattava, approfittò di quella insperata occasione per fuggire dal collegio. Vagò per la città deserta. Ogni tanto crollava qualche muro, o facciate, di casa o di palazzo. Udiva delle urla che motto spesso erano grida di aiuto. Vide apparire, come d'incanto, gli interni delle case con le loro stanze. Vide anche una stanza da bagno con una donne sdraiata nella vasca. La testa e Il braccio abbandonati lungo il bordo. E i capelli che scendevano sparpagliandosi fin sul pavimento. A lui andò di pensare che la donna fosse svenuta dallo spavento preso.
Proseguì nel suo cammino vagando tra le macerie fino a che raggiunse il Banco di Roma. Lui sapeva che lì ci stava un rifugio. Sapeva anche che nel rifugio avrebbe trovato sua madre. Suonarono di nuovo le sirene. Era il segnale di cessato allarme. Qualche casetta era crollate, lì, alle Cinque Vie. Ed anche la casa di sua madre era stata centrata da una bombetta.
Si trattava di quella casa situata In via Bocchetto, al numero 9, giusto di fronte alla Banca. Completamente andate. Il tetto crollato. Il ragazzo incontrò sua madre, dicevo, e la madre lo vide e lo guardò corrucciata e gli disse: "ma che cazzo ci fai qui? non dovevi essere in collegio? adesso che faccio? sono senza casa e con te in sopramercato". E quel ragazzo la guardò stupito. E rimpianse il collegio.

LA MADRE (II)

Il cane dei Gusmaroli era un misto di "snauzer" e barboncino. Il gatto dei Brandi era un misto di tutti i gatti di questo mondo. I Brancher invece avevano un figliolo. Che non era una bestia, è vero, ma che amava sia il gatto dei Brandi che il cagnetto dei Gusmaroli. Sono stato chiaro? Le bestie presero possesso delle rispettive dimore che ancora erano in tenera età. Dunque, niente rivalità. Addirittura si amavano. Non era raro il caso di beccare i due mentre si scambiavano tenerezze tipo annusatine e slinguate interminabili.
Il cagnetto, quando mi vedeva, cadeva in deliquio pisciando a dirotto, inondando così, non solo il pianerottolo, ma tutti i pianerottoli sottostanti. Il gattino addirittura mi saltava in braccio e mi annusava le orecchie. E' anche vero che io facevo del mio meglio per arruffianarmi loro, come dire che gli rifilavo, a volte, leccornie a base di dolciumi. E quando il cane faceva pipì la signora Gusmaroli usciva con uno straccio e puliva pazientemente il tutto.
Non prima, però, di avermi lanciato uno sguardo tra il riprovevole e lo scherzoso. Sorridente, tutto sommato. E quando il gatto rifiutava di mangiare quel che la sua padrona gli passava, allora la signora Brandi, quando mi incontrava, mi guardava sorridente, ma anche con un po' di rimprovero. Volevo molto bene a tutti quanti. Dalla Brandi, alla Gusmaroli. Dal cane, al gatto.
Ecco, poi successe che io entrai a San Vittore. Dentro, in galera. Ci "stetti" per un po' di tempo. Quasi un anno. E poi uscii di nuovo in libertà. Va bene così. E sul pianerottolo di casa incontrai il mio amico cane il quale, appena mi vide, questa volta abbaiò forte e in più, tanto per cambiare, se la fece sotto un'altra volta. Più lunga del solito, sì che la pipì arrivò fino a pianterreno. Apparve anche il gatto che mi vide e mi saltò sulle braccia. E, al solito, mi annusò le orecchie; poi posò quella capoccia vellutata sul mio collo e tranquillamente cominciò a fare le fusa. Cose così. Poi apparvero, contemporaneamente, la Gusmaroli e la Brandi. Che mi videro, sorrisero. Un sorriso un po' di rimprovero e un po' di simpatia. Poi apparve anche mia madre che appena mi vide disse: "tel ghi, el me fiò, ti hanno già mollato?". E fu giusto in quel momento che capii che volevo più bene al cagnetto, al gatto. Alla sciüra Brandi, alla sciüra Gusmaroli. Più che a mia madre.

