§ Grande Europa / Conflitti e negoziati

Per Maastricht




Carlo De Benedetti



Nelle settimane di vuoto politico che ha fatto seguito alle elezioni politiche di aprile si è manifestata in modo ancora più evidente la crisi della società e dell'economia italiana. Questa crisi ha radici storiche, ma l'urgenza dei problemi ci impone una riflessione comune e una concordanza di azioni sulle quali la classe dirigente di questo Paese, tutta intera, deve impegnarsi senza egoismi di parte, ma con lo spirito di partecipazione a un grande progetto civile.
Nonostante l'Italia sia divenuta la sesta potenza industriale del mondo, la nostra società ha ancora radici profonde nella cultura contadina, artigianale e del piccolo commercio. E' una società sostanzialmente a base locale, chiusa verso l'esterno; una società che tende a confrontarsi solo con se stessa e ad ignorare i cambiamenti che trasformano gli altri Paesi.
Questa cultura ha ostacolato la crescita di un capitalismo industriale moderno e ha impedito lo sviluppo di un'adeguata internazionalizzazione del sistema economico e sociale.
Ciò, in passato, non ha impedito all'Italia di svilupparsi e anche di prosperare, soprattutto nei periodi caratterizzati da favorevoli condizioni della congiuntura internazionale. Ma di fronte alla grande accelerazione del cambiamento e alle profonde trasformazioni dello scenario mondiale, il modello italiano è entrato in crisi. Incapace di trovare un suo ruolo e una sua dimensione di crescita in un contesto internazionale che diviene sempre più dinamico e interdipendente, il Paese si è come arroccato in difesa di fronte alla gravità dei problemi.
Occorre reagire con forza. Il superamento della crisi comporta il cambiamento verso una cultura l'aperta" e consona alle esigenze di un moderno Paese industriale. Un cambiamento di cultura nella società e nelle istituzioni non si improvvisa. Ma ritengo che oggi vi siano condizioni favorevoli che spingono tutte nella direzione giusta. In primo luogo, la cultura prevalente e il sistema che essa ha prodotto sono manifestamente arrivati al capolinea. Non vi sono alternative al cambiamento. Senza cambiamento l'Italia rischia di essere come una nave senza motore e senza àncore, sospinta nel Mediterraneo da un vento nuovo che spira da nord-ovest. L'alternativa risulterebbe dunque solo la via del sottosviluppo. Di questo pericolo vi è oggi nel Paese una coscienza maggiore e ciò sprona a reagire.


E poi - fatto ancora più importante - gli impegni presi a Maastricht hanno introdotto rigidi vincoli esterni che impongono all'Italia di adeguarsi rapidamente all'Europa. Maastricht ha reso evidente la diversità dell'Italia e ha fissato per la prima volta un chiaro percorso da seguire. I paracarri che delimitano questo percorso sono ben visibili a tutti: l'Italia non può spostarli e il suo comportamento è sotto l'osservazione dell'Europa. Non ci sono più alibi. Non ci si può nascondere dietro un dito. Andreatta ha indicato nel brevissimo periodo il tempo rimasto all'Italia per cercare di restare in Europa e per salvare il sistema-Italia dal fallimento.
Credo che Andreatta abbia assolutamente ragione; ma credo anche che questo non debba divenire un motivo per fare del pessimismo fine a se stesso. L'Italia non è affatto fallita. E' fallito un modo vecchio di gestire il Paese e l'economia. Il Paese non è privo di vitalità, di sensibilità al progresso, all'innovazione, all'apertura internazionale. Ma occorre che la vitalità, il coraggio e lo spirito d'iniziativa mostrato da tanti singoli diventino patrimonio collettivo, qualità del sistema nel suo insieme. Occorre cioè creare la cultura del cambiamento.
Questa cultura andrebbe a vantaggio in primo luogo del sistema industriale. L'industria, per sua natura esposta alla competizione internazionale, soffre particolarmente della diversità italiana. La deindustrializzazione è l'aspetto più preoccupante della crisi dell'Italia, perché l'industria è il nocciolo duro di qualsiasi sistema economico moderno. In dieci anni abbiamo perso già sei punti in termini di quota di prodotto industriale sul valore aggiunto complessivo del Paese: oggi solo il 22 per cento del Pil è generato dall'industria, contro il 33 per cento in Germania.
Ma possiamo arrestare o addirittura invertire questa inaccettabile tendenza. L'industria italiana, le imprese sono come una molla compressa troppo a lungo che però ha conservato una forza straordinaria ed attende solo di trovarsi nelle condizioni che le consentano di espandersi liberamente. Il professor Guerci ha recentemente affermato che la crisi dell'industria è attribuibile anche al processo involutivo manifestato dalle imprese italiane dopo il ciclo positivo di investimenti e di sviluppo dei primi anni Ottanta.
Non ritengo che siano le imprese a essersi fermate: le imprese, se sono vere imprese, non possono fermarsi mai. E' soprattutto il contesto in cui si trovano ad operare le imprese italiane che non ha progredito e, in un mondo che cambiava sempre più rapidamente, è rimasto indietro, esercitando un'azione frenante su tutto il sistema produttivo.
Come ho avuto occasione di scrivere un anno fa, il ritardo dell'Italia va colmato con un progetto nuovo per il Paese, un progetto "che formuli chiari e credibili obiettivi per il risanamento del Paese e la sua crescita come sistema industriale e civile". Elemento essenziale di questo progetto è l'adesione incondizionata e non solo formale all'Europa, spingendo l'Italia a rispettare le soglie di convergenza concordate a Maastricht.
Questa convergenza è attuabile anche in tempi relativamente brevi, ma richiede rigorosi interventi sulle cause dei differenziali di deficit pubblico e di inflazione. Richiede, cioè, sacrifici da parte di tutti, perché l'inflazione e il deficit vengano abbattuti drasticamente, senza gradualismi, senza ricorrere a sotterfugi tecnici, ma andando al cuore dei problemi.
Molto importante sarà l'occasione del confronto sulla struttura del salario: un'occasione per affrontare in modo consapevole e trasparente, a tutto campo, l'emergenza imposta dall'abbattimento dell'inflazione, accettando una disciplina che dovrà essere rigidamente seguita in primo luogo dal settore pubblico. Un progetto di crescita per il Paese deve mirare a creare un ambiente esterno favorevole allo sviluppo delle imprese, un ambiente basato su un mercato vero e nel contesto di un sistema-Paese.


In Italia il mercato vero non c'era e non c'è. Né vi era o vi è ancora quel complesso di ordinamenti e di regole per il suo corretto funzionamento. Anzi, il processo di costruzione del mercato che si era avviato negli anni Ottanta si è arrestato o è tornato indietro. Si è arrestato perché si sono allargati gli spazi dei settori non esposti alla concorrenza; perché si è cristallizzato il processo di "privatizzazione" del sistema delle Partecipazioni Statali (mi riferisco in primo luogo alla privatizzazione come comportamento, indipendentemente dalle proprietà delle azioni); perché si è divaricata la forbice tra prezzi "veri" (quelli che praticano le imprese esposte alla concorrenza internazionale) e prezzi/costi interni, in particolare nei servizi; perché il processo di internazionalizzazione non ha compiuto il necessario salto di qualità e riguarda una piccola parte del sistema (siamo agli ultimi posti negli investimenti esteri sia in entrata sia in uscita).
Né vi è stato impegno sufficiente nell'introduzione e nell'applicazione di regole per il funzionamento del mercato. La seconda chiave di volta per lo sviluppo delle imprese è la costruzione e il rafforzamento del sistema-Paese. Basta osservare cosa stanno facendo i Paesi con cui ci confrontiamo, dal Giappone agli Stati Uniti, alla Francia e alla Germania, per capire le ragioni del nostro distacco sempre più accentuato.
I sistemi-Paese si costruiscono oggi su due basi fondamentali: le infrastrutture e la tecnologia. In entrambe siamo deficitari. La costruzione di infrastrutture moderne è oggi diventata esigenza indispensabile sia per il rafforzamento della competitività del sistema industriale, sia anche per il miglioramento della qualità di vita della società. Infrastrutture moderne e innovative significano trasporti, telecomunicazioni, scuola, ambiente, salute, servizi pubblici, tutti rivolti alla competitività del sistema. Il tema della tecnologia è un tema generale per il Paese, che va al di là del rafforzamento di alcuni settori industriali. Tecnologia significa promuovere, rafforzare, concentrare le risorse tecnologiche, coordinare le risorse dell'università, delle imprese su temi comuni, non frammentati e dispersivi.
Occorre affrontare subito questi temi e mi auguro che altri vogliano far sentire la propria voce per trovare una concordanza sulla quale le azioni dei singoli raggiungano obiettivi comuni. Si è formata nel Paese una forte volontà di cambiamento che sollecita un progetto nuovo di crescita industriale e civile. Su questo progetto dobbiamo impegnarci come imprenditori e chiedere analogo impegno a chi ha il compito di governare. Un impegno senza mezze misure, perché la strada del cambiamento non ha alternative, se non si vuole tornare indietro.


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