Nelle settimane
di vuoto politico che ha fatto seguito alle elezioni politiche di
aprile si è manifestata in modo ancora più evidente
la crisi della società e dell'economia italiana. Questa crisi
ha radici storiche, ma l'urgenza dei problemi ci impone una riflessione
comune e una concordanza di azioni sulle quali la classe dirigente
di questo Paese, tutta intera, deve impegnarsi senza egoismi di parte,
ma con lo spirito di partecipazione a un grande progetto civile.
Nonostante l'Italia sia divenuta la sesta potenza industriale del
mondo, la nostra società ha ancora radici profonde nella cultura
contadina, artigianale e del piccolo commercio. E' una società
sostanzialmente a base locale, chiusa verso l'esterno; una società
che tende a confrontarsi solo con se stessa e ad ignorare i cambiamenti
che trasformano gli altri Paesi.
Questa cultura ha ostacolato la crescita di un capitalismo industriale
moderno e ha impedito lo sviluppo di un'adeguata internazionalizzazione
del sistema economico e sociale.
Ciò, in passato, non ha impedito all'Italia di svilupparsi
e anche di prosperare, soprattutto nei periodi caratterizzati da favorevoli
condizioni della congiuntura internazionale. Ma di fronte alla grande
accelerazione del cambiamento e alle profonde trasformazioni dello
scenario mondiale, il modello italiano è entrato in crisi.
Incapace di trovare un suo ruolo e una sua dimensione di crescita
in un contesto internazionale che diviene sempre più dinamico
e interdipendente, il Paese si è come arroccato in difesa di
fronte alla gravità dei problemi.
Occorre reagire con forza. Il superamento della crisi comporta il
cambiamento verso una cultura l'aperta" e consona alle esigenze
di un moderno Paese industriale. Un cambiamento di cultura nella società
e nelle istituzioni non si improvvisa. Ma ritengo che oggi vi siano
condizioni favorevoli che spingono tutte nella direzione giusta. In
primo luogo, la cultura prevalente e il sistema che essa ha prodotto
sono manifestamente arrivati al capolinea. Non vi sono alternative
al cambiamento. Senza cambiamento l'Italia rischia di essere come
una nave senza motore e senza àncore, sospinta nel Mediterraneo
da un vento nuovo che spira da nord-ovest. L'alternativa risulterebbe
dunque solo la via del sottosviluppo. Di questo pericolo vi è
oggi nel Paese una coscienza maggiore e ciò sprona a reagire.

E poi - fatto ancora più importante - gli impegni presi a Maastricht
hanno introdotto rigidi vincoli esterni che impongono all'Italia di
adeguarsi rapidamente all'Europa. Maastricht ha reso evidente la diversità
dell'Italia e ha fissato per la prima volta un chiaro percorso da
seguire. I paracarri che delimitano questo percorso sono ben visibili
a tutti: l'Italia non può spostarli e il suo comportamento
è sotto l'osservazione dell'Europa. Non ci sono più
alibi. Non ci si può nascondere dietro un dito. Andreatta ha
indicato nel brevissimo periodo il tempo rimasto all'Italia per cercare
di restare in Europa e per salvare il sistema-Italia dal fallimento.
Credo che Andreatta abbia assolutamente ragione; ma credo anche che
questo non debba divenire un motivo per fare del pessimismo fine a
se stesso. L'Italia non è affatto fallita. E' fallito un modo
vecchio di gestire il Paese e l'economia. Il Paese non è privo
di vitalità, di sensibilità al progresso, all'innovazione,
all'apertura internazionale. Ma occorre che la vitalità, il
coraggio e lo spirito d'iniziativa mostrato da tanti singoli diventino
patrimonio collettivo, qualità del sistema nel suo insieme.
Occorre cioè creare la cultura del cambiamento.
Questa cultura andrebbe a vantaggio in primo luogo del sistema industriale.
L'industria, per sua natura esposta alla competizione internazionale,
soffre particolarmente della diversità italiana. La deindustrializzazione
è l'aspetto più preoccupante della crisi dell'Italia,
perché l'industria è il nocciolo duro di qualsiasi sistema
economico moderno. In dieci anni abbiamo perso già sei punti
in termini di quota di prodotto industriale sul valore aggiunto complessivo
del Paese: oggi solo il 22 per cento del Pil è generato dall'industria,
contro il 33 per cento in Germania.
Ma possiamo arrestare o addirittura invertire questa inaccettabile
tendenza. L'industria italiana, le imprese sono come una molla compressa
troppo a lungo che però ha conservato una forza straordinaria
ed attende solo di trovarsi nelle condizioni che le consentano di
espandersi liberamente. Il professor Guerci ha recentemente affermato
che la crisi dell'industria è attribuibile anche al processo
involutivo manifestato dalle imprese italiane dopo il ciclo positivo
di investimenti e di sviluppo dei primi anni Ottanta.
