§ Memorie di un giornalista

Passaggio dal Sud (1)




Gennaro Pistolese



Quasi un secolo di un "provinciale" - come si diceva una volta e qualcuno rivendica peculiarmente oggi nelle sue memorie - dal Sud a Roma: e questa volta non nel Nord stesso, come accadde ad altri.
Sono nato a Melfi, in Basilicata, poi denominata Lucania, ritornata infine Basilicata. Una città, lo chiamavamo però paese, di una decina di migliaia di abitanti nel 1909, data della mia nascita, quasi all'indomani di un terremoto, quello di Messina, che ha lasciato tante profonde tracce negli animi e nella solidarietà in zone anche distanti e alla vigilia di quello di Avezzano, che rivive nella mia memoria di bambino per i soccorsi che anche nel mio paese di nascita venivano predisposti.
Subito dopo, la prima guerra mondiale.
Melfi, che ora si accinge ad essere sede di nuove allocazioni addirittura di avanguardia della Fiat, con una produzione improntata alla qualità totale di autoveicoli, con piani di competitività rispetto a quelli giapponesi, all'epoca aveva solo un'auto civile, di un avvocato, ed un paio di autocarri. Tutto il resto era affidato a qualche sporadica carrozza a cavallo, a taluni carri, ad asini e muli.
Questo paese ha una grande storia alle spalle, che risale agli inizi del Mille, capitale dei Normanni, con un castello di notevole rilevanza storica, ma allora certamente di impari manutenzione. Era, nei miei ricordi di oggi forse più veri e certamente più spontanei di quelli che potrei ricostruire con ricerche bibliografiche di occasione, un paese che si caratterizzava con una borghesia professionistica, preoccupata di un suo avanzamento culturale tuttavia circoscritto, con una borghesia di benestanti alimentata dalla proprietà terriera esercitata in gran parte nel mero conseguimento del reddito, con un ceto proletario che veramente esisteva in rilevante parte delle radici locali, oltre che per ragioni economiche anche per disparità di livelli ed attitudini "culturali".
C'era allora, fra gli altri, un esteso latifondo dei principi Doria, con relativo castello storico a Lagopesole. C'era altresì lo sforzo di creare una categoria intermedia, ma di questa le tracce erano limitate ad un terziario più o meno arcaico, che tentava anche di esprimersi con un circolo, chiamato società operaia, in concorrenza con un circolo della borghesia, anch'esso sociale. La socialità è stata sempre una "vocazione", sincera, forse pure comoda, comunque sempre carica di promesse e di buone intenzioni, per il nostro Paese.
C'erano e naturalmente erano molti i contadini, una parte dei quali era assorbita nel clientelismo padronale e politico, nella subordinazione alla sua parte culturalmente più avanzata, ed un'altra parte gravitava nella Camera del Lavoro, che allora non poteva che essere unicamente socialista. Il resto si risolveva politicamente in uno sbocco democratico-liberale, imperniato non su strutture o su programmi compiutamente articolati, ma solo su singole persone.
La più importante di queste era Francesco Saverio Nitti, di umili origini, ma per mente e cultura giunto realmente a livello di statista. Egli non aveva bisogno di proprie segreterie più o meno camuffate o di organizzazioni di partito, che frequentemente non esistevano neppure sul piano nazionale. Non faceva comizi. Visitava molto di rado il proprio collegio. Aveva invece i suoi più o meno grandi referenti. Taluni di essi appartenevano alla mia famiglia, di cui Nitti è stato ospite quando era Presidente del Consiglio ed in occasione di un paio di consultazioni elettorali. Le guardie del corpo allora anche per lui non esistevano. Ma qualcuno apertamente ed anche inconsapevolmente si poneva al fianco di chi riteneva dovesse proteggere e come dimostrazione del suo consenso popolare era invitato o costretto a salire su di un tavolino per indirizzare ai presenti, non sempre numerosi, appelli di fervida e attiva adesione. Ricordo che ad uno di questi attivisti, non certo volontario, che per prendere coraggio aveva alzato un po' il gomito, capitò di iniziare e di finire il proprio discorso con queste elementari e sincere parole: "Le forze mi vengono meno, mi manca l'intelligenza ... ". Quanta sincerità da parte di un fabbro ferraio, come si chiamavano allora quanti con questa definizione offrivano tante prestazioni, che poi si sono diversificate nel tempo. Ma, soprattutto, una sincerità che non ha avuto più storia.
Naturalmente, come si usava anche allora dai politici, quale segno di familiarità e di domestiche relazioni pubbliche, sono stato sulle ginocchia di Nitti, circondato dalla moglie Antonia (come Raissa Gorbaciova poco fa o Barbara Bush oggi) che lo accompagnava ovunque, insieme col proprio fratello Persico e un giovane senatore, Di Lorenzo, che seguiva lo statista in ogni luogo per gratitudine. Allora non esistevano le affiliazioni correntizie dei partiti.