LA MADRE (III)

Abitavo alla Ripa. Al 19. E le finestre della casa davano sul Naviglio. Il cesso si trovava sul ballatoio. Compreso il lavandino.
La poesia della ringhiera. Una gran cazzata. A me piaceva alzarmi presto al mattino, socchiudere le finestre, e occhieggiare nella via, sul corso d'acqua e vedere arrivare da lontano i barconi trainati da quei grandi cavalli quasi sempre di colore bianco.
Bello quando c'era la nebbia e i barconi che sffuiifff apparivano come d'incanto.
E troc troc troc la cadenza degli zoccoli duri dei cavalli trainanti. Ed era proprio quel troc troc a dare la sveglia alla Ripa. Si accendeva qualche luce, si vedeva il tremolio di qualche candela, e subito veniva fame perché si sentiva il profumo del pane fresco che invadeva strade e caseggiati. E alura, alé, via in cucina a preparare le fette di lardo, le quali, spalmate sul pane... e va bene, il discorso è un altro, che inevitabilmente, e questo succedeva da un po' di tempo, il cavallo si fermava giusto davanti al 19, il barcone si immobilizzava e scendeva un tipo alto e magro con qualche pacchetto appresso che da subito scopersi come contenente dei viveri di prima necessità: tipo: salumi, formaggi, carni, pollami.
Per non dire delle uova. E quell'uomo saliva le scale e appariva, arrogante e sicuro di sé, davanti a mia madre che lo accoglieva sempre in modo caloroso, e genuinamente sincero. A braccia aperte. Notavo che era più affettuosa con lui che con me. Ma capii che non era il caso di sottilizzare, anche se una volta glielo dissi, a mia madre, che non mi andava vederla fare tutte quelle smancerie ad un uomo che io vedevo come un gran pirla, e mia madre mi rispose che la differenza tra me e lui era enorme, ovvero: lui portava da mangiare. E io invece mangiavo ciò che lui portava. Grande madre mia. E' sempre stata una sua specialità presentare le cose con chiarezza. Ed era giusto in quel momento che io dovevo abbandonare la casa. Scendevo dal prestiné e mi mangiavo qualche veneziana. Poi risalivo in casa. Ma sempre dopo che il barcone era ripartito. E sssciuuiff, e troc troc, e va'e vaffanculo, vivandiere di merda.

LA MADRE (IV)

Mi piace ricordare quella santa donna di mia madre. Come mi piace ricordare il venendì di noi poveri che era detto giorno di magro perché la Chiesa ci proibiva di mangiare carne. Il fatto è che la carne noi la vedevamo solo nelle feste grandi, bene che ci andava, naturalmente; ma nulla toglie alla magia del venerdì, giorno di magro. Almeno avevamo una scusa ufficiale per non mangiare carne. Mia madre, soprattutto di venerdì, non perdeva occasione di magnificarmi la bellezza del vivere soli. Tutto questo per invogliarmi a mollare la casa e andare a vivere da qualche altra parte. Dicevo della Ripa. Successe che per un breve periodo di tempo, il venerdì, da giorno di magro si trasformò in giorno di grasso. In giorno di crapula. Insomma, successe che mia madre riuscì a conoscere un personaggio leggendario per quei tempi, addirittura un contrabbandiere di carne.
Si portava sempre appresso la figlia che aveva la mia età. E succedeva anche che, quando mia madre si appartava per confidenze varie con il contrabbandiere gioviale, io rimanevo solo con sua figlia. E non ci guardavamo neppure negli occhi, finché lei una volta mi disse che lei sapeva come si faceva. "Faceva cosa?" - chiesi - e lei arrossì ed io capii tutto. Infatti fu il mio primo amore. E quella volta il carnaiolo fini un po' più presto del solito e ci scoprì mentre la sua figliola mi stava insegnando come si faceva a fare quella cosa li, e, visto che io ero un po' tardo di comprendonio, le lezioni dovevano essere ripetute tante volte. E il papà rise. E anche la mamma rise. E poi il papà se ne andò via. E la madre mi guardò fisso negli occhi e mi chiese: "quando vi sposerete? presto, eh? così prendi casa e ti fai anche tu una famiglia". E mi guardò fisso negli occhi. Ricambiai, stupito, lo sguardo. Perché quel giorno non cadeva di venerdì.

