LA
MADRE (I)
Achtung-achtung,
urlarono gli altoparlanti sparsi nel collegio. Poi udì le sirene.
Indi: swaaamm, swaaammm ùùùaaùhhhhh, sfrecciarono
gli aeroplani, sganciarono le bombe, le mitragliatrici fecero fuoco
senza beccare un aereo e tutti, lui escluso, si avviarono di corsa
verso le cantine. A rifugi. E il ragazzo, che di ragazzo si trattava,
approfittò di quella insperata occasione per fuggire dal collegio.
Vagò per la città deserta. Ogni tanto crollava qualche
muro, o facciate, di casa o di palazzo. Udiva delle urla che motto
spesso erano grida di aiuto. Vide apparire, come d'incanto, gli interni
delle case con le loro stanze. Vide anche una stanza da bagno con
una donne sdraiata nella vasca. La testa e Il braccio abbandonati
lungo il bordo. E i capelli che scendevano sparpagliandosi fin sul
pavimento. A lui andò di pensare che la donna fosse svenuta
dallo spavento preso.
Proseguì nel suo cammino vagando tra le macerie fino a che
raggiunse il Banco di Roma. Lui sapeva che lì ci stava un rifugio.
Sapeva anche che nel rifugio avrebbe trovato sua madre. Suonarono
di nuovo le sirene. Era il segnale di cessato allarme. Qualche casetta
era crollate, lì, alle Cinque Vie. Ed anche la casa di sua
madre era stata centrata da una bombetta.
Si trattava di quella casa situata In via Bocchetto, al numero 9,
giusto di fronte alla Banca. Completamente andate. Il tetto crollato.
Il ragazzo incontrò sua madre, dicevo, e la madre lo vide e
lo guardò corrucciata e gli disse: "ma che cazzo ci fai
qui? non dovevi essere in collegio? adesso che faccio? sono senza
casa e con te in sopramercato". E quel ragazzo la guardò
stupito. E rimpianse il collegio.
LA MADRE (II)
Il cane dei Gusmaroli
era un misto di "snauzer" e barboncino. Il gatto dei Brandi
era un misto di tutti i gatti di questo mondo. I Brancher invece avevano
un figliolo. Che non era una bestia, è vero, ma che amava sia
il gatto dei Brandi che il cagnetto dei Gusmaroli. Sono stato chiaro?
Le bestie presero possesso delle rispettive dimore che ancora erano
in tenera età. Dunque, niente rivalità. Addirittura
si amavano. Non era raro il caso di beccare i due mentre si scambiavano
tenerezze tipo annusatine e slinguate interminabili.
Il cagnetto, quando mi vedeva, cadeva in deliquio pisciando a dirotto,
inondando così, non solo il pianerottolo, ma tutti i pianerottoli
sottostanti. Il gattino addirittura mi saltava in braccio e mi annusava
le orecchie. E' anche vero che io facevo del mio meglio per arruffianarmi
loro, come dire che gli rifilavo, a volte, leccornie a base di dolciumi.
E quando il cane faceva pipì la signora Gusmaroli usciva con
uno straccio e puliva pazientemente il tutto.
Non prima, però, di avermi lanciato uno sguardo tra il riprovevole
e lo scherzoso. Sorridente, tutto sommato. E quando il gatto rifiutava
di mangiare quel che la sua padrona gli passava, allora la signora
Brandi, quando mi incontrava, mi guardava sorridente, ma anche con
un po' di rimprovero. Volevo molto bene a tutti quanti. Dalla Brandi,
alla Gusmaroli. Dal cane, al gatto.
Ecco, poi successe che io entrai a San Vittore. Dentro, in galera.