Era così tutta una famiglia, questa famiglia, impegnata nel suo fervore elettoralistico, con tanti convinti di base per concordanza di idee, ma anche per convergenze e simpatie di ceti. Nitti, oltre tutto, era ammirato per la sua intelligenza, ancor oggi fuori discussione, per la sua cultura, per la sua capacità e le sue intuizioni di statista. Queste capacità, Re Vittorio Emanuele III, suo Re, a quanto si sa, non ha mai contestato, limitandosi a dire che mascheravano a malapena la mancanza, fisica o morale non si sa, di coraggio. La verità è che un certo realismo, accompagnato da una dose di pessimismo, ha distinto tutta la carriera politica di Nitti, prima della marcia su Roma. A lui si devono misure come l'amnistia ai disertori - a Melfi per contro esiste, e la ricordo, una delle lapidi commemorative dei caduti nella prima guerra mondiale più ricche di nomi -, ma anche decisioni politico-finanziarie anticipatrici (penso all'assetto assicurativo, alle provvidenze per gli ex combattenti), presagi di validità incontestata, come quello che gli ha ispirato subito dopo la prima guerra mondiale il libro L 'Europa senza pace. E' un libro che io ricordo dalla sua prima edizione, perché della sua cartolina editoriale egli si è servito durante la campagna elettorale. La propaganda elettorale si faceva anche così, prevalentemente così, con mezzi modesti, quando si poteva o si riteneva necessario. In opposto D'Annunzio ha preferito definire Nitti "Cagoia" ed il fascismo si è servito di questa definizione. Sempre in opposto, bisogna ricordare che Melfi gli ha dedicato una lapide nella sua casa natale -sentendola annunciare da mio zio che ne fu promotore, mi limitai ad interloquire che bisognava aggiungerci "una prece" (perché così allora si usava scrivere sulle lapidi che conoscevo) - e come vantaggio pratico della natalità data a Nitti non ha ricevuto neppure quello di una pubblica fontanella. Allora usava così. Oggi la storia dei favoritismi è tutta diversa.
Fra parentesi riguardo sempre a Nitti, dirò - per quanto concerne i ricordi miei e della mia famiglia - che ebbe al suo fianco un giornale che si chiamava "Il Paese", che la sua abitazione di via Farnese a Roma fu saccheggiata da squadre fasciste (ricordo perché ad un tavolo di Aragno, dove ero con mio padre, uno squadrista si compiaceva di aver asportato poco prima dalla casa di Nitti dello zucchero), che mio padre lasciò all'Hotel Park di Roma, dove in seguito Nitti si era trasferito, un biglietto da visita per solidarietà, come tacitamente ed implicitamente si usava allora, che egli emigrò all'estero. Rientrato in Italia dopo la seconda guerra mondiale, mio zio gli fece trovare pronto nuovamente "Il Paese" - e per le successive passività di detto giornale il patrimonio ereditato da mio zio, e così la casa avita di mio nonno, dove sono nato, andò a pezzi. il primo discorso fu pronunciato al San Carlo di Napoli: una manifestazione organizzata sempre da mio zio, che suscitò entusiasmi, ma non effetti politici. Lo stesso Nitti si accorse che la base referente dell'elettorato era cambiata, che altri sbocchi elettoralistici erano da ricercarsi ed egli, come mio zio, li ricercò sul fronte delle sinistre, ma senza successo.
Nitti, inopinatamente per lui, si trovò di fronte un clientelismo che non esisteva più, nelle forme originali, una tecnica dei comizi che prendeva il posto dei pranzi elettorali - di uso oggi in America, ma praticati prima del fascismo in Italia -, i primi approcci del "porta a porta", di cui operatori esemplari sono stati, com'è noto, i comunisti.
Sennonché Nitti per muoversi aveva bisogno, per difficoltà ai piedi, delle pantofole, e così rinunziò a questo mezzo, ed entrò in una specie di eclissi certamente maggiore di quanto le sue capacità, la sua esperienza, la sua coerenza avrebbero consentito. E questo è purtroppo il destino di tanti personaggi, che la storia manda in pensione prima del tempo e spesso a suo discapito, perché altri più smaliziati ed avventurosi incalzano.
Nitti, quindi, una stella polare della mia terra - ed altre successivamente, purtroppo, non ci sono state - che così ha folgorato, e folgora nella mia memoria, alla quale se ne affianca un'altra, limitrofa alla mia terra: parlo di Giustino Fortunato, di Rionero in Vulture.
E' stato ed è tuttora un grande meridionalista. Ha intuito prima degli altri, ha scritto, ha sollecitato il Parlamento a fare quello che allora non si è fatto e che oggi ancora si stenta a fare. Ed è passato oltre un sessantennio dalle ultime sue sollecitazioni ideali e pratiche. Anche lui poco o nulla ha fatto per il suo paese natale, perché pretendeva che quanto doveva essere fatto non dovesse discendere da iniziative, opzioni, preferenze individuali, sia pure autorevoli, ma da riconoscimenti ed adempimenti di un Paese tutto intero. Anche così doveva essere fatta l'unità di Italia, secondo lui.
