I corflitti etnici
e nazionali costituiscono oggi il problema più scottante nell'ex
Unione Sovietica. Cresce, purtroppo, il numero dei focolai di tensione.
Per ora non si è riusciti a regolare stabilmente nemmeno un
solo conflitto, né ad eliminare la tensione che esiste in molte
aree.
Il passato ci ha lasciato una eredità gravosa. La crisi dei
rapporti inter-etnici si è unita all'avvitarsi della crisi
socio-economica. In questa situazione il prezzo di ogni errore commesso
è diventato altissimo. Errore oggi significa non soltanto un
passo sbagliato, ma anche la mancanza di azione, l'assenza di un dialogo
continuo fra le parti in conflitto o fra i loro potenziali attori.
Credo che stiamo commettendo un grave errore nel modo stesso di affrontare
i conflitti inter-etnici: cerchiamo di agire come se questi avessero
un carattere simile ai litigi di famiglia.
Bisogna modificare questa impostazione. E' tempo di rendere i conflitti
inter-etnici oggetto della diplomazia professionale di cercare di
risolverli sulla base delle norme M diritto internazionale di ricorrere
alla mediazione delle organizzazioni e dei meccanismi multilaterali
già esistenti, anche per compiere missioni di buona volontà.
Tale approccio incontra un favore crescente sia all'interno dell'Onu
sia all'interno delle strutture europee. Nel mondo contemporaneo,
così interdipendente, la comunità internazionale tende
giustamente a recepire ogni focolaio di tensione - e tanto più
lo scontro armato come un problema comune.
Si trasforma anche il concetto stesso di "conflitto interno".
Se un problema sorge fra due Stati sovrani, anche se membri della
nostra nuova Comunità, non si tratta più di un "conflitto
interno", ma è materia di regolamento inter-statale.
Anche in questa sfera si deve passare a un nuovo modo di pensare,
occorre rinunciare alle idee legate ad una realtà diversa,
quella "imperiale" poiché i suoi strumenti per risolvere
i conflitti inter-etnici non possono essere utilizzati nelle nuove
condizioni.
C'è un elemento di interdipendenza fra i cosiddetti conflitti
interni e la politica estera, sul quale vorrei attirare l'attenzione.
Molti fili legavano le ex Repubbliche sovietiche, le univano in uno
Stato unico. Hanno una storia comune, un'economia integrata e una
stessa mentalità che si è formata in settant'anni di
vita comune. Fra questi fili ce n'era tuttavia un altro: la preoccupazione
per la sicurezza comune. Ora, nel momento in cui la minaccia esterna
sostanzialmente non c'è più, questo filo si è
spezzato.
Ci si può solo rallegrare del fatto che il mondo si liberi
dalla paura, che i popoli dell'ex Unione Sovietica abbiano avuto la
possibilità di vivere in condizioni di libertà, ma mi
sembra che, nelle Repubbliche della Comunità, alcuni uomini
politici, forzando i processi verso l'isolamento dei loro Stati, sottovalutino
Ie possibili conseguenze nel campo della politica estera. Fra l'altro,
gli Stati ora indipendenti avranno altri rapporti con i loro vicini
rispetto a quelli del passato, quando facevano parte di uno Stato
unitario. E non sempre questi cambiamenti possono portare al meglio.

La prospettiva della formazione di nuove unioni regionali che includano
una serie di Repubbliche dell'ex Urss e i Paesi loro vicini appare
oggi abbastanza probabile. E c'è da sperare che queste formazioni
regionali restino soltanto economiche e politiche, senza trasformarsi
in blocchi militari, generatori di nuove linee di contrapposizione.
Posso purtroppo anche constatare che alcuni politici ignorano l'esperienza
internazionale: questa dimostra che le pretese territoriali, provocando
reazioni a catena di revisioni delle frontiere, portano non solo a
conflitti, ma anche a scontri armati.
Mi accusano spesso di fare prognosi pessimistiche, credendo che la
mia preoccupazione sui possibili sconvolgimenti sociali e inter-etnici
nella CSI sia esagerata. Oggi, tuttavia, una sana preoccupazione non
sarebbe affatto eccessiva né per i politici della CSI né
per, quelli occidentali.
Alcuni di loro tengono conto soltanto delle azioni delle forze politiche
ufficiali, che sono effettivamente più o meno prevedibili.
Da noi, però, esistono anche nell'ombra strutture politiche
di tipo autoritario e perfino oltranzista che, sull'onda del malcontento
sociale, raccolgono forze. Nei sottopassaggi della metropolitana di
Mosca si possono vedere gli stand dell'organizzazione nazionalista
estremista "Pamiat" , accanto ai quali vengono diffusi apertamente
volantini antisemiti; alle manifestazioni risuonano appelli all'esercito
di prendere il potere.
Il dittatore con le armi atomiche in mano è una figura assai
reale in molte aree del mondo, e la guerra del Golfo Persico lo ha
dimostrato. Oggi da noi, in condizioni di sfacelo dell'economia e
di catastrofica discesa del tenore di vita della popolazione, appaiono
anche politici che tirano fuori dai vecchi arsenali le armi in disuso
della "guerra fredda". Al posto della grande 'guerra fredda"
ne nascono di piccole, e l'immagine del nemico prende di nuovo forza.
Si è riflettuto abbastanza, per esempio, sulla crisi iugoslava
le cui ondate possono propagarsi nelle regioni dell'Europa Sud-Orientale,
se non per tutto il continente?
Ho detto più di una volta che la comunità internazionale
non si è rivelata pronta ad eliminare i pericoli di conflitti
interni agli Stati.
Ci consola, tuttavia, il fatto che il principio di "non ingerenza"
non viene più considerato assoluto. Si sta affermando un'accezione
dell'inseparabilità di interessi nazionali e di valori universali,
della necessità di difenderli simultaneamente. Non si tratta
di unificare gli approcci, ma di tener conto in modo fermo e realistico
dei fattori che assicurano l'armonia della parte con l'insieme.
Per concludere, vorrei tornare alla nostra situazione interna. A mio
parere questa è caratterizzata dal fatto che, assieme alla
formazione degli Stati indipendenti sul territorio dell'ex Unione
Sovietica, è finito il processo di l'rivoluzione" dall'alto
che fin dall'inizio avevamo battezzato perestrojka.
I processi politici nei Paesi della Comunità assumono oggi
sia un nuovo contenuto sia una nuova dinamica. Sulla scena compaiono
forze nuove, una nuova generazione. Il passaggio ai rapporti di mercato
detta le proprie condizioni di comportamento e di azione per tutti,
sia per i leaders politici sia per i singoli, che diventano oggi la
principale forza motrice dello sviluppo della società.
Qualcuno ha detto che il concetto di cultura comprende anche un'attitudine
al progresso tecnologico. Il progresso tecnologico, a sua volta, ha
la tendenza a interagire con le formazioni sociali, spingendole verso
la razionalizzazione e l'ntegrazione: porta, perciò, all'integrazione
delle Nazioni e degli Stati.
In che cosa speriamo noi? E' indispensabile impegnarsi per elevare
il livello della cultura, compresa quella politica. Con lo sviluppo
della cultura, anche i conflitti inter-etnici si attenueranno e si
presteranno ad essere risolti.
Questo processo, tuttavia, non può essere rapido: per qualche
tempo dovremo riuscire a vivere e a resistere senza cadere nel caos
e nella barbarie. Al di fuori della civilizzazione mondiale ci aspetta
soltanto la morte. Non dobbiamo dimenticarlo.