§ Provocazioni & paradossi

Per una finanziaria eretica




Antonio Golini



Dimentichiamoci le cifre, questi assillanti 130, 140 o 150 mila miliardi di fabbisogno che incombono tutti i giorni sul ministero del Tesoro e che di certo contribuiscono al suo aspetto sempre più invecchiato ed affranto. Dimentichiamoci la necessità di dover ricorrere quasi ogni settimana ai mercati finanziari, rigirando oltre mezzo milione di miliardi di titoli all'anno per sopperire alle esigenze fameliche del settore pubblico. Prendiamo invece il problema un po' più alla lontana e, se sì vuole, con un po' di serenità: apparirà chiara la necessità di incidere sulla struttura dei conti pubblici, mentre finora ci si occupa del giorno per giorno (o, al massimo, dell'anno per anno).
Come si fa a incidere sulla struttura? La risposta forse non sarà così usuale: occorre modificare alcune norme di base della finanza pubblica. Il problema da ragionieristico diventa costituzionale e si inserisce a buon diritto nell'ambito di quelle riforme che tutti invocano ma che non si fanno. Esponiamo una serie di proposte "eretiche", ben sapendo che senza eresie il mondo non può camminare.
La prima eresia è veramente grossa e riguarda il lato delle entrate. Secondo noi, occorre riformare in maniera radicale il sistema di accertamento, riducendo le amplissime garanzie istituzionali di cui i cittadini godono.
La logica che sovrintese all'introduzione dell'Irpef e alla riforma fiscale di vent'anni fa fu infatti un enorme passo avanti sul cammino della libertà, ma di queste libertà i cittadini non si sono dimostrati all'altezza. Agli uffici delle imposte veniva tolto quasi ogni grado di discrezionalità: sorteggiare gli accertamenti significa cercar funghi in un bosco con gli occhi bendati. Tutto ciò portò anche a una grande caduta di potere e di prestigio degli uffici e al cronico malcontento dei loro addetti, i quali fuggono dalle sedi più complicate (che sono poi le grandi città, dove, tra l'altro, la vita costa cara e le abitazioni non si trovano) per rifugiarsi nelle più tranquille sedi di provincia. I cittadini hanno quindi vissuto vent'anni liberi da tassazioni induttive e da indagini mirate e potenzialmente persecutorie. Non ne hanno fatto, però, buon uso: la paura di essere scoperti in caso di evasione si è ridotta a poca cosa e l'evasione stessa è probabilmente molto aumentata, nella quasi certezza dell'impunità.
Il rimedio è semplice. Occorre restituire agli uffici fiscali un po' dell'autonomia che avevano prima, cercando di evitare in più possibile quel tanto di vessatorio che tale autonomia comportava. Come in quel passato ormai lontano, l'ufficio fiscale dovrebbe poter accertare chi vuole; dovrebbe poter decidere quale contribuente sarà oggetto delle sue attenzioni. A differenza di quel passato e a garanzia, almeno parziale, del carattere non persecutorio dell'azione dell'ufficio, l'ufficio stesso dovrebbe rispettare certe procedure nell'accertamento, aventi carattere generale, ed essere impegnato a ottenere certi risultati, pubblicamente noti, in termini di redditi recuperati a tassazione; da questi risultati dovrebbero dipendere parte della retribuzione e della carriera dei funzionari.
In altri termini, in quest'ipotesi, il capo dell'ufficio potrà stabilire a sua discrezione (resta da vedere se totale o parziale) di accertare i redditi di determinate categorie (e in taluni casi, su documenti indizi, del singolo contribuente) a livello locale, per esempio dei notai o dei commercianti di pellicce. Se però l'accertamento risulterà sbagliato (secondo il successivo giudizio di una commissione tributaria) i funzionari "persecutori" saranno personalmente penalizzati. E lo saranno anche se non raggiungeranno un target prestabilito di imposte recuperate, mentre saranno premiati con aumenti di stipendio o avanzamenti in carriera se il target sarà superato.