Sennonché questo secolo sta per finire ed il problema e la tematica sul Sud sono sempre gli stessi. La questione meridionale è questione nazionale. Se c'è un alfine da rispettare a questo riguardo, c'è anche e soprattutto un dovere da assolvere oggi, concretamente e subito. Si fa invece l'autocritica sulla politica per il Mezzogiorno, ma continuiamo ad essere distanti dall'imboccare la strada maestra. Se ne parla sul piano politico ed elettoralistico, ma pochi o nessuno dicono le cose chiare e concrete che si dovrebbero fare. Cosicché per la strategia riguardante il Mezzogiorno si passa da un annuncio all'altro, da una esperienza pur negativa ad un'altra che promette poco di buono perché ha gli occhi puntati sul futuro ed ignora insegnamenti del passato. Probabilmente, esperienza e saggezza che ne dovrebbe essere la figlia fanno sempre meno gola. Perché? Forse perché l'ansia del domani e il cosiddetto attimo fuggente, fanno premio su tutto il resto?
Ma, a proposito di Fortunato, c'è anche un altro ricordo personale. Mio padre ne era un fervido ammiratore, aveva nel suo studio di avvocato a Melfi una sua fotografia con dedica. Lo frequentava nelle sue visite a Napoli, dove Fortunato abitava, fino alla conclusione della sua vita, a Piazza dei Mille. Di lui mio padre due cose mi ricordava, e cioè la cordialità con la quale riceveva i suoi corregionali - ad introduzione dell'incontro una cameriera prontamente offriva il caffè con tazze di cui mio padre stesso adottò per noi il modello - e le intuizioni non certo ottimistiche con le quali presagiva il futuro. Egli una volta domandò a mio padre se avesse un figlio maschio, indovinando per la mia generazione un futuro difficile. Aveva ragione! Mio padre non poteva certamente attenderselo. A me e ad altri invece è successo e purtroppo tutti lo sappiamo.
Sempre restando su questa angolazione politica, e parlo di poco più degli anni '10 del secolo e poco meno degli albori degli anni '20, con un io oscillante intorno agli anni '10, due altre realtà mi sono dinanzi, e cioè quella socialista e quella fascista. Sì, pure fascista.
Orbene, la realtà socialista è dinanzi al miei occhi. Perché, come ho detto prima; c'era una Camera del Lavoro che faceva da pilota, con un socialismo locale che più che fare da supporto ne era beneficiario. Ricordiamoci anche di questo, quando classifichiamo certe origini e priorità. Nella mia terra - c'era anche un certo esempio derivante dalla vicina Puglia e da Cerignola, dalla quale trae origine lo stesso De Vittorio, che anche un imprenditore come Costa, e lo dirò più innanzi, ammirava - il socialismo cercava di sopravanzare sugli altri.
C'era un segretario comunale socialista, del quale ricordo le vicende sessuali, che richiesero anche un intervento dei carabinieri; c'era un sindaco, medico, chiamato a quella carica più per motivi di censo, come si diceva allora, che non per ragioni o pretese partitiche; c'era stato anche un commissario prefettizio.
Personaggio locale emergente, socialista, era Attilio Di Napoli, deputato e successivamente così rappresentativo da divenire, sempre come esponente socialista, ministro dell'Interno nel Governo Badoglio, prima edizione: quella di Brindisi. Era fra gli altri collega e amico di mio padre, ed a mezzo suo ottenni poi a Roma la tessera dei familiari di deputati per la frequenza della tribuna ad essi destinata di Montecitorio. Siamo nel 1923. Ma i commessi della Camera, ad un certo momento, sospetti di una parentela che non esisteva, ritiravano la mia tessera. Il mio sogno di assistere alle sedute parlamentari così bruscamente finiva.
Finivano per me le figure reali di Filippo Turati, il socialista barbuto che vedevo mangiare la cosiddetta "colazione alla forchetta", che oggi non esiste più, al caffè Guardabassi di Piazza Montecitorio, con un Giacomino in frac che gli serviva (lo serviva anche a noi adolescenti) il gelato alla charlotte; di Modigliani, con la barba che sopravanzava tutto il resto della sua figura. Aveva gridato "Viva il Parlamento!", quando Mussolini all'indomani della marcia su Roma alla Camera aveva detto che di quell'aula "sorda e grigia avrebbe potuto fare strame per le sue squadre". Nessuno tuttavia dette retta a Modigliani. Men che meno la mia generazione, che con me se ne giustifica con la propria adolescenza.
Ma prima, a Melfi, con questo fascismo o prefascismo - ed il tutto cominciava ad impegnarmi perché iniziavo a crescere - che cosa osservavo?
Rilevavo una certa contrapposizione di circoli. Da un lato, il circolo sociale dei benestanti, dall'altro la società operaia degli aspiranti tali. Poi una Camera del Lavoro con l'insegna rossa, che prometteva, ma poco era in grado di assicurare, i contadini che alle quattro del mattino con gli asini che fino a poco prima avevano condiviso con loro la sosta della notte, talvolta nella stessa unica stanza, riprendevano il loro mattutino cammino per ripeterlo con il ritorno della sera. Le cosiddette case coloniche non c'erano, i contadini stessi non le volevano, l'estremo spezzettamento dei terreni frazionati al massimo per parcellizzazione degli estagli non le consentiva. Tanti anni sono trascorsi così.