Ci "stetti" per un po' di tempo. Quasi un anno. E poi uscii
di nuovo in libertà. Va bene così. E sul pianerottolo
di casa incontrai il mio amico cane il quale, appena mi vide, questa
volta abbaiò forte e in più, tanto per cambiare, se
la fece sotto un'altra volta. Più lunga del solito, sì
che la pipì arrivò fino a pianterreno. Apparve anche
il gatto che mi vide e mi saltò sulle braccia. E, al solito,
mi annusò le orecchie; poi posò quella capoccia vellutata
sul mio collo e tranquillamente cominciò a fare le fusa. Cose
così. Poi apparvero, contemporaneamente, la Gusmaroli e la
Brandi. Che mi videro, sorrisero. Un sorriso un po' di rimprovero
e un po' di simpatia. Poi apparve anche mia madre che appena mi vide
disse: "tel ghi, el me fiò, ti hanno già mollato?".
E fu giusto in quel momento che capii che volevo più bene al
cagnetto, al gatto. Alla sciüra Brandi, alla sciüra Gusmaroli.
Più che a mia madre.
LA MADRE (III)
Abitavo alla Ripa.
Al 19. E le finestre della casa davano sul Naviglio. Il cesso si trovava
sul ballatoio. Compreso il lavandino.
La poesia della ringhiera. Una gran cazzata. A me piaceva alzarmi
presto al mattino, socchiudere le finestre, e occhieggiare nella via,
sul corso d'acqua e vedere arrivare da lontano i barconi trainati
da quei grandi cavalli quasi sempre di colore bianco.
Bello quando c'era la nebbia e i barconi che sffuiifff apparivano
come d'incanto.
E troc troc troc la cadenza degli zoccoli duri dei cavalli trainanti.
Ed era proprio quel troc troc a dare la sveglia alla Ripa. Si accendeva
qualche luce, si vedeva il tremolio di qualche candela, e subito veniva
fame perché si sentiva il profumo del pane fresco che invadeva
strade e caseggiati. E alura, alé, via in cucina a preparare
le fette di lardo, le quali, spalmate sul pane... e va bene, il discorso
è un altro, che inevitabilmente, e questo succedeva da un po'
di tempo, il cavallo si fermava giusto davanti al 19, il barcone si
immobilizzava e scendeva un tipo alto e magro con qualche pacchetto
appresso che da subito scopersi come contenente dei viveri di prima
necessità: tipo: salumi, formaggi, carni, pollami.
Per non dire delle uova. E quell'uomo saliva le scale e appariva,
arrogante e sicuro di sé, davanti a mia madre che lo accoglieva
sempre in modo caloroso, e genuinamente sincero. A braccia aperte.
Notavo che era più affettuosa con lui che con me. Ma capii
che non era il caso di sottilizzare, anche se una volta glielo dissi,
a mia madre, che non mi andava vederla fare tutte quelle smancerie
ad un uomo che io vedevo come un gran pirla, e mia madre mi rispose
che la differenza tra me e lui era enorme, ovvero: lui portava da
mangiare. E io invece mangiavo ciò che lui portava. Grande
madre mia. E' sempre stata una sua specialità presentare le
cose con chiarezza. Ed era giusto in quel momento che io dovevo abbandonare
la casa. Scendevo dal prestiné e mi mangiavo qualche veneziana.
Poi risalivo in casa. Ma sempre dopo che il barcone era ripartito.
E sssciuuiff, e troc troc, e va'e vaffanculo, vivandiere di merda.
LA MADRE (IV)
Mi piace ricordare
quella santa donna di mia madre. Come mi piace ricordare il venendì
di noi poveri che era detto giorno di magro perché la Chiesa
ci proibiva di mangiare carne. Il fatto è che la carne noi
la vedevamo solo nelle feste grandi, bene che ci andava, naturalmente;
ma nulla toglie alla magia del venerdì, giorno di magro. Almeno
avevamo una scusa ufficiale per non mangiare carne. Mia madre, soprattutto
di venerdì, non perdeva occasione di magnificarmi la bellezza
del vivere soli. Tutto questo per invogliarmi a mollare la casa e
andare a vivere da qualche altra parte. Dicevo della Ripa. Successe
che per un breve periodo di tempo, il venerdì, da giorno di
magro si trasformò in giorno di grasso. In giorno di crapula.