Siamo consapevoli che in questo modo si perde una garanzia per il cittadino, rappresentata dalla larga impersonalità con la quale il fisco ora procede. Si possono però fare tre obiezioni: la prima, alla quale si è già accennato sopra, è che i cittadini, e in particolare certe categorie, con una evasione sfacciata e crescente, questa garanzia non se la sono meritata. Va poi considerato, ed è questa la seconda obiezione, che se non si procedesse in questo modo, un prolungato deficit dell'amministrazione pubblica condurrebbe alla perdita di ben altre libertà; infine, si consideri che nell'ipotesi proposta non si restituirebbe discrezionalità agli enti locali, dai quali provenivano in passato gli abusi più odiosi.
Alla riforma dell'accertamento andrebbe unita la riforma delle sanzioni, oggi così tremende da essere poco applicate, come quelle previste dalle grida manzoniane di buona memoria. Ciò che oggi succede è ben noto: il funzionario scopre infrazioni gravissime, spesso di tipo formale (per esempio, il codice fiscale errato su tutte le fatture emesse) e calcola la multa dovuta, che è in genere elevatissima, tale da forzare l'azienda a chiudere. A questo punto, ecco i pianti dell'evasore, e sovente il funzionario si lascia commuovere, suggerisce le rettifiche formali possibili e limita l'accertamento a infrazioni marginali.
Occorrerebbe poi reintrodurre il principio antico secondo cui, fino a un certo limite (diciamo il dieci per cento), la differenza tra reddito dichiarato non dà luogo a sanzioni ma solo al recupero di imposta. Sull'evasione successiva, però, non si farebbe alcuno sconto, o comunque uno sconto inferiore all'attuale; e le sanzioni dovrebbero essere realistiche invece che demagogicamente terroristiche.
Di pari passo alla riforma delle sanzioni, occorrerebbe procedere alla riforma del contenzioso, semplificando i gradi del giudizio, collegando le commissioni provinciali via computer, in modo che si possano conoscere le motivazioni di decisioni sui casi simili, ed emanando direttive a livello nazionale sul casi più controversi (per esempio: l'annoso problema del trattamento fiscale dei rimborsi spese ai professionisti).
Infine, i condoni: in un certo senso, si può dire che occorrerebbe farli senza dirlo. Con l'obiettivo di massimizzare il recupero d'imposta, un ufficio autonomo nei suoi accertamenti si concentrerà naturalmente sugli anni più vicini, i cui redditi sono generalmente più elevati e per i quali è più facile contestare la mancanza di congruità delle dichiarazioni. Ciò potrà essere incoraggiato da una direttiva ministeriale che consigli di iniziare dall'ultimo anno risalendo all'indietro, mentre oggi avviene spessissimo il contrario: il fisco si concentra su anni lontani per paura di "perderli".
Quanto si recupererebbe con tutte queste misure? Naturalmente non si può che avanzare qualche stima, o, meglio ancora, fissare qualche obiettivo, senza il quale la tanto celebrata lotta all'evasione rimane poco più che aria fritta. Pensiamo, come effetto di queste riforme, a un incremento di gettito pari al 5 per cento del gettito totale, pari cioè a 15-20 mila miliardi circa. Tale risultato dovrebbe ottenersi a regime, ossia in 1-2 anni dall'entrata in vigore di questo complesso di riforme, a parità di ogni altra condizione. Sarebbe questo, secondo noi, un obiettivo ragionevole e raggiungibile.
Veniamo ora alle eresie dal lato della spesa. L'idea che andiamo ripetendo da tempo è che non appare comunque possibile rimettere ordine nella finanza pubblica se non si cambia la legge sul pubblico impiego. Di fatto, se consideriamo il ruolo originario dell'amministrazione pubblica, che è quello della produzione di servizi, appare impossibile procedere a un risanamento se non si recupera il controllo su uno dei fattori produttivi, che è il fattore lavoro.