Ad un certo punto anche per noi adolescenti del Sud si è inserito il fascismo, come si sa recepito dal Nord, nella illusione per tanti di una nuova stagione, destinata di fatto a lasciare poche tracce, rinvenibili invece nell'esteriorità di alcune limitrofe città pugliesi nel campo delle opere pubbliche, ad esempio.
Ma che cosa ha rappresentato il fascismo per alcuni di noi? A 13 anni, per me ha significato un appello rivolto direttamente a chi in un piccolo paese non voleva restare ai margini. Per quelli più grandi c'era l'Azione Cattolica, ma non a Melfi e, per gli universitari, la Fuci, ma universitari a Melfi non ve n'erano perché i pochi laureati divenivano subito professionisti. I giovani e i giovanissimi volevano invece dire e contare qualcosa. Naturalmente anche sbagliando. Non avevamo esempi, non c'erano precedenti.
Così c'è stato un fascismo anche a Melfi. Ma come lo ricordo? Come ci sono entrato e con quanta consapevolezza?
La matrice del Fascio di Melfi risale all'estate del 1922, ad 'iniziativa di un avvocato, già combattente, (e figlio di un avvocato più valido e solenne di lui), e del figlio di un notaio, che aveva studiato a Firenze: elementi quindi di una borghesia che si erano posti sulla scia del vicino esempio pugliese, che già contava su di una certa organizzazione (a Foggia addirittura su di una cavalleria fascista, che partecipò spettacolarmente alla marcia su Roma; a Bari su Di Crollalanza e altri, ecc.), e rispondevano a richiami e motivi poco o niente affatto fondati sulla realtà locale. Il fenomeno, infatti, nasceva da giovani di una borghesia che, per la quasi totalità delle sue radici, era nettamente democratico-liberale, con e caratteristiche funzionali prima richiamate.
Si trattava dunque di una contrapposizione di generazioni o di un confronto fra quanto si era imparato e si cercava di imparare altrove e quanto invece era nella tradizione locale e naturale del Sud di allora?
La domanda sorge tanto più naturale quanto più si tiene conto del fatto che allora anche in Basilicata la struttura pubblica era dominante (Melfi era sede anche dì una Sotto-Prefettura, quale capoluogo del Circondario, aveva un Tribunale con magistrati di rilievo, come per molti di essi le successive carriere - anche per mio nonno materno - hanno confermato a livello di Cassazioni e poi di Cassazione unica, disponeva di un istituto tecnico con insegnanti anche donne, allora tutt'altro che frequenti, accoglieva un Vescovado ed un Clero vivo anche culturalmente) e la lotta di classe, pur animata da un avvocato che poi doveva - come già ricordato - divenire ministro dell'interno nel Governo Badoglio di Brindisi, non fu mai virulenta e solo raramente violenta, a differenza di quanto avveniva altrove. Di visibile, per questo socialismo, c'erano la celebrazione in campagna del 1° Maggio con un rientro in serata nel paese con qualche platonico clamore, l'esposizione permanente ma stanca della bandiera rossa all'esterno della Camera del Lavoro, l'invio di una commissione d'inchiesta a Melfi per atti di violenza su iniziativa socialista (la capeggiava l'on. Ciccotti Scozzese), e minoranze sempre socialiste in molte amministrazioni comunali, talvolta anche riformiste.
Qualche cosiddetta spedizione fascista veniva compiuta di tanto in tanto, con scarsa rilevanza e consistenza, in comuni vicini. Ma si trattava il più delle volte solo di esibizioni, alle quali il molto limitato e forse ancora sconosciuto uso della camicia nera poteva dare risalto. C'era chi l'aveva e si limitava ad esibire una semplice fascia nera, magari con il ricamo di un teschio. Il mio maestro di prima elementare nel 1914 ne era stato certamente un antesignano, ma la indossava con il colletto duro (il che sarebbe successivamente spiaciuto al segretario del partito, Starace, che negli anni '30 ne aveva con "foglio disposizioni" impedito l'uso) per il lutto dovuto alla morte della moglie. Si usava allora per i lutti la fascia nera al braccio o il vestito interamente nero, ma a lui a cui devo il mio primo abc non era bastato e la sua camicia nera culminante in una bombetta nera - anche Mussolini aveva esordito nella stessa maniera - costituì il nostro primo infantile approccio con questo successivo, ultraventennale rito.
Un rituale che ai suoi inizi (sempre prima della marcia su Roma) poteva esercitare qualche suggestione anche fra gli adolescenti, ed io - che a Napoli nel '21 avevo visto striscioni elettorali, comizietti nelle piazze, sparute squadre fasciste di padovani reduci da manifestazioni di forza e a Benevento, poi, agli inizi del '22 nel locale Convitto nazionale, avevo cominciato ad ascoltare qualche compagno di classe (io facevo la quarta ginnasiale) che parlava di sua partecipazione a movimenti fascisti giovanili - quando sei adolescenti di Melfi si resero promotori della locale Avanguardia Giovanile Fascista (occorrevano 16 anni per aderirvi) presentai la mia domanda di ammissione. Avevo invece 13 anni e la mia famiglia era sospetta, perché non certamente fascista. Sennonché vi fui accolto perché alle mie spalle c'era il prestigio personale, pur se antifascista, di mio padre. Cosa significassero allora questi prestigi trova anche questa conferma del tutto irrilevante. Oggi, invece, i "valori" che si muovono a tutti i livelli sono ben diversi.
