§ Stati in frantumi / La politica del domino

Europa delle cento tribł




Alain Touraine



Non ci si stupisca di vedere un'Europa, che si unifica sul piano economico, frammentarsi su quello politico e persino sotto il profilo culturale; non si denunci troppo in fretta l'Europa delle tribù che contraddirebbe la globalizzazione, l'internazionalizzazione di tanti fenomeni sociali, economici e culturali. Perché le due evoluzioni, apparentemente contraddittorie, in realtà sono complementari.
Avevamo degli Stati nazionali, costruiti nel corso degli ultimi secoli molto presto nel caso della Gran Bretagna, della Francia, della Spagna e persino della Svezia, più tardi nel caso della Germania e dell'Italia; in ciascuno di loro si univano un'economia, una cultura e una politica. E' stata quest'ultima a conferire l'unità, in quanto imponeva quella della legge, dell'amministrazione, dell'esercito, e faceva nascere una coscienza politica nazionale. Questa unità oggi si spezza. L'economia si internazionalizza; la cultura in parte anche, ma più spesso, al contrario, si localizza, mette le sue radici in un gruppo sociale, in una minoranza particolare. Fra le due c'è il vuoto, perché lo Stato nazionale perde una parte crescente della sua sovranità.
Gli Stati più deboli esplodono per primi. Il Belgio, Paese a duplice cultura, è ampiamente diviso tra fiamminghi e valloni; la Spagna non è esplosa, ma ha concesso grande importanza alle "autonomie", soprattutto a quella catalana e basca. La Iugoslavia si è sciolta, e chi ha scatenato la guerra interna, più che a ricrearla, ambisce a raggruppare tutti i serbi al prezzo di combattimenti brutali contro i croati ieri, i bosniaci oggi, i macedoni o gli albanesi del Kosovo domani. L'Urss si è disciolta, e se la Russia e l'Ucraina non osano affrontarsi, e se i Paesi baltici sembrano protetti dall'Occidente, il futuro della Moldavia, come quello della Georgia, dell'Armenia e dell'Azerbaidjan, è pregno di minacce.
I vecchi Stati nazionali reggono meglio. La Scozia non si è separata dalla Gran Bretagna e, in Francia, i movimenti occitano e bretone hanno dovuto soccombere alle loro contraddizioni, mentre il movimento corso è racchiuso nel terrorismo. L'Italia del Nord, come il Baden-Württemberg, regioni ricche, cercano di sbarazzarsi del compito imposto loro dallo Stato di fare da sostegno alle regioni povere. Sentimento analogo a quello degli elettori francesi del Fronte Nazionale, che pensano anch'essi che gli immigrati siano favoriti dallo Stato e che siano responsabili del deficit della previdenza sociale. Anche in Francia, una parte dei contadini, gli allevatori, gli agricoltori delle montagne e dei piccoli appezzamenti di terreno adibiti a policolture si ribellano alla riforma della politica agricola comunitaria che farà di loro dei disoccupati o, nella migliore delle ipotesi, degli assistiti, mentre lo Stato nazionale li proteggeva. Questo indebitamento dello Stato nazionale segna anche la fine della socialdemocrazia. E' caduta in Svezia, è reduce da una sconfitta meno annunciata in Austria; è morta in Spagna all'epoca della rottura fra il sindacato Ugt e il Psoe, partito di governo. In Francia, Paese che non è stato mai socialdemocratico, il socialismo mitterrandiano è nettamente minoritario nell'opinione pubblica. in Italia, il partito socialista è riuscito ad esercitare gran parte del potere, ma non a rappresentare gli interessi delle classi popolari.
Il sistema politico crolla ovunque, in maniera ancora più brutale nelle Chiese, sopraffatte anch'esse da sette o da movimenti carismatici. Espressioni come modello di società, visione del mondo o cultura nazionale, sembrano appartenere a un'altra epoca. Anziché produrre una società nuova, noi ci accontentiamo di consumare prodotti nuovi. E' in questo universo sociale diventato un insieme di mercati che si moltiplicano le appartenenze vicine, che si esaspera la ricerca dell'omogeneità e dell'intimità.
Viviamo tutti sempre di più contemporaneamente a un livello sovranazionale e a un livello intranazionale, e sempre di meno a un livello nazionale. Quest'ultimo si sgretola; i nostri partiti e i nostri governi non sono più rappresentativi; la partecipazione politica spesso si indebolisce e si parla quasi dovunque di corruzione, per mettere meglio in evidenza che i governati non si sentono più responsabili dei loro governanti.