Recupero del controllo significa, prima di tutto, eliminazione di numerose rigidità che sovente fanno del lavoratore pubblico il principale, anche se indiretto, beneficiario dei servizi che egli stesso produce. L'intero status giuridico del pubblico dipendente va rivisto e qualche, ahimé troppo timido, passo in questo senso è già stato fatto: vanno eliminate una serie di pastoie alla moderna azione manageriale, dall'assunzione mediante pletorici concorsi alla pratica impossibilità non solo di licenziare ma anche di spostare il dipendente che non è d'accordo, di promuovere i bravi e penalizzare coloro che bravi non sono, per non parlare poi dei mutevoli e cospicui privilegi (orari di lavoro di fatto più brevi del settore privato, minor controllo sulla produttività, miglior trattamento pensionistico, più miti controlli in caso di malattia, eccetera) di questo settore. Un recente studio di Lionello Tronti e Renato Brunetta stima che la retribuzione effettiva dei pubblici dipendenti, tenuto conto di tutti questi benefici, sia circa tripla di quella del settore privato.
La nuova legge dovrebbe sovvertire questo stato di cose, sancire la modalità tra amministrazioni, almeno a livello regionale, equiparare il trattamento pensionistico, introdurre controlli di produttività e reintrodurre le "note di qualifica", abolite sotto la spinta del Sessantotto. Quest'ultima esigenza ne propone un'altra: non ha senso una nuova legge sul pubblico impiego senza una legge fondamentale sul settore pubblico che garantisca l'autonomia delle singole unità dell'amministrazione, cioè un ampio grado di libertà nell'organizzazione dei servizi, nonché l'introduzione di premi e penalizzazioni pecuniarie collegate con il raggiungimento di determinati obiettivi.
Per la scuola, per esempio, ciò significherebbe: a) la fine delle zone" che obbligano l'iscrizione agli istituti scolastici più vicini; b) un'ampia possibilità di sperimentazione, variazione di orari e di programmi, eccetera; c) la determinazione di una parte consistente della retribuzione in base ai risultati (pensiamo a due parametri, la percentuale di studenti che sceglie quella scuola invece di un'altra scuola pubblica "concorrente", e i risultati agli esami). Proprio la scuola rappresenta la principale sfida-occasione per la finanza pubblica. Il calo demografico implica che, su oltre un milione di insegnanti oggi presenti negli istituti di istruzione pubblica, 150-250 mila saranno resi superflui nel corso del decennio. Finora le organizzazioni sindacali li hanno recuperati tutti, con i metodi più fantasiosi (insegnanti "di sostegno", eccetera), ma ciò non sarà più possibile. Come abbiamo sostenuto altre volte, occorre pensare alla scuola come ad un grande serbatoio di forza lavoro qualificata cui attingere, in regime di mobilità, per le esigenze di molti altri settori, dalle biblioteche ai musei, dagli uffici di quasi tutti i ministeri alle poste, eccetera. Nella scuola, poi, sono possibili vistose economie pubbliche. Basterebbe stabilire che il numero minimo di studenti per classe è di 25 o 30; introdurre controlli più severi contro l'incredibile assenteismo degli insegnanti; abolire i "distacchi" che pongono diecine di migliaia di insegnanti pagati dallo Stato al servizio di sindacati e di partiti; essere meno generosi con le esenzioni, concesse per i motivi più vari (incarichi politici, eccetera). Si potrebbe anche introdurre la figura dell'insegnante a tempo definito, con retribuzione inferiore all'attuale. Le economie non si realizzerebbero solo nella scuola ma in tutta l'amministrazione, per effetto della mobilità (il trasferimento di personale ex scolastico ridurrebbe la necessità di assumere). Anche qui, è difficile tradurre in cifre l'azione di risanamento: riteniamo però che a regime, ossia in due-tre anni, non sia irrealistico pensare di ridurre la spesa del personale di circa 10-15 mila miliardi, una cifra che si colloca tra il 5 e l'8 per cento del totale.
Stiamo conducendo pazienti ricerche per veder quali altri settori della spesa pubblica potrebbero essere ridimensionati.
Riteniamo che i migliori risultati si potrebbero ottenere con enti pubblici a carattere locale o distribuiti sul territorio. Non siamo per una loro abolizione indiscriminata, come si è già tentato senza fortuna, bensì per un loro graduale passaggio a un'ottica intermedia tra pubblico e privato, con riduzione dei finanziamenti pubblici.