Ma di questa mia terra, prima che il mio definitivo distacco da essa, avvenuto come dirò in seguito agli inizi dell'anno scolastico 122-123, perché mi trasferivo definitivamente a Roma, mi avesse impedito e mi impedisse di approfondire, verificare ed estendere ricordi, alcuni tratti sono innanzi ai miei occhi.
Tanti pilastri: la famiglia, la scuola, l'ambiente sociale ed economico, la prima guerra mondiale, e così via.
La mia famiglia aveva come capostipite un vero e proprio patriarca, padre di dieci figli. Laureato a 19 anni in Giurisprudenza a Napoli sotto Ferdinando II Re delle Due Sicilie, di Gerusalemme (sì, Gerusalemme), Duca di Parma, Piacenza, ecc.
E ciò avveniva nell'aprile del 1854: quanta storia dopo di lui ed anche di mio padre, nato nel 1874. Io sono nato all'indomani della morte di mio nonno, un anno dopo. E ne parlo perché, certamente, come lui tanti altri nel Sud profondo o meno hanno avuto la stessa storia: di padri esemplari, giusti nei loro comportamenti conclusivi nei confronti dei loro figli, uno per uno giudicati e compensati con assoluta equità, pensosi dell'avvenire, mai abbandonati all'alibi del fortuito e dell'imprevedibile. Erano menti, oltre la sua, che sapevano spaziare, che con limiti di sopravvivenza inferiori ai nostri riuscivano oltre che a realizzare ad immaginare, però con ipotesi calcolate, tante, tante cose diverse. Sono stati certamente pionieri di qualcosa, che poi è stata portata innanzi, con una visuale spesso non immediatamente gratificante, il che certo allora spesso era frequente.
In sostanza, questi avi hanno esemplarmente saputo e voluto camminare per noi. E le loro tracce sono davanti ai nostri occhi, anche se talvolta quello che loro hanno costruito, oggi, con il passare degli anni, porta addirittura un altro nome. E' ad esempio la sorte del palazzo - o casa - avito, di fronte al Vescovado, che oggi reca un altro nome, quello di chi l'ha acquistato. Era una costruzione che a me, bambino, sembrava avere proporzioni più o meno colossali. D'altra parte ricordo che, passando innanzi ad essa, un vecchissimo avvocato, che indossava una mezza tuba ed un tight grigio (cosa erano gli indumenti di allora, però siamo sul finire degli anni '10, e siamo nel Sud!), ma evidentemente era in sofferenza sclerotica - e noi bambini purtroppo lo deridevamo -, esclamava sempre, immaginando di esser davanti al Palazzo Reale di Napoli, "Maestà, siam fottuti!". E si trattava di una sua persistente contestazione dell'unità d'Italia, ed allora non c'erano le Leghe.
Ma la famiglia allora mi dava ancora. C'era una vecchia nonna, che aveva lasciato le cose come il marito gliele aveva lasciate, che era nipote di un archiatra di Ferdinando II. Archiatra che aveva addirittura scoperto delle arterie che portano il suo nome, che ha continuato a vestire di nero fino alla propria morte, che si recava giornalmente a messa alle 6 del mattino, che aveva tanti figli intorno a lei, ma ne prediligeva uno, il più piccolo, che aveva tutti i riconoscimenti e tutte le preferenze, senza sollevare le gelosie degli altri. Il primogenito aveva una autorità convenzionale, ma il minore ne aveva le prerogative più sincere e sentite. Non so se sia ancora così, ma allora lo era.
E poi c'era l'unità, anche se talvolta apparente, ma sempre formalmente ineccepibile, della famiglia. Con fratelli, sorelle, cognati, nipoti (forse un po' meno), e ognuno faceva la sua parte. Parte che in un piccolo centro era più focalizzata, motivata, verificata e verificabile per le tante occasioni che la richiedevano in un sistema di vita che certo non disponeva delle integrazioni e dei sostitutivi di oggi.
Due cose ricordo di quel tipo di famiglia, pur di una borghesia in un certo senso avanzata per i tempi di allora. La parsimonia nel consumo del pane, che era orgoglio preparare in casa per farlo cuocere ad un forno commerciale; l'analoga parsimonia da parte sempre di mia nonna nel consumo della luce, a petrolio in quella casa a quel tempo. Sono due punti di riferimento di una generazione del Sud, che oggi invece ha a che fare con la realtà dell'imminente Duemila. Una quindicina di famiglie della Melfi di allora aveva queste caratteristiche ed inseguiva gelosamente questi valori. Il fatto è che nel tempo la quasi totalità di esse non c'è più o ha perso i suoi connotati originari, per una emigrazione di questo ceto che pur non avendo la dimensione di quella del ceto contadino - e a Melfi, negli anni della mia infanzia, si è avuta anche un'emigrazione nel Nord America, pur senza fortuna, tant'è che esisteva un'agenzia marittima con quella destinazione: era l'epoca della canzone delle cento lire perché in America si voleva andare e lo si diceva alla madre -, ha subìto i richiami di Napoli, Roma, e di talune città del Nord.