LA MADRE (V)

Successe che quel ragazzo, passeggiando per la Galleria Vittorio Emanuele, improvvisamente piombò a terra e non si mosse più.
Non era morto anche se lo sembrava. Cereo in viso, senza manco un battere di ciglia. Immobile. Una roba da fare spavento. Ma lui lo spavento lo provò sul serio quando udì dire da un tale: "questo qui è morto". Avrebbe voluto urlare che era vivo. Che udiva tutto. Che sentiva tutto. Che il cuore era ancora in funzione anche se il battito lo sentiva solo lui. Mille cose avrebbe voluto dire, ma soprattutto desiderava fare gli scongiuri perché era assai superstizioso. E con raccapriccio pensò: "te voret vidé che mi seppelliscono vivo?". E, memore di letture fresche fresche della sua amata Carolina Invernizio, oltre che rabbrividire, pianse. E di certo furono le lacrime a salvarlo. Chi dice che la cultura non serve a nulla? Pianse, dicevo, calde lacrime e le lacrime furono notate da una donna che gridò: "el fiò l'è minga ancamò mort perché, lo vedete?, sta piangendo. Avete mai visto piangere un morto?".
E va bene così: pensò anche a sua madre e sorrise dentro di sé. Finalmente si era liberata di 'sto figlio suo che tanto la preoccupava. Poi vennero quelli dell'ambulanza. Croce Verde. Lo caricarono e via, sirena e tutto, di corsa a Niguarda. Dove lo guardarono attentamente negli occhi. Gli fecero una iniezione che ebbe il potere di risvegliarlo subito. Poi gli fecero anche un clistere. Poi apparve sua madre. Sì, ecco, è vero, la vide pallida. E la madre lo tastò da tutte le parti. Lo pizzicò, anche. E, credere e non credere, riuscì anche ad annusarlo. Poi la madre sorrise. E gli disse che se voleva tornare a casa quella sera si sarebbe mangiato bene. E com'era venuta se ne andò via. E lui pensò che è vero che alla fine non tutti i mali vengono per nuocere.

DUETTO

"Tò? chi si vede, Sandra. Ciao, Sandra."
"Ma che bella sorpresa, il mio amico Luigi. Ciao, Luigi."
"Tesoro della mia Sandra. Ma che ci facevi a Londra?"
"Mai stata a Londra. Ma tu, Luigi, non eri a Parigi?"
"Non mi sono mai mosso da Milano. E che c'entra Parigi?"
"C'entra molto, anche perché Parigi fa rima con Luigi."
"Non mi dire! Però anche Sandra fa rima con Londra."
"Sì, è vero, però con Parigi fa rima anche Gigi."
"E va bene. Toccato. Ma con Londra fa rima anche slandra."
"Slandra? Come termine mi giunge nuovo. Che significa?"
"Slandra significa donna brutta, sciattona, volgare, a volte, lo si rifila anche alle puttane. Risposta giusta?"
"Senti questa nenia, me la cantava la nonna per farmi addormentare:
"Oh Gigi verme, oh venne Gigi, ma lo sai che tu stai meglio nelle mele che a Parigi?" ti va? ti suona bene?"
"Sandra, maledizione, ci incontriamo e ci insultiamo, ma perché?"
"Perché io non mi chiamo Sandra."
"Ma neppure io mi chiamo Luigi. "
"Ed allora perché mi hai detto se ero stata a Londra?"
"Così, per dire. Sei bella ed ho attaccato bottone, però tu mi hai dato corda, dicendo che mi chiamavo Luigi, e tirando in ballo Parigi che è una città che non mi piace. "
"Neppure a me piace Londra. Comunque, slandra non te la perdonerò mai. Vivessi cent'anni."
"Bè, cent'anni sono tanti. Incominciamo a perdonarci fin da adesso? Io ti perdono subito il verme Gigi."
"Ed io ti tengo ancora il muso. Va bene. Dove andiamo?"
"A casa mia, no? Ho una bellissima collezione di cartoline "
"Alt, fermo lì, questa l'ho già sentita dire da qualche parte "
"Cosa hai sentito dire?"
"Della collezione."
"Ah, già, si, come, ovvero, non so, voglio dire "
"Va bè, va bè, ho capito, andiamo a casa tua. Dove abiti?"
"In via dei Cinquecento, al Corvetto, in una casa popolare "
"AI Corvetto? in una casa popolare? Scusa, sai, ma ho da fare"
"Da fare cosa? Ma dove vuoi andare?"
"Me ne vado via da Milano. Andrò a Parigi. Ma senza il verme Gigi."
"Ah ssiii? Ed io che pensavo che te ne saresti ritornata a Londra a fare la slandra "
"Luigi?"
"Slandra?"
Il resto della conversazione si perse nel rumore del traffico di Milano. Ma dalle espressioni dei loro volti intuii che le cose che si dissero non erano certamente in tono con gli insegnamenti di Lina Sotis. Udii però, distintamente, un vaff... Secco. Conciso. Detto all'unisono. Un duetto perfettamente riuscito.