Un primo esempio sono i contributi INPS ai padronati (di fatto un finanziamento occulto ai sindacati e una pressione per l'aumento indiretto della spesa pensionistica, là dove contribuiscono a procurare pensioni non dovute, specie di invalidità). Attualmente tali finanziamenti sono di 1.000 miliardi l'anno.
Un secondo esempio riguarda la spesa del ministero del Lavoro per l'istruzione tecnica e professionale, elevata e ben poco produttiva.
Un terzo esempio sono le Camere di Commercio; la componente pubblica del finanziamento potrebbe ancora essere ridotta mentre potrebbe esserne incentivata la mentalità imprenditoriale, espressa nel considerare i fruitori dei servizi come clienti anziché come utenti.
C'è molto spazio per tagli di spesa anche nelle Università: per esempio, riducendo i contributi statali ai singoli atenei in misura pari al costo dei corsi che hanno meno di 10 esami o 10 studenti promossi all'anno (ce n'è una quantità enorme) o annullando quelli all'Università di Camerino (costerebbe meno mandare i futuri laureati a studiare nelle migliori università americane). Occorrerebbero poi controlli sull'assenteismo dei docenti.
Infine, riteniamo che i servizi di numerosi enti potrebbero essere resi più efficienti e fatti pagare più cari a chi li usa. Gli enti o servizi in questione vanno dalla Gazzetta Ufficiale a buon prezzo, mal stampata e poco reperibile, alle carte dell'Istituto Geografico Militare (poco costose e difficili da trovare).
Obiettivo sensato è quello di ottenere dall'insieme dei provvedimenti minori spese e/o maggiori incassi per circa 8-10 mila miliardi.

Complessivamente quindi, come si può osservare dalla tabella qui sotto riprodotta, si otterrebbe, nel giro di 2-3 anni, un miglioramento valutabile in 33-45 mila miliardi. E questo senza mettere in conto inasprimenti fiscali, riforme pensionistiche, tagli alla sanità e privatizzazioni, tutte cose in vario modo realizzabili.
Come si può vedere, la nostra Finanziaria sarebbe particolarmente "comoda'' per un ministro del Tesoro. Sarebbe però molto "scomoda" dal punto di vista politico perché inciderebbe davvero sui rapporti di potere e sulla distribuzione dei redditi in Italia. Taglierebbe rami secchi, imporrebbe cambiamenti. Ci sarà, in questa legislatura, un governo in grado di muoversi lungo queste linee?
Per i contribuenti di tutta la Cee, le novità non vengono più solo dai governi nazionali ma anche, in misura crescente, da Bruxelles. Il nuovo spettro fiscale che gira per l'Europa si chiama "ecotassa" e consiste in un prelievo, ingentissimo, sui consumi di combustibili fossili di tutta l'area comunitaria: addirittura 10 dollari al barile di petrolio greggio (o quantità di altri combustibili che producono energia equivalente). L'ecotassa potrebbe passare in fretta dai tavoli degli uffici studi alle colonne della Gazzetta Ufficiale Europea e diventare obbligatoria per tutti con pochissima discussione: piace, infatti, a molti.
Piace, in primo luogo, ai futuri beneficiari. L'euroburocrazia si trova infatti a disporre di risorse finanziarie assolutamente inadeguate alle proprie necessità (qualcuno potrebbe dire: alle proprie ambizioni), soprattutto perché largamente divorate dalle spese di sostegno all'agricoltura. Queste, nel 1990, hanno assorbito ben il 54,7 per cento del totale, lasciando spazi esigui alle cosiddette l'azioni strutturali", ossia alla politica industriale, con interventi in materia di trasporti, ricerca scientifica e tecnologica, alla politica regionale, eccetera. La preoccupazione per le esiguità del bilancio si proietta poi pesantemente sul futuro, in quanto le risorse derivanti dai dazi alle frontiere esterne - l'entrata caratteristica delle finanze comunitarie - tenderanno strutturalmente a decrescere con i progressi del Gatt e lo sperabile accordo mondiale sulla libertà dei commerci che dovrebbe scaturire dall'Uruguay Round. L'ecotassa farebbe piovere in un colpo solo e in maniera relativamente semplice una notevolissima massa di risorse finanziarie su Bruxelles. Considerando che il consumo comunitario di petrolio e carbone è di circa 4.500 milioni di barili equivalenti annui, il prelievo corrispondente sarebbe di 37,5 miliardi di Ecu, quasi 60.000 miliardi di lire, portando le entrate da 46,5 a 84 miliardi di Ecu, ossia raddoppiando circa l'eurobilancio.