Insomma, successe che mia madre riuscì a conoscere un personaggio
leggendario per quei tempi, addirittura un contrabbandiere di carne.
Si portava sempre appresso la figlia che aveva la mia età.
E succedeva anche che, quando mia madre si appartava per confidenze
varie con il contrabbandiere gioviale, io rimanevo solo con sua figlia.
E non ci guardavamo neppure negli occhi, finché lei una volta
mi disse che lei sapeva come si faceva. "Faceva cosa?" -
chiesi - e lei arrossì ed io capii tutto. Infatti fu il mio
primo amore. E quella volta il carnaiolo fini un po' più presto
del solito e ci scoprì mentre la sua figliola mi stava insegnando
come si faceva a fare quella cosa li, e, visto che io ero un po' tardo
di comprendonio, le lezioni dovevano essere ripetute tante volte.
E il papà rise. E anche la mamma rise. E poi il papà
se ne andò via. E la madre mi guardò fisso negli occhi
e mi chiese: "quando vi sposerete? presto, eh? così prendi
casa e ti fai anche tu una famiglia". E mi guardò fisso
negli occhi. Ricambiai, stupito, lo sguardo. Perché quel giorno
non cadeva di venerdì.
LA MADRE (V)
Successe che quel
ragazzo, passeggiando per la Galleria Vittorio Emanuele, improvvisamente
piombò a terra e non si mosse più.
Non era morto anche se lo sembrava. Cereo in viso, senza manco un
battere di ciglia. Immobile. Una roba da fare spavento. Ma lui lo
spavento lo provò sul serio quando udì dire da un tale:
"questo qui è morto". Avrebbe voluto urlare che era
vivo. Che udiva tutto. Che sentiva tutto. Che il cuore era ancora
in funzione anche se il battito lo sentiva solo lui. Mille cose avrebbe
voluto dire, ma soprattutto desiderava fare gli scongiuri perché
era assai superstizioso. E con raccapriccio pensò: "te
voret vidé che mi seppelliscono vivo?". E, memore di letture
fresche fresche della sua amata Carolina Invernizio, oltre che rabbrividire,
pianse. E di certo furono le lacrime a salvarlo. Chi dice che la cultura
non serve a nulla? Pianse, dicevo, calde lacrime e le lacrime furono
notate da una donna che gridò: "el fiò l'è
minga ancamò mort perché, lo vedete?, sta piangendo.
Avete mai visto piangere un morto?".
E va bene così: pensò anche a sua madre e sorrise dentro
di sé. Finalmente si era liberata di 'sto figlio suo che tanto
la preoccupava. Poi vennero quelli dell'ambulanza. Croce Verde. Lo
caricarono e via, sirena e tutto, di corsa a Niguarda. Dove lo guardarono
attentamente negli occhi. Gli fecero una iniezione che ebbe il potere
di risvegliarlo subito. Poi gli fecero anche un clistere. Poi apparve
sua madre. Sì, ecco, è vero, la vide pallida. E la madre
lo tastò da tutte le parti. Lo pizzicò, anche. E, credere
e non credere, riuscì anche ad annusarlo. Poi la madre sorrise.
E gli disse che se voleva tornare a casa quella sera si sarebbe mangiato
bene. E com'era venuta se ne andò via. E lui pensò che
è vero che alla fine non tutti i mali vengono per nuocere.
DUETTO
"Tò?
chi si vede, Sandra. Ciao, Sandra."
"Ma che bella sorpresa, il mio amico Luigi. Ciao, Luigi."
"Tesoro della mia Sandra. Ma che ci facevi a Londra?"
"Mai stata a Londra. Ma tu, Luigi, non eri a Parigi?"
"Non mi sono mai mosso da Milano. E che c'entra Parigi?"
"C'entra molto, anche perché Parigi fa rima con Luigi."