ROMOLETTO E TOPO GIGIO

Succede che i dirigenti di carcere affermino che Romoletto è matto.
E Romoletto gioca a fare il matto, e con la scusa che è matto fa veramente il matto e li fa ammattire tutti. Intendo dire i secondini, "i nostri operatori", come direbbe il direttore di Porto Azzurro. I "superiori", come amano farsi chiamare gli sbirri a loro volta carcerati (ma di loro libera iniziativa). Tanto per non fraintendere.
Noi che conosciamo il gioco di Romoletto, per averlo fatto a sua volta anche noi, non ci spaventiamo affatto delle sue stranezze, anche perché siamo suoi amici e sappiamo che proprio matto non è, il Romoletto. Tanto per ricordare: una volta, al San Francesco di Parma, Romoletto riuscì ad acchiappare un secondino e così ridendo proprio come dicono i "matti" ridono, cioè senza nessun motivo apparente, cominciò ad insultarlo pesantemente e con dovizia di particolari su genitori, passato, figli e mogli e cose così, un po' come si fa con gli arbitri nei momenti di maggiore creatività, od emozione, e la guardia a sua volta prigioniera si spaventò; e riuscì a divincolarsi, e non pensò manco ad incazzarsi, ed infatti non poteva incazzarsi perché era sul terrorizzato. Dico che la guardia riuscì a svignarsela e sempre il Romoletto dietro che la inseguiva ridendo rumorosamente; un inseguimento senza nessuna convinzione. Lo faceva così, tanto per variare il solito menù: da tutta una vita che faceva la parte della lepre inseguita. Mi pare giusto che ogni tanto cambiasse di ruolo. Che diventasse lui l'inseguitore. O no? Vero è che ogni tanto, durante l'inseguimento, si buttava per terra e si contorceva dalle risa. Va da sé che la guardia arrivò trafelata al più vicino campanello e azionò l'allarme. E compatto, a passo di carica, apparì il battaglione dei corpulenti. La squadretta. E raccattarono il mio amico Romoletto che non smise manco per un attimo di ridere. E sì che lo menarono ferocemente con calci e pugni e colpi sui fianchi e calci nei coglioni e lui rideva sempre più forte. E lo trasportarono di peso alle celle di punizione e il capo picchiatore gli urlò che basta carogna non ridere più, se continui a ridere ti metto in balilla, ma lui continuando a ridere sussultando dal ridere disse che non poteva andare in balilla, lui, perché era senza patente, e la barzelletta era così scema, ma così scema, che al sentirla raccontare, nel tempo, da lui, che al ricordo rideva, risi anch'io.
Quando arrivò al manicomio fu messo in cella con altri "matti".
Pazientemente si costruì il giaciglio e si mise a letto. Ma non riusciva ad addormentarsi. Pensieri, forse. O forse non si abituava da subito al nuovo letto. Fatto sta che Romoletto senti dei rumori, come dei fruscii, e si guardò in giro. Ma tutto era immobile: letti, sedie, tavolini, prigionieri. Guardò sotto il letto e notò un furtivo movimento. Osservò con più attenzione finché Scoprì un topetto. Mosse lentamente il braccio verso la bestiola che intuì un qualche cosa, tantevvero che si immobilizzò e giusto in quel momento, zac, fu acchiappata dalla mano del Romoletto. Lo acchiappò con gesto brusco il topino si fece piccolo piccolo per quanto gli era possibile perché era già minuscolo e allora la mano di Romoletto si fece morbida e il palmo della mano di Romoletto divenne tiepido incavo per la bestiola che, dapprima tremante, infine si acquietò. Romoletto afferma che lo carezzò sul cüpín, afferma anche che il topo fece le fusa, ma forse era preso dal gusto di raccontare e esagerò un pochino. Ma lui precisa anche nei particolari, come si fa sempre in certi casi: dice che gli parlò, a lungo, finché il topo si addormentò. Precisa che il topo si addormentò prima di lui.
"... Andem, Rümülétt, prigionieri che raccontano le fiabe ai topi per farli addormentare... andem, Rümülétt, mica sono dei bambini, i topi ... ".