A Roma, soprattutto, si è trovato lo sbocco, e qualcuno ha detto poi ai migliori di questi emigranti che dovevano restare nel Sud, per concorrere meglio a farvi quanto finora è stato fatto male o non è stato fatto per niente.
Questa, dunque, era la famiglia e non ha mai avuto a che fare con strade divergenti dalla rettitudine e dall'onestà. Perché questo termine, tanto caro nei nostri cuori e nelle nostre convinzioni, può avere oggi un significato diverso? E perché tanto arbitrio?
Il secondo anello della vita, dopo quello della famiglia, che ovunque ci dà tutto, e nel Sud ha certamente accentuazioni sentimentali più vive di rimembranza e di pratica (almeno questa è la nostra credenza o illusione di meridionali), è quello della scuola.
A Melfi, allora, ma penso in molti altri paesi del Sud del tempo, c'era una serie di aule non unificate, ma disperse sul territorio. Ogni classe aveva la sua aula in questo o in quell'angolo del paese. C'era però un direttore didattico, che cercava di fare quello che gli spettava nel campo dell'organizzazione dei controlli, il più delle volte non necessari, ma comunque occasionali. Allora non c'erano sindacati dei pubblici dipendenti, questi cercavano di fare al meglio la loro parte, anche perché paventavano ispezioni e contestazioni che in un ambiente ristretto avrebbero avuto risonanza e forse effetti più dirompenti. A livello di insegnanti la scuola allora riusciva ad essere una cosa seria, e ciò non confermano solo le immagini e l'età degli insegnanti di allora, come la nostra memoria infantile li ricorda, ma anche l'esempio della loro figura. Questa, anche esteriore.
La mia prima elementare risale al 1914, con una maestra che si chiamava La Stella: forse di fatto una stella lo è stato anche per me. Mia madre ha fatto ricorso a lei, perché in casa ero troppo assillante (diciamo così). Chi mi ha insegnato a leggere e a scrivere (ma per questo termine limitiamo a quanto esso significa letteralmente, perché nello scrivere, anche come giornalista per tutta la mia vita, ho evidentemente imparato molto poco) è stato il maestro, austero, con la camicia nera ante litteram di cui ho parlato prima.
Di questo primo anno di scuola ricordo poco. Due vestiti, e addirittura il colore di Lino di questi, che mia madre mi aveva fatto confezionare per farmi iniziare la mia vita di società (ricordiamoci che l'inizio scolastico è la prima forma di società che ognuno di noi deve praticare: altro che i 18 anni e i debutti! Una donna, poi, dal volto angoluto, e comunque per me allora ritenuta in età avanzata (ma probabilmente in realtà non aveva più di 40 anni e forse meno). Una serie di nozioni, delle quali non ricordo nulla, eppure tutte agiscono ed hanno agito in quello che ho scritto ed ho letto.
E' poi giunto il maestro della camicia nera. Del quale ricordo bacchetta (per le cosiddette "spalmate" sulla mano, fatte con il righello ad ogni nostro errore) e lavagna, quest'ultima non per andarci dietro, per punizione, come si usava anche allora, ma perché non sapevo scrivere quanto mi veniva dettato.
Seconda e terza elementare, invece, hanno la stessa vita. Hanno in comune l'identità del cognome dei due insegnanti, padre e figlio rispettivamente. Ricordo, però, un'atmosfera più sorridente ed anche un ambiente più luminoso. Realtà o illusioni sopravvenute negli anni? Tante erano invece le scale da percorrere per giungere all'aula.
In quei due anni tutto, secondo i miei ricordi, ha proceduto regolarmente.
Un fatto invece mi inquieto allora ed a riviverlo oggi continua a turbarmi. Ed è il richiamo alle armi della classe 1874, quella già anziana alla quale apparteneva mio padre. Prima dell'inizio della guerra mondiale non mi ero reso conto di essa, vedevo solo un mio zio vestito da sottotenente della Sanità (ma lui era ginecologo, fra l'altro successivamente molto bravo e noto), un suo attendente, di nome Luigi, vestito con una uniforme ottocentesca (ricordiamoci che i soldati allora vestivano anche con il kepì, la giacca blu lunga e i pantaloni azzurri), e del resto poco o nulla sapevo o ricordo. Il richiamo di mio padre fu un evento importante nella mia vita di bambino e lo sa certamente chi con me anche nel Sud, periferico come il mio di allora, lo ha vissuto. Certe notizie allora bisognava ricavarle solo da un giornale, Il Mattino, che arrivava al lettore di provincia per lo meno 24 ore dopo. Ma con questo accadimento andiamo oltre quanto può interessare gli altri. Comunque, rispetto a questa guerra bisogna dire che la borghesia del Sud più che essere impetuosa - Melfi, che nondimeno poteva vantare i suoi arditi di guerra e qualche membro delle cosiddette Compagnie della morte - non manifestava intenti conservatori o comodamente pacifisti, ma registrava sostanzialmente la voce di Roma.
Siamo così alla quarta elementare della vita di un bambino del Sud, non certo esemplare, ma indicativo per il Sud di un modo di essere e di entrare nella vita: una vita che poi oggi si è spinta fino alle soglie prossime del secondo millennio.