Questa diagnosi non è difficile da fare, ma le manca una conclusione: bisogna tornare indietro e ricostruire lo Stato nazionale della fine del XIX secolo? Bisogna accettare la crescente separazione fra l'economia internazionalizzata e un multiculturalismo frammentato? Si possono ricostruire le mediazioni politiche e sociali fra l'economia e la cultura? Non è mai possibile tornare indietro. In Francia, i comunisti, i lepenisti e una frazione del RPR non hanno nient'altro in comune se non combattere il Trattato di Maastricht; pur mettendo assieme le loro voci, non riusciranno tuttavia a impedire, ai parlamentari e, in seguito, al popolo francese, di rinnovare alla costruzione europea una fiducia che quasi mai è venuta meno e che è sostenuta dalla forte convinzione europea di François Mitterrand. L'Unione europea si farà, anche se le condizioni del passaggio alla terza fase dell'Unione monetaria sono ancora fuori della portata di alcuni Paesi.
Ci sono infatti soltanto due soluzioni possibili, ma gli europei non riescono a compiere una scelta, e lo stesso Trattato di Maastricht è assolutamente ambiguo su questo punto essenziale. La prima soluzione consiste nel rafforzamento di una zona di libero scambio; i suoi corollari sono, da un lato, la leadership politica degli Stati Uniti, che si è imposta con uno straordinario successo all'epoca della guerra del Golfo e che può manifestarsi di nuovo se la situazione continua a peggiorare nella ex Iugoslavia, e, dall'altro lato, la tribalizzazione, la frammentazione delle società e delle culture.
La seconda soluzione è la costruzione di una unità politica, di una sovranità europea che si esprimano attraverso una moneta comune, un esercito indipendente e una capacità reale di intervento a livello internazionale. La costruzione europea, ovvero il rifiuto di una semplice zona di libero scambio e la creazione di una volontà politica, forniscono tuttavia soltanto una risposta parziale al pericolo della frammentazione culturale.
L'altra risposta necessaria è il riequilibrio tra società di produzione e società di consumo. Quest'ultima non forma spontaneamente una società civile ben organizzata; rovescia, al contrario, un'evoluzione che avevamo da tempo identificato con la stessa modernizzazione: nella società di produzione, gli esseri umani si definivano di più per quello che facevano che non per quello che erano. Oggi, avviene il contrario: la società di consumo riduce la razionalità a tecniche poste al servizio di istanze che sono determinate dall'appartenenza culturale, dal desiderio sessuale, dai gusti individuali, dal livello sociale. Da qui, il trionfo della differenziazione, mentre la società di produzione portava alla standardizzazione.
Questo mutamento molto profondo presenta degli aspetti positivi e degli aspetti negativi. Ci libera dalla rigidità della razionalizzazione industriale, dall'ossessione della one best way, ma ci vincola al nostro essere particolare, e la diversità può trasformarsi in segregazione e in rifiuto di ogni universalismo.
Sul piano politico, come sul piano culturale, il giudizio deve essere altrettanto complesso: lo Stato-nazione si indebolisce, il che favorisce la diversità, e l'Europa deve trovare la sua più grande ricchezza in questa diversità culturale; ma le minoranze o le nazioni possono entrare in uno stato di guerra civile permanente le une contro le altre, o semplicemente ignorarsi reciprocamente.
A questi grandi problemi non ci può essere altra risposta se non una distinzione sempre più netta fra i tre livelli della vita collettiva: il livello europeo, che deve essere quello dello Stato, con la sua moneta e la sua politica di difesa; il livello nazionale, che deve essere prima di tutto quello delle politiche di integrazione e di solidarietà sociale; il livello della produzione e del consumo culturale, che deve essere quello della città, multiforme, cosmopolita e, soprattutto, ricca di scambi fra tradizioni e progetti.
Ciò che crea l'attuale confusione è il difficile passaggio dagli Stati nazionali allo Stato federale europeo, e soprattutto la tentazione di ridurre l'Europa a una zona di libero scambio. E' allora - se l'Europa rinuncia ad avere un'esistenza politica - che i suoi abitanti e le sue regioni soffriranno di un vuoto di decisione e di integrazione, che favorisce il relegamento di ciascuno in uno spazio ridotto e il pericoloso avanzare della segregazione e della violenza.

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