E il topo crebbe e diventò un topone grigio. Voglio dire che si fece adulto. Silenzioso spariva e riappariva. Le guardie ne erano terrorizzate. I gatti facevano finta di niente. Perché i gatti allevati dai prigionieri vengono così tanto vezzeggiati che fanno schifo, poi, e perdono le loro naturali doti di cacciatori... lo vuoi il dolcino? su, vieni qui... e i gatti dormono con i prigionieri, vanno tranquillamente a letto con loro... un gattone amico mio, con una capoccia grande così, si chiamava Rebigo (nome di una antica maschera genovese), aspettava pazientemente che andassi a letto per poi infilarsi sotto le coperte, fino in fondo, giusto sui piedi e roon roon placidamente si addormentava.
E quando il tempo era gelido per me Rebigo si trasformava come fosse una borsa d'acqua calda e mi scaldava i piedi. Una cosa! sensazione deliziosa. Pare che la cosa andasse bene anche a lui visto che non reclamava proprio per niente.
Nemmeno quando mi voltavo e cambiavo di posizione... al mattino se ne fuoriusciva e: una scrollatina, qualche leccatina qui e là, sleccava il latte che gli avanzavo e che comunque gli era dovuto per poi sparire in cerca di amici. Suppongo. Riappariva a pranzo...
Erano troppo vezzeggiati i miei così che avevano perso i loro naturali istinti battaglieri. Vero è che il topo grigio crebbe tra i gatti senza porsi nessun dilemma. Ed anche lui divenne un abitudinario. Affezionatissimo al mio amico Romoletto. Ma ogni tanto anche lui partiva in esplorazione. E il topo crebbe. Fin troppo in fretta. Lo vedevo simpatico, ma a volte anche sul mostruoso.
Beh, successe che, nel tempo, il topo non fu più sopportato. Non dico da noi "matti", non dico dai gatti. Dico dagli "operatori interni all'istituto". Leggi secondini. Decisero così di eliminarlo. Scelsero il momento in cui Romoletto stava usufruendo del suo turno di aria. Scovarono il topo e presero a colpirlo con le scope. Il topo, penso, non abituato alle percosse, non si capacitò sul principio di quel trattamento per lui incomprensibile. In vita sua non era mai stato colpito e per lui fu una cosa nuova e dolorosa. Arcaici ricordi lo aiutarono ben presto ad essere padrone della situazione, vero è che riuscì a fuggire trovando da subito un buco nel muro in cui si nascose. Ma era un foro senza uscita e la punta dei bastoni lo inseguirono fin là dentro e non si sa come riuscì a sopravvivere a quelle tremende punzonate.
E in quel momento culminante della caccia Romoletto terminò l'aria e rientrando in cella vide del movimento di gente concitata che gridava e si dimenava e gesticolava. Incuriosito si avvicinò e da subito capi. Allora fece sul serio il matto e urlando piombò in mezzo alla calca e le guardie al vederlo infuriato fuggirono. Romoletto chiamava Ciccio il suo topaccio grigio. E cominciò a chiamarlo a gran voce: "Ciccio, vieni qui, Ciccietto bello ... ". Ma il Ciccio, nisba. Niente. Allora Romoletto mise la mano dentro il buco, voleva prenderlo per poi, carezzandolo, calmarlo. E fu in quel momento che il topo lo azzannò. E il Romoletto ritirò fuori il braccio e noi inorridimmo al vedere quel topaccio grigio tenacemente attaccato con le zanne alla mano del Romoletto.
Ma io non voglio commuovere nessuno. Con storie di topi e di prigionieri "matt", poi... anche se è vero che il mio amico Romoletto con l'altra mano prese ad accarezzarlo, con delicatezza, finché il topo ebbe un sussulto e si immobilizzò. Morto stecchito. Dicono che le zanne dei topi non bucano la pelle perché elastiche. Balle. lo sono certo del contrario. Bene, Romoletto guardò il topo morto e poi fece leva con le dita nella bocca del topo finché il topo cadde per terra. Ricordo Romoletto triste, lui che rideva sempre. Ricordo Rebigo che sbirciò noncurante il topo e con la zampetta lo rivoltò con delicatezza. Ma per tornare alla normalità, voglio dire che la morte del suo amico topo non creò nessun problema a Romoletto.
Non credo. Era abituato a cose ben peggiori. Per esempio, un peggio di questo tipo: al mattino, al risveglio, Romoletto si accorse che il braccio gli si era gonfiato, e con questo la mano, e che avevano assunto, mano e braccio, colore violetto sul blu. A mezzogiorno era sul nero sporco. Alla sera fu ricoverato d'urgenza al centro clinico.
...e Romoletto acquistò il suo solito umore. Voglio dire: ricominciò a ridere...