Non ritengo che siano le imprese a essersi fermate: le imprese, se
sono vere imprese, non possono fermarsi mai. E' soprattutto il contesto
in cui si trovano ad operare le imprese italiane che non ha progredito
e, in un mondo che cambiava sempre più rapidamente, è
rimasto indietro, esercitando un'azione frenante su tutto il sistema
produttivo.
Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa, il ritardo dell'Italia
va colmato con un progetto nuovo per il Paese, un progetto "che
formuli chiari e credibili obiettivi per il risanamento del Paese
e la sua crescita come sistema industriale e civile". Elemento
essenziale di questo progetto è l'adesione incondizionata e
non solo formale all'Europa, spingendo l'Italia a rispettare le soglie
di convergenza concordate a Maastricht.
Questa convergenza è attuabile anche in tempi relativamente
brevi, ma richiede rigorosi interventi sulle cause dei differenziali
di deficit pubblico e di inflazione. Richiede, cioè, sacrifici
da parte di tutti, perché l'inflazione e il deficit vengano
abbattuti drasticamente, senza gradualismi, senza ricorrere a sotterfugi
tecnici, ma andando al cuore dei problemi.
Molto importante sarà l'occasione del confronto sulla struttura
del salario: un'occasione per affrontare in modo consapevole e trasparente,
a tutto campo, l'emergenza imposta dall'abbattimento dell'inflazione,
accettando una disciplina che dovrà essere rigidamente seguita
in primo luogo dal settore pubblico. Un progetto di crescita per il
Paese deve mirare a creare un ambiente esterno favorevole allo sviluppo
delle imprese, un ambiente basato su un mercato vero e nel contesto
di un sistema-Paese.

In Italia il mercato vero non c'era e non c'è. Né vi
era o vi è ancora quel complesso di ordinamenti e di regole
per il suo corretto funzionamento. Anzi, il processo di costruzione
del mercato che si era avviato negli anni Ottanta si è arrestato
o è tornato indietro. Si è arrestato perché si
sono allargati gli spazi dei settori non esposti alla concorrenza;
perché si è cristallizzato il processo di "privatizzazione"
del sistema delle Partecipazioni Statali (mi riferisco in primo luogo
alla privatizzazione come comportamento, indipendentemente dalle proprietà
delle azioni); perché si è divaricata la forbice tra
prezzi "veri" (quelli che praticano le imprese esposte alla
concorrenza internazionale) e prezzi/costi interni, in particolare
nei servizi; perché il processo di internazionalizzazione non
ha compiuto il necessario salto di qualità e riguarda una piccola
parte del sistema (siamo agli ultimi posti negli investimenti esteri
sia in entrata sia in uscita).
Né vi è stato impegno sufficiente nell'introduzione
e nell'applicazione di regole per il funzionamento del mercato. La
seconda chiave di volta per lo sviluppo delle imprese è la
costruzione e il rafforzamento del sistema-Paese. Basta osservare
cosa stanno facendo i Paesi con cui ci confrontiamo, dal Giappone
agli Stati Uniti, alla Francia e alla Germania, per capire le ragioni
del nostro distacco sempre più accentuato.
I sistemi-Paese si costruiscono oggi su due basi fondamentali: le
infrastrutture e la tecnologia. In entrambe siamo deficitari. La costruzione
di infrastrutture moderne è oggi diventata esigenza indispensabile
sia per il rafforzamento della competitività del sistema industriale,
sia anche per il miglioramento della qualità di vita della
società. Infrastrutture moderne e innovative significano trasporti,
telecomunicazioni, scuola, ambiente, salute, servizi pubblici, tutti
rivolti alla competitività del sistema. Il tema della tecnologia
è un tema generale per il Paese, che va al di là del
rafforzamento di alcuni settori industriali. Tecnologia significa
promuovere, rafforzare, concentrare le risorse tecnologiche, coordinare
le risorse dell'università, delle imprese su temi comuni, non
frammentati e dispersivi.
Occorre affrontare subito questi temi e mi auguro che altri vogliano
far sentire la propria voce per trovare una concordanza sulla quale
le azioni dei singoli raggiungano obiettivi comuni. Si è formata
nel Paese una forte volontà di cambiamento che sollecita un
progetto nuovo di crescita industriale e civile. Su questo progetto
dobbiamo impegnarci come imprenditori e chiedere analogo impegno a
chi ha il compito di governare. Un impegno senza mezze misure, perché
la strada del cambiamento non ha alternative, se non si vuole tornare
indietro.