§ Mercati mondiali

Pallide speranze per l'Italia




Paul A. Samuelson
Premio Nobel per l'Economia



L'economia americana registra una ripresa definitiva dalla recessione che, iniziata nel luglio 1990, si è protratta per tutta la durata della breve guerra contro l'Iraq. Le mie previsioni migliori indicano, per la fine del 1992, un tasso di crescita del Prodotto interno lordo in termini reali pari all'incirca al 3 per cento annuo. Media che, tuttavia, risulta leggermente inferiore con riferimento ai quattro trimestri del '92 considerati nel loro complesso.
Qual è il significato della ripresa in corso negli Stati Uniti per l'economia mondiale e, in particolare, per quella italiana? E qual è, più in generale, il suo impatto sull'economia della Comunità economica europea?
Si direbbe che la locomotiva americana sia l'unica delle tre locomotive possibili in grado di contribuire all'uscita dell'economia globale dall'attuale fase di rallentamento. La locomotiva tedesca, infatti, a causa del persistere dei timori della Bundesbank in merito alla possibilità che i costi della riunificazione possano accelerare l'inflazione, sarà purtroppo nell'impossibilità di dare il suo contributo positivo. Per la mancata partecipazione della locomotiva giapponese allo sforzo espansionistico è invece impossibile invocare la giustificazione di cui sopra: la Banca del Giappone, che come la Bundesbank è una Banca centrale, ha tenuto ostinatamente elevati i tassi d'interesse malgrado l'evidente debolezza delle condizioni economiche del Paese. Per quale motivo?
Perché la bolla di sapone dei prezzi immobiliari e delle azioni, che ha caratterizzato l'ultima parte degli anni Ottanta, si è finalmente sgonfiata. Basti pensare che nel centro di Tokyo un lotto di terreno delle dimensioni di un libro si vende al prezzo di una vettura di lusso e che, se l'arca in cui sorge il palazzo dell'imperatore fosse stata messa in vendita al momento del massimo boom del mercato immobiliare, il suo prezzo sarebbe stato superiore a quello dell'intero Canada!
A Tokyo e ad Osaka anche le quotazioni dei titoli ordinari non hanno fatto che salire, tanto che, mentre i titoli ordinari americani hanno normalmente un rapporto prezzi/salari pari a 12, a 15, a 20 e a 25, in Giappone il rapporto in questione è stato non di rado pari a 50, a 100, e anche maggiore. Non stupisce quindi che, all'epoca della sua privatizzazione, la Società telefonica giapponese sia stata immessa sul mercato ad un rapporto prezzo/salari superiore a duecento a uno e che, nelle proiezioni, il suo valore complessivo fosse maggiore della somma di tutti i titoli quotati nelle Borse svizzere e italiane.
Una bolla speculativa di questo genere si autoalimenta, generando una spirale costantemente al rialzo. Neppure il famigerato lunedì nero del 19 ottobre 1989 - allorché tutti i mercati del mondo subirono un tracollo che richiamò alla mente il grande crollo dell'ottobre 1929 -neppure quello, ripeto, riuscì a forare la bolla giapponese dei prezzi immobiliari e dei titoli.
La legge economica, però, alla fine si rivela inesorabile. E così, a partire dal primo giorno del 1990, il Giappone si è trovato a fare i conti con un mercato immobiliare e dei titoli crudelmente al ribasso. La Banca del Giappone ha allora sfoderato l'arma dei tassi d'interesse elevati, nel tentativo di impedire la ripresa della spirale speculativa al rialzo. Gli investitori di Borsa, convinti dell'impossibilità di perdere, hanno perso viceversa il 40 per cento del capitale. Maggiore la perdita per quelle persone, banche, società di assicurazione e aziende che avevano contratto prestiti per finanziare i loro investimenti. E' probabile, anzi, che ci siano stati veri e propri fallimenti, che non sono trapelati grazie alla copertura della società finanziaria nipponica, notoriamente chiusa.
Gli osservatori hanno cominciato a dire alla Banca del Giappone che era venuto il momento di contrastare una possibile recessione. E questo non solo per tutelare il benessere del Paese, ma anche per dovere di buon vicinato nei confronti dell'Europa, dell'America e del mondo in via di sviluppo, al fine di contribuire a scongiurare una recessione nella crescita tutt'altro che necessaria.
L'Italia non è in grado di mettere in moto una locomotiva macroeconomica indipendente più di quanto non lo siano la Svezia e il Regno Unito. Non solo, se deve rispettare i criteri di convergenza di cui all'Unione monetaria europea, essa dovrà conformarsi alle indicazioni di Bonn. Non restano, quindi, come abbiamo accennato all'inizio, che i tre giganti, vale a dire Germania, Giappone e Stati Uniti, a disporre dei poteri autonomi necessari ad adempiere il compito.
Sotto certi aspetti, di fatto, la Spagna se non altro temporaneamente se la cava meglio dell'Italia. Il governo di un unico partito, soprattutto considerato che si tratta di un partito socialista e nello stesso tempo austero, ha il vantaggio di garantire un contesto economico più tranquillo di quello possibile sulla base delle fragili coalizioni parlamentari nate dalle elezioni italiane dell'aprile scorso. A ciò si aggiunga l'altro vantaggio, sia pure di breve periodo, rappresentato per la produzione spagnola nel 1992 dall'Expo di Siviglia e dalle Olimpiadi di Barcellona, le quali hanno dato notevole impulso alla spesa economica.
Può anche darsi che in Italia si avvii la riforma costituzionale.
Considerata, però, l'instabilità che ha caratterizzato le coalizioni elettorali in questi ultimi decenni, gli osservatori esterni hanno il dovere di essere scettici e di riservare il proprio giudizio in materia.
L'Italia e, nella misura in cui può avere rilevanza, la Spagna hanno ragioni speciali di accogliere con soddisfazione i nuovi stimoli, per quanto limitati, dell'economia americana. Entrambe, infatti, continuano ad essere oggetto di dubbi per quanto riguarda la possibilità o meno di soddisfare i criteri stabiliti a Maastricht per poter aderire a pieno titolo al futuro Sistema monetario europeo.
I due Paesi mediterranei registrano tassi di disoccupazione cronici, due volte quanto quelli della Francia, dell'Olanda e della Germania. Ora, anche volendo concordare sul fatto che una parte di quanti figurano disoccupati in realtà lavorano nell'economia sommersa, non si può non comprendere la tentazione di cercare una politica macroeconomica maggiormente espansionistica da parte delle autorità italiane competenti.
Quali, però, gli strumenti possibili a cui fare ricorso in presenza di tassi d'inflazione normalmente raddoppiati rispetto a quelli della Germania e dei Paesi vicini? Il tentativo di ridurre drasticamente la disoccupazione equivarrebbe a rischiare di non essere accettati dall'Unione monetaria europea. Per fortuna, alle decisioni finali mancano ancora alcuni anni. Nel frattempo, nulla vieta al governo italiano di sperare di far ricorso alla disciplina richiesta dalla Cee, onde contribuire a moderare le tendenze manifestate ad un'inflazione endemica.
Ciò detto, non si può essere sempre dogmatici e dottrinari. Ottenere gli elogi e l'approvazione della Comunità europea non giustifica, a mio modo di vedere, il prezzo di un decennio stagnante per l'economia italiana. Mi auguro, per il futuro, di poter affrontare nei dettagli il problema dei costi e dei vantaggi di un sistema di tassi di cambio fissi. Per il momento non resta che sperare che l'area del Pacifico e la Comunità economica europea siano incoraggiate a cercare di emulare l'esempio americano e avviino una ripresa quanto meno modesta.

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