"Non mi dire! Però anche Sandra fa rima con Londra."
"Sì, è vero, però con Parigi fa rima anche
Gigi."
"E va bene. Toccato. Ma con Londra fa rima anche slandra."
"Slandra? Come termine mi giunge nuovo. Che significa?"
"Slandra significa donna brutta, sciattona, volgare, a volte,
lo si rifila anche alle puttane. Risposta giusta?"
"Senti questa nenia, me la cantava la nonna per farmi addormentare:
"Oh Gigi verme, oh venne Gigi, ma lo sai che tu stai meglio nelle
mele che a Parigi?" ti va? ti suona bene?"
"Sandra, maledizione, ci incontriamo e ci insultiamo, ma perché?"
"Perché io non mi chiamo Sandra."
"Ma neppure io mi chiamo Luigi. "
"Ed allora perché mi hai detto se ero stata a Londra?"
"Così, per dire. Sei bella ed ho attaccato bottone, però
tu mi hai dato corda, dicendo che mi chiamavo Luigi, e tirando in
ballo Parigi che è una città che non mi piace. "
"Neppure a me piace Londra. Comunque, slandra non te la perdonerò
mai. Vivessi cent'anni."
"Bè, cent'anni sono tanti. Incominciamo a perdonarci fin
da adesso? Io ti perdono subito il verme Gigi."
"Ed io ti tengo ancora il muso. Va bene. Dove andiamo?"
"A casa mia, no? Ho una bellissima collezione di cartoline "
"Alt, fermo lì, questa l'ho già sentita dire da
qualche parte "
"Cosa hai sentito dire?"
"Della collezione."
"Ah, già, si, come, ovvero, non so, voglio dire "
"Va bè, va bè, ho capito, andiamo a casa tua. Dove
abiti?"
"In via dei Cinquecento, al Corvetto, in una casa popolare "
"AI Corvetto? in una casa popolare? Scusa, sai, ma ho da fare"
"Da fare cosa? Ma dove vuoi andare?"
"Me ne vado via da Milano. Andrò a Parigi. Ma senza il
verme Gigi."
"Ah ssiii? Ed io che pensavo che te ne saresti ritornata a Londra
a fare la slandra "
"Luigi?"
"Slandra?"
Il resto della conversazione si perse nel rumore del traffico di Milano.
Ma dalle espressioni dei loro volti intuii che le cose che si dissero
non erano certamente in tono con gli insegnamenti di Lina Sotis. Udii
però, distintamente, un vaff... Secco. Conciso. Detto all'unisono.
Un duetto perfettamente riuscito.
ROMOLETTO E TOPO
GIGIO
Succede che i
dirigenti di carcere affermino che Romoletto è matto.
E Romoletto gioca a fare il matto, e con la scusa che è matto
fa veramente il matto e li fa ammattire tutti. Intendo dire i secondini,
"i nostri operatori", come direbbe il direttore di Porto
Azzurro. I "superiori", come amano farsi chiamare gli sbirri
a loro volta carcerati (ma di loro libera iniziativa). Tanto per non
fraintendere.
Noi che conosciamo il gioco di Romoletto, per averlo fatto a sua volta
anche noi, non ci spaventiamo affatto delle sue stranezze, anche perché
siamo suoi amici e sappiamo che proprio matto non è, il Romoletto.
Tanto per ricordare: una volta, al San Francesco di Parma, Romoletto
riuscì ad acchiappare un secondino e così ridendo proprio
come dicono i "matti" ridono, cioè senza nessun motivo
apparente, cominciò ad insultarlo pesantemente e con dovizia
di particolari su genitori, passato, figli e mogli e cose così,
un po' come si fa con gli arbitri nei momenti di maggiore creatività,
od emozione, e la guardia a sua volta prigioniera si spaventò;
e riuscì a divincolarsi, e non pensò manco ad incazzarsi,
ed infatti non poteva incazzarsi perché era sul terrorizzato.