L'insegnante, sempre anziano non solo per i miei occhi - ma chi era dietro la cattedra allora, quale ne fosse il grado, manifestava e riscuoteva una certa dignità sollecitata anche dagli anni: il modo severo pur se non ricercato di vestire ne era pure motivo - aveva certamente qualche cosa di nuovo da farci intendere. Al di là delle stesse nozioni che impartiva.
Di lui sussurravano che era un socialista non militante. Allora si poteva essere ideologicamente impegnato senza sollecitazioni di contropartite, con convinzioni magari circoscritte ma chiare soprattutto per se stessi. Il mio maestro mi appariva più riservato, ma più penoso degli altri. Era forse il momento che il Paese attraversava.
Ad un certo momento egli inventò qualche cosa, evidentemente per farci capire che cosa avrebbe dovuto significare per il cittadino di domani la democrazia, con l'ineliminabile appendice delle elezioni. E così indisse le elezioni per la nomina di un sindaco nella nostra classe. Nessuno di noi ne capì il significato e nessuno fece la propaganda pre-elettorale a proprio favore, che pure sapevamo esistesse e fosse praticata, come prima ho detto. Qualcuno di noi - perché il padre lo pretendeva per sua utilità - anzi durante le elezioni politiche ed amministrative, che anche allora si susseguivano, predisponeva le schede con le preferenze, che poi venivano distribuite alle "clientele familiari". Quelle democratiche di Nitti recavano come emblema due mani che si intrecciavano: un segnale di solidarietà, che poi abbiamo visto ripetuto negli emblemi di tante mutue.
Comunque queste elezioni della quarta elementare furono fatte. Furono da noi ritenute un adempimento scolastico, come un tema, un dettato, un problema. Pur assente, perché ammalato, fui eletto sindaco (perché?), ma subito dopo la cosa era finita. Era stato un insegnamento, ma nessuno di noi se n'è mai accorto.
E la scuola proseguì per me, con l'insegnamento privato, perchè a Melfi c'era una scuola tecnica pure qualificata ed egregiamente esplicata, ma non c'era un ginnasio per l'insegnamento classico. C'erano in compenso alcuni preti atti all'insegnamento svolto con una vera e propria cultura alle loro spalle e due di questi con più o meno successo mi hanno portato alle prove pubbliche di esame al Ginnasio Liceo Luigi La Vista di Potenza, una città questa che ricordo perché mi appariva una vera città e per raggiungerla si usava un treno che impiegava varie ore per il relativo percorso. Qui c'era un teatro, c'era la Prefettura, c'erano caffè, qualcuno dei quali mi ricordava quelli di Napoli, c'era la grande sede del Banco di Napoli, ai miei occhi imponente, ma certo rappresentativa, perché il suo direttore generale, Miraglia, era nato in questa città. Qualcuno, potendo, aveva pensato alla sua terra, ma non erano stati molti.
Giungere in questo quadro a parlare dell'ambiente civile ed economico, dopo averne considerati alcuni aspetti e riferimenti di base, scuola e famiglia, attivismo politico forse in un'accentuata contrapposizione o per lo meno divisione di ceti, che poi i tempi hanno superato, nella loro perentorietà di allora, è in gran parte implicito in quanto siamo venuti dicendo.
C'era anche qui un centro storico, ma allora questa locuzione urbanistica non esisteva. C'erano un paio di grandi strade, con i ciottoli, non più di tre o quattro palazzi che tali potessero chiamarsi (e tuttora lo sono), c'era una bella cattedrale, c'era un castello normanno di cui ho detto, un teatro raramente aperto, un Municipio con un esemplare sarcofago romano rinvenuto agli inizi del secolo, e poi mia lunga serie di strade tortuose, di case, rifugio di contadini e di animali, essenziali per la vita della cosiddetta civiltà contadina. La civiltà di allora del mio paese, corretta da quanto la borghesia più avanzata cercava di fare o di ottenere per migliorare il suo habitat: habitat di relazioni e di attività professionali ed economiche. Poche, ma spesso di una certa validità le prime, inadeguate le seconde, con un terziario in retromarcia e con qualche modesto spiraglio indotto da qualche centro non della Regione, ma più o meno vicino.
L'albergo era a dir poco primordiale, gli sportelli bancari erano tre, ma due di essi erano al secondo piano (e parlo del Banco di Napoli e della Banca Popolare di Pescopagano, ora anche a Brindisi, con le note potenzialità di oggi e 'una e maggiormente dell'altro), mentre il terzo era della Banca Italiana di Sconto, poi naufragata a livello nazionale.
C'era ancora una caserma, che raccoglieva un battaglione, con compagnie anche di granatieri (!); c'era la stazione dei carabinieri, che disponevano di qualche carrozzella pubblica per il trasferimento dei detenuti, regolarmente ammanettati; c'era un ospedale con un paio di camere, ma sembrava più un rifugio per qualche malato randagio che non un luogo i assistenza e di cura.