"Quando c'era, era bello Eraclito; ma dopo la giovinezza, una cortina dichiara guerra a chi l'attacca di dietro. Pensaci, figlio di Polisseno, e non essere troppo orgoglioso: ricorda che anche sul culo fiorisce la Nemesi."
(Antologia Palatina)

NEL SALENTO, EVOCANDO DIONISO...

... Lecce. E' sera. In attesa che l'invocazione a Dioniso, con l'evocazione d'obbligo, produca una sua visione. Il Salento: terra amata.
Così ne approfittò. Vuoi vedere che il solstizio d'estate?... Così pensò. Chiese quattro rose alla fioraia, lì, all'angolo della piazza, e la fioraia gli rispose chennò, quattro rose non gliele do. Poi giustificò il suo rifiuto adducendo quanto segue: "quattro rose stanno a significare sangue, morte con funerale. Meglio che lei acquisti cinque rose". E lui chiese alla fioraia, che conosceva così bene il linguaggio, anzi, il messaggio delle rose, quanto costasse una rosa. E la fioraia immediatamente lo ragguagliò: "costano cinquemila lire l'una. Cadauna". "Ma" -aggiunse - "cinque rose stanno a significare la fine di ogni illusione. 0 speranze. Le darò sette rose". "E sette rose che dicono?", chiese lui, via via più curioso. "Sette è il numero perfetto, no? Biblico. Esclusa la sventura porta quasi sempre bene". Così parlò la fioraia, e, incurante delle palesi contraddizioni insite nella sua affermazione, aggiunse, a mo' di consolazione: "in tutto fa trentacinquemila lire". Fu così che acquistò sette rose rosse.
Le porte del Castello Carlo V si spalancarono. Giunsero le prime note di scatenate musiche salentine, albanesi, grecaniche, suonate dai contadini di Cutrofiano. Il poeta Antonio Verri recitò suoi bellissimi versi. I cantanti fecero del loro meglio per piacere. Una danzatrice derviscia (ma di origine laziale) volteggiò vorticosamente su se stessa, sferzando, con un lungo e nodoso rosario che le cingeva il corpo, i volti degli spettatori di prima fila. Poi cadde di schianto. Dissero che era in trance. Ma io ebbi qualche dubbio, sulla sua trance, perché la ragazza, che poi era romana, al contatto con la ruvida pavimentazione del castello gridò subito ahia, li mort... soffregandosi un gomito ammaccato. Era seduta per terra, la testa china, i lunghi capelli corvini che le coprivano parte del volto, le gambe incrociate coperte da una lunga veste che immaginai di seta. Va bè, tenerezze. Marta, innamorata non corrisposta di Esther che amava Maddalena, bevve vino, si inebriò e pianse limpide e fredde lacrime. Rita, con un abito bianco, si denudò per lui, che se ne ebbe molto a male e mollò seduta stante Rita chiamandola scostumata. Ed anche puttana. Anna Maria teneva per mano il suo Fabio e ambedue sorridevano. A loro, di Dioniso, non gliene fregava proprio niente. Claudia recitò versi in aramaico antico, ma forse era inglese moderno. Comunque incomprensibili. Maria Ida mi donò una rosa rossa. Poi tutto finì.
Fuori la luna era piena e splendeva in tutto il suo "fulgore". Come solo nel Salento succede. E lui donò rose a destra e a manca.
Mi ero scordato di dire che lui è un fuggitivo. Un uomo perennemente in corsa. Si fermò un momento. Per udire un po' di poesia. Per riposarsi. Si guardò intorno. E decise di riprendere la sua corsa.


" Una ragazza mi ha dato un bacio di sera, con le labbra umide. Era nettare il bacio (la bocca stillava nettare), e mi ha ubriacato il bacio, a lunghi sorsi ho bevuto l'amore"
(Antologia Palatina, un best-seller)


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