Dico che la guardia riuscì a svignarsela e sempre il Romoletto
dietro che la inseguiva ridendo rumorosamente; un inseguimento senza
nessuna convinzione. Lo faceva così, tanto per variare il solito
menù: da tutta una vita che faceva la parte della lepre inseguita.
Mi pare giusto che ogni tanto cambiasse di ruolo. Che diventasse lui
l'inseguitore. O no? Vero è che ogni tanto, durante l'inseguimento,
si buttava per terra e si contorceva dalle risa. Va da sé che
la guardia arrivò trafelata al più vicino campanello
e azionò l'allarme. E compatto, a passo di carica, apparì
il battaglione dei corpulenti. La squadretta. E raccattarono il mio
amico Romoletto che non smise manco per un attimo di ridere. E sì
che lo menarono ferocemente con calci e pugni e colpi sui fianchi
e calci nei coglioni e lui rideva sempre più forte. E lo trasportarono
di peso alle celle di punizione e il capo picchiatore gli urlò
che basta carogna non ridere più, se continui a ridere ti metto
in balilla, ma lui continuando a ridere sussultando dal ridere disse
che non poteva andare in balilla, lui, perché era senza patente,
e la barzelletta era così scema, ma così scema, che
al sentirla raccontare, nel tempo, da lui, che al ricordo rideva,
risi anch'io.
Quando arrivò al manicomio fu messo in cella con altri "matti".
Pazientemente si costruì il giaciglio e si mise a letto. Ma
non riusciva ad addormentarsi. Pensieri, forse. O forse non si abituava
da subito al nuovo letto. Fatto sta che Romoletto senti dei rumori,
come dei fruscii, e si guardò in giro. Ma tutto era immobile:
letti, sedie, tavolini, prigionieri. Guardò sotto il letto
e notò un furtivo movimento. Osservò con più
attenzione finché Scoprì un topetto. Mosse lentamente
il braccio verso la bestiola che intuì un qualche cosa, tantevvero
che si immobilizzò e giusto in quel momento, zac, fu acchiappata
dalla mano del Romoletto. Lo acchiappò con gesto brusco il
topino si fece piccolo piccolo per quanto gli era possibile perché
era già minuscolo e allora la mano di Romoletto si fece morbida
e il palmo della mano di Romoletto divenne tiepido incavo per la bestiola
che, dapprima tremante, infine si acquietò. Romoletto afferma
che lo carezzò sul cüpín, afferma anche che il
topo fece le fusa, ma forse era preso dal gusto di raccontare e esagerò
un pochino. Ma lui precisa anche nei particolari, come si fa sempre
in certi casi: dice che gli parlò, a lungo, finché il
topo si addormentò. Precisa che il topo si addormentò
prima di lui.
"... Andem, Rümülétt, prigionieri che raccontano
le fiabe ai topi per farli addormentare... andem, Rümülétt,
mica sono dei bambini, i topi ... ".
E il topo crebbe e diventò un topone grigio. Voglio dire che
si fece adulto. Silenzioso spariva e riappariva. Le guardie ne erano
terrorizzate. I gatti facevano finta di niente. Perché i gatti
allevati dai prigionieri vengono così tanto vezzeggiati che
fanno schifo, poi, e perdono le loro naturali doti di cacciatori...
lo vuoi il dolcino? su, vieni qui... e i gatti dormono con i prigionieri,
vanno tranquillamente a letto con loro... un gattone amico mio, con
una capoccia grande così, si chiamava Rebigo (nome di una antica
maschera genovese), aspettava pazientemente che andassi a letto per
poi infilarsi sotto le coperte, fino in fondo, giusto sui piedi e
roon roon placidamente si addormentava.
E quando il tempo era gelido per me Rebigo si trasformava come fosse
una borsa d'acqua calda e mi scaldava i piedi. Una cosa! sensazione
deliziosa. Pare che la cosa andasse bene anche a lui visto che non
reclamava proprio per niente.