In secondo luogo, l'ecotassa piace agli ambientalisti. Essa si inquadra nel piano per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, tipiche dei combustibili fossili, dai quali pare derivare il temuto effetto serra. Tale piano ha già portato Bruxelles ad approvare norme tassative che limitano le emissioni di ciascun Paese della Comunità e obbligano le imprese a importanti investimenti. Il piano dovrebbe risultare già sufficiente di per sé, ma l'idea di appoggiarlo con lo strumento fiscale, come ulteriore incentivo all'uso di altre fonti di energia, è indubbiamente benvenuta in questo segmento dell'opinione pubblica, che sovente nutre forti pregiudzi anti-industriali.
L'ecotassa può però, in terzo luogo, piacere non solo agli ambientalisti ma all'opinione pubblica in generale, in quanto può essere presentata come strumento in grado di migliorare la qualità dell'ambiente e prevenire l'autodistruzione della specie umana. I temi tecnologici toccano una corda molto sensibile nel cuore degli europei, come dimostra il successo commerciale di molti prodotti "verdi", dai detersivi agli alimenti. Inoltre, come per tutte le imposte indirette, la parte attiva della popolazione nutre ragionevoli speranze di riuscire a ribaltarla, almeno in parte, su altri. Noi invece guardiamo a questa prospettiva con notevole diffidenza per almeno quattro buoni motivi.
Siamo scettici nei confronti della burocrazia di Bruxelles. Pur senza condividere le posizioni estreme della signora Thatcher, che considerava gli euroburocrati più o meno come incarnazioni del demonio, riteniamo che un aumento senza controllo del loro potere sia comunque da evitare. Prima di introdurre l'ecotassa vorremmo veder ridurre i sussidi all'agricoltura. Riteniamo che nel breve periodo non ci sarà alcun effetto positivo sull'ambiente. Tutti gli studi in materia sono concordi nel dimostrare che l'aumento dei prezzi energetici non fa assolutamente calare il consumo di energia. C'è quindi la prospettiva che si continui a bruciare carbone e petrolio come prima, semplicemente pagandoli il 40 per cento in più.
Nel lungo periodo le emissioni si ridurranno solo se l'ecotassa sarà accompagnata da importanti interventi istituzionali, ossia da programmi di investimento in energie rinnovabili e soprattutto nel settore nucleare. Se davvero si decidesse per l'ecotassa occorrerebbe dedicare ampie risorse del bilancio Cee (rispetto all'1,5 per cento appena di oggi) alla ricerca energetica e ai controlli di sicurezza nucleari. E andrebbero conclusi accordi internazionali, altrimenti gli eventuali buoni risultati ambientali derivanti dagli sforzi europei sarebbero resi vani dall'aumento di emissioni inquinanti in altre parti del pianeta.
In media, ogni consumatore sarà gravato di una maggiore spesa di 110 Ecu. Il carico fiscale per una famiglia media europea corrisponderà a circa mezzo milione di lire l'anno, un importo paragonabile a quello di una "normale'' stangata di bilancio italiano, che rischia di passare senza sostanziali opposizioni. Dal punto di vista dei produttori, l'ecotassa penalizzerà la posizione competitiva delle imprese che esportano nei mercati esterni alla Comunità; all'interno dello stesso mercato europeo, colpirà maggiormente i Paesi, come l'Italia, più dipendenti dalle fonti fossili, rispetto a quelli che hanno sviluppato il nucleare.
Non vogliamo far sorgere equivoci: anche noi riteniamo che l'ambiente vada salvaguardato. Le soluzioni semplicistiche, come l'introduzione di un'imposta di questo tipo, si limitano però a sottrarre risorse e libertà di scelta ai cittadini, lasciando la questione ambientale fatalmente e perpetuamente irrisolta.


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