Lo sport era ai margini. Qualche ragazzo aveva inventato un pallone di tela, qualche altro si era iscritto ad una squadra di boy-scout, di cui era più appariscente la nota divisa che non l'attività. La piazza del Municipio ne era il centro, come la non lontana ferrovia a binario unico esercitava un richiamo per la fuga, almeno con il pensiero. Anche la posta aveva la suggestione delle lontananze, con un telegrafo che allora era quanto mai importante, suggestivo ed unico apportatore di notizie con una cabina telefonica quasi sempre deserta, con sportelli che facevano ritenere importante solo chi vi si recava e così via.
Un paese che tutto sommato non mi appariva allegro, perché l'occasione per esserlo era principalmente quella della ricorrenza della Madonna dell'Assunta, con celebrazioni che tuttora persistono e che altrove vengono presentate come folklore, mentre sempre fra le popolazioni del Sud hanno rappresentato e rappresentano qualcosa di più profondo e complesso. Allora erano i notabili del luogo che con il loro contributo ne affrontavano le spese, e fra le maggiori di queste vi era quella per una banda musicale che normalmente era quella di un vicino paese, Spinazzola. Ed. essa doveva cominciare con il risvegliare il paese, intorno alle otto del mattino. Le feste locali allora iniziavano così, con il mercatino all'uopo organizzato da un commercio ambulante che sopravveniva per l'occasione, con un palco per la banda che alla sera si esibiva in un improbabile concerto, con le mongolfiere spinte verso l'alto. E con tanti gelati e granite, che comparivano molto occasionalmente nel resto dell'anno.
Parlo di Melfi, paese invidiato nel resto del circondario; paese oggi radicalmente mutato, nella composizione dei ceti e nel volto stesso di una urbanistica che cerca di allinearsi con quella dei centri' vicini più avanzati; con un sistema stradale che comincia ad essere valido, con molti contadini che giungono sulla terra, prima raggiunta a dorso di asino o di mulo, con la loro auto, che prima erano fittavoli ed ora sono proprietari, sia pure con l'intervento della Cassa per la formazione della proprietà contadina.
La realtà è cambiata, sta cambiando, purtroppo in taluni aspetti divide con i grandi centri malanni sociali prima inimmaginabili, così che viene pagata alla civiltà qualcosa che con essa non ha nulla a che fare, ma che essa puntualmente pretende. Le metropoli insegnano più in fretta di quanto non sia stato ai loro albori, ed anche la Basilicata sta pagando la sua parte.
La prima guerra mondiale ha certamente dato il primo scossone a questa realtà e ne ha preparata qualche prospettiva diversa. La mia infanzia poco o nulla ricorda del suo inizio. Della sua prosecuzione e della sua conclusione i ricordi sono invece più vivi. Melfi nel suo castello ha raccolto un gruppo di ufficiali austriaci prigionieri: erano giunti fin qui. Come erano imprevedibili i servizi logistici di allora, come lo erano stati anche per la sistemazione di profughi veneti catapultati pure a Melfi. Di questi ufficiali austriaci ricordo la candida giubba bianca che vedevamo nel corso delle loro uscite, scortati dai nostri soldati con fucili spianati ma inoffensivi; così come ricordiamo la fuga riuscita di due di essi dal castello, con lenzuola annodate. Poi i films ci hanno mostrato tanti altri episodi del genere, ma io evidentemente ne dovevo sapere qualcosa di più.
In questo periodo nella mia mente c'è anche Caporetto. Due episodi ad esso si collegano.
Uno riguarda i commenti, fatti nel circolo del paese, da mio padre, che era stato molto duro nel giudicare cause e responsabilità. Il Sottoprefetto ne prese nota, fece la frequente confusione di pubblici ufficiali fra giudizi pur motivati e pregiudiziali possibili imputazioni, ricorse alle intimidazioni para-amministrative, ma rimase isolato per la sua insipienza e la sua ambizione a fronte di uno scambio amichevole - il tutto si svolgeva in un circolo di amici - di opinioni. Di Caporetto è piena, come si sa, la storia successiva della nostra Italia, ma chi diceva anche allora qualcosa, di giusto o di opinabile non conta, poteva suscitare i malumori del Palazzo. Questo, dunque, è sempre esistito, con la sola differenza fra chi lo ha fatto valere di più e chi di meno. Al limite c'è anche una dittatura che naturalmente non ci dovrebbe essere, anche se purtroppo la mia generazione ne ha un'esperienza, come c'è la cosiddetta democrazia incompiuta, che anche per ragioni di sperata o conseguita preponderanza non vuole essere compiuta.
L'altro episodio riguarda il discorso, questa volta alla società operaia, di un ufficiale di marina, nato a Melfi, figlio di un tabaccaio (si chiamava Gabriele, al pari di D'Annunzio). Del poeta, appunto, questi aveva sposato una figlia naturale, la protagonista di uno dei più celebri romanzi dal "vate" scritti con la cecità di un occhio.
Una fotografia del poeta nella tabaccheria del paese rimembrava due Gabriele, che così si ricordavano.
Orbene, questo discorso incitava la popolazione alla resistenza ed alla vittoria che poi, nonostante l'infelicità oratoria di quell'ufficiale certo più bravo nella guerra che non nell'eloquenza, come mi parve di capire