Nemmeno quando mi voltavo e cambiavo di posizione... al mattino se
ne fuoriusciva e: una scrollatina, qualche leccatina qui e là,
sleccava il latte che gli avanzavo e che comunque gli era dovuto per
poi sparire in cerca di amici. Suppongo. Riappariva a pranzo...
Erano troppo vezzeggiati i miei così che avevano perso i loro
naturali istinti battaglieri. Vero è che il topo grigio crebbe
tra i gatti senza porsi nessun dilemma. Ed anche lui divenne un abitudinario.
Affezionatissimo al mio amico Romoletto. Ma ogni tanto anche lui partiva
in esplorazione. E il topo crebbe. Fin troppo in fretta. Lo vedevo
simpatico, ma a volte anche sul mostruoso.
Beh, successe che, nel tempo, il topo non fu più sopportato.
Non dico da noi "matti", non dico dai gatti. Dico dagli
"operatori interni all'istituto". Leggi secondini. Decisero
così di eliminarlo. Scelsero il momento in cui Romoletto stava
usufruendo del suo turno di aria. Scovarono il topo e presero a colpirlo
con le scope. Il topo, penso, non abituato alle percosse, non si capacitò
sul principio di quel trattamento per lui incomprensibile. In vita
sua non era mai stato colpito e per lui fu una cosa nuova e dolorosa.
Arcaici ricordi lo aiutarono ben presto ad essere padrone della situazione,
vero è che riuscì a fuggire trovando da subito un buco
nel muro in cui si nascose. Ma era un foro senza uscita e la punta
dei bastoni lo inseguirono fin là dentro e non si sa come riuscì
a sopravvivere a quelle tremende punzonate.
E in quel momento culminante della caccia Romoletto terminò
l'aria e rientrando in cella vide del movimento di gente concitata
che gridava e si dimenava e gesticolava. Incuriosito si avvicinò
e da subito capi. Allora fece sul serio il matto e urlando piombò
in mezzo alla calca e le guardie al vederlo infuriato fuggirono. Romoletto
chiamava Ciccio il suo topaccio grigio. E cominciò a chiamarlo
a gran voce: "Ciccio, vieni qui, Ciccietto bello ... ".
Ma il Ciccio, nisba. Niente. Allora Romoletto mise la mano dentro
il buco, voleva prenderlo per poi, carezzandolo, calmarlo. E fu in
quel momento che il topo lo azzannò. E il Romoletto ritirò
fuori il braccio e noi inorridimmo al vedere quel topaccio grigio
tenacemente attaccato con le zanne alla mano del Romoletto.
Ma io non voglio commuovere nessuno. Con storie di topi e di prigionieri
"matt", poi... anche se è vero che il mio amico Romoletto
con l'altra mano prese ad accarezzarlo, con delicatezza, finché
il topo ebbe un sussulto e si immobilizzò. Morto stecchito.
Dicono che le zanne dei topi non bucano la pelle perché elastiche.
Balle. lo sono certo del contrario. Bene, Romoletto guardò
il topo morto e poi fece leva con le dita nella bocca del topo finché
il topo cadde per terra. Ricordo Romoletto triste, lui che rideva
sempre. Ricordo Rebigo che sbirciò noncurante il topo e con
la zampetta lo rivoltò con delicatezza. Ma per tornare alla
normalità, voglio dire che la morte del suo amico topo non
creò nessun problema a Romoletto.
Non credo. Era abituato a cose ben peggiori. Per esempio, un peggio
di questo tipo: al mattino, al risveglio, Romoletto si accorse che
il braccio gli si era gonfiato, e con questo la mano, e che avevano
assunto, mano e braccio, colore violetto sul blu. A mezzogiorno era
sul nero sporco. Alla sera fu ricoverato d'urgenza al centro clinico.
...e Romoletto acquistò il suo solito umore. Voglio dire: ricominciò
a ridere...
"Quando c'era, era bello Eraclito; ma dopo la giovinezza,
una cortina dichiara guerra a chi l'attacca di dietro. Pensaci, figlio
di Polisseno, e non essere troppo orgoglioso: ricorda che anche sul
culo fiorisce la Nemesi."
(Antologia Palatina)
NEL SALENTO, EVOCANDO
DIONISO...
... Lecce. E'
sera. In attesa che l'invocazione a Dioniso, con l'evocazione d'obbligo,
produca una sua visione. Il Salento: terra amata.
Così ne approfittò. Vuoi vedere che il solstizio d'estate?...
Così pensò. Chiese quattro rose alla fioraia, lì,
all'angolo della piazza, e la fioraia gli rispose chennò, quattro
rose non gliele do. Poi giustificò il suo rifiuto adducendo
quanto segue: "quattro rose stanno a significare sangue, morte
con funerale. Meglio che lei acquisti cinque rose". E lui chiese
alla fioraia, che conosceva così bene il linguaggio, anzi,
il messaggio delle rose, quanto costasse una rosa. E la fioraia immediatamente
lo ragguagliò: "costano cinquemila lire l'una. Cadauna".
"Ma" -aggiunse - "cinque rose stanno a significare
la fine di ogni illusione. 0 speranze. Le darò sette rose".
"E sette rose che dicono?", chiese lui, via via più
curioso. "Sette è il numero perfetto, no? Biblico. Esclusa
la sventura porta quasi sempre bene". Così parlò
la fioraia, e, incurante delle palesi contraddizioni insite nella
sua affermazione, aggiunse, a mo' di consolazione: "in tutto
fa trentacinquemila lire". Fu così che acquistò
sette rose rosse.
Le porte del Castello Carlo V si spalancarono. Giunsero le prime note
di scatenate musiche salentine, albanesi, grecaniche, suonate dai
contadini di Cutrofiano. Il poeta Antonio Verri recitò suoi
bellissimi versi. I cantanti fecero del loro meglio per piacere. Una
danzatrice derviscia (ma di origine laziale) volteggiò vorticosamente
su se stessa, sferzando, con un lungo e nodoso rosario che le cingeva
il corpo, i volti degli spettatori di prima fila. Poi cadde di schianto.
Dissero che era in trance. Ma io ebbi qualche dubbio, sulla sua trance,
perché la ragazza, che poi era romana, al contatto con la ruvida
pavimentazione del castello gridò subito ahia, li mort... soffregandosi
un gomito ammaccato. Era seduta per terra, la testa china, i lunghi
capelli corvini che le coprivano parte del volto, le gambe incrociate
coperte da una lunga veste che immaginai di seta. Va bè, tenerezze.
Marta, innamorata non corrisposta di Esther che amava Maddalena, bevve
vino, si inebriò e pianse limpide e fredde lacrime. Rita, con
un abito bianco, si denudò per lui, che se ne ebbe molto a
male e mollò seduta stante Rita chiamandola scostumata. Ed
anche puttana. Anna Maria teneva per mano il suo Fabio e ambedue sorridevano.
A loro, di Dioniso, non gliene fregava proprio niente. Claudia recitò
versi in aramaico antico, ma forse era inglese moderno. Comunque incomprensibili.
Maria Ida mi donò una rosa rossa. Poi tutto finì.
Fuori la luna era piena e splendeva in tutto il suo "fulgore".
Come solo nel Salento succede. E lui donò rose a destra e a
manca.
Mi ero scordato di dire che lui è un fuggitivo. Un uomo perennemente
in corsa. Si fermò un momento. Per udire un po' di poesia.
Per riposarsi. Si guardò intorno. E decise di riprendere la
sua corsa.
" Una ragazza mi ha dato un bacio di sera, con le labbra umide.
Era nettare il bacio (la bocca stillava nettare), e mi ha ubriacato
il bacio, a lunghi sorsi ho bevuto l'amore"
(Antologia Palatina, un best-seller)