§ I nemici dell'industria

Le mosche cieche del capitale




Ruggero Guarini



Può esserci industria senza capitalismo? Sembra di no: questo almeno è il parere della storia. Si può volere la prima senza il secondo? Ugualmente no: ciò consegue logicamente dal fatto che l'una non si dà mai senza l'altro. A questa amara scoperta è forse ragionevole reagire con un moto di disperazione, risolvendosi a non voler più, in odio all'inviso capitalismo, nemmeno la sua fedele compagna, l'ingannatrice industria, e magari a mettersi a suonare, come Titiro, il flauto all'ombra di un faggio. Ciò proverebbe, fra l'altro, che si può essere a un tempo delicati e coerenti, nostalgici e conseguenti, sognatori e rispettosi della logica. Ma a certe anime sensibili la logica sembra a volte più ripugnante dell'industria che le ha deluse.
D'altronde i flauti e i faggi, le ninfe e i boschi, anche se tutti dicono che ormai non ci sono più, possono sempre aspettare, giacché un'anima ferita, nel frattempo, fra lo sterco dell'industria e le mosche del capitale, riuscirà pur sempre ad arrangiarsi. Una simile prassi, del resto, non è solo umanamente comprensibile, ma contribuisce a dimostrare che anche le anime ferite più confuse e inconseguenti non sono poi mai, se Dio vuole, completamente sprovviste di quella virtù squisitamente sociale che è la capacità di adattamento.
Desta qualche stupore, tuttavia, che fra gli attrezzi teorici posti al servizio di questa prassi figuri sovente l'idea che il duplice rifiuto del capitalismo e dell'industria sia compatibile con la pretesa di continuare a proclamarsi comunisti. Pretesa davvero spassosa sulla bocca di certi industriofobi, visto che il comunismo è inseparabile dall'anelito di offrire all'industria dei servigi che, pur essendosi rivelati esiziali là dove le sono stati prestati, presupponevano tuttavia il proposito di non accopparla, l'industria, ma di sguinzagliarla.
Lo scatenamento dell'industria: a questo mirò il comunismo. L'idea marxiana secondo la quale esso avrebbe dovuto liberare le forze produttive svincolandole dai ceppi di rapporti di produzione obsoleti corrispondeva al miraggio di un paradiso terrestre che sarebbe stato generato appunto da uno sfrenato sviluppo della tecnica e dell'industria. Questo è stato il sogno comunista, e se fosse un sogno bello o brutto è in fondo solo una questione di gusti. E' strano tuttavia che lo si possa giudicare bello quando sembra presentarsi come utopia fallita nei Paesi che un tempo si dicevano comunisti, e brutto quando invece si rivela come evento in corso nei Paesi che ancora si dicono capitalisti. In ogni caso, chi maledice l'industria dovrebbe detestare la parola comunismo non meno della parola capitalismo, giacché né l'uno né l'altro, nonostante ciò che in tutto il resto li differenzia, possono fare a meno dell'industria.
Resta da chiedersi come e perché, su questo ameno argomento, possano ancora oggi circolare idee arruffate come quelle che non di rado vengono enunciate da alcuni pastori della sinistra chic. "Detesto il capitalismo", dice ad esempio Paolo Volponi, e fin qui possiamo anche capirlo. "L'industria mi fa schifo", aggiunge, spiegandoci che in essa non vede più, come un tempo, "la Grande Madre di questo Paese" - e neanche questo ci sbigottisce. Ma poi aggiunge di essere rimasto "assolutamente comunista" - e allora vorremmo chiedergli dove lo ha visto mai un comunismo senza industria, per acciaccata che fosse, e che non sognasse, soprattutto, di averne una un po' meno scassata.
Si direbbe che i nuovi Titiri confondano il Manifesto di Marx con le Ecloghe di Virgilio. Dev'essere per questo che può loro accadere persino di vedere nell'industria, in due diverse stagioni della loro vita, prima una Grande Madre salvifica e liberatrice, quindi un mostro abominevole e ripugnante. Ma quali pericoli incombano su questa appassionata vocazione a idolatrare e/o esecrare l'industria è noto purtroppo da secoli, e qualcuno riuscì a presagirli quando l'industria moderna non era ancora nemmeno in fasce.
Vedi, ad esempio, l'epistola che Erasmo da Rotterdam, nel 1499, scrisse su questo argomento al suo amico John Sixtin.
Si tratta di un apologo allegorico. Personaggi: Caino e un angelo mandato dall'Eterno a vedere che cosa quel fratricida sta combinando. Ebbene, l'angelo scopre che Caino, col lavoro e col sudore della fronte, sta mettendo su un giardinone molto più ricco e variato del paradiso terrestre.
Di fronte all'Eden, che in fondo era un orticello, per giunta sorvegliato come un carcere da quei secondini celesti che sono gli angeli, il nuovo giardino di Caino ha soprattutto il vantaggio di essere vasto come il mondo. Perciò egli ne è orgogliosissimo, tanto che a un certo punto dichiara all'angelo di non avere nessuna intenzione di smetterla di darsi da fare, almeno fino a quando sulla faccia della terra ci sia ancora qualcosa che possa essere espugnata da una tenace industria, ("Non cessabo, quando nihil est quo non expugnet pertinax industria ").
L'angelo allora comincia a temere che la sua condizione di guardiano di un angusto verziere non sia meno miserabile di quella di quell'energumeno industrioso condannato per l'eternità a un lavoro senza fine. L'Eterno, ovviamente, si arrabbia, e per vendicarsi colpisce Caino e la sua tenace industriosità con un mucchio di disastri naturali. E alla fine tutti - Dio, gli angeli, Caino - sono passabilmente disperati, ma ugualmente decisi ad andare avanti ognuno per la sua strada.
Hans Blumenberg, che analizza questo apologo erasmiano, vi ha giustamente visto "la visione di un mondo avvenire articolata alle soglie del XVI secolo". E' dunque da un bel pezzo che la "modernità" è stata presagita come un'era destinata ad oscillare fra ambizione e delusione, euforia e depressione, speranza e disperazione. Ed è consolante apprendere che questa sindrome può colpire simultaneamente l'homo faber, l'angelo che lo invidia e quella divinità che ci ha scacciati per sempre dal boschetto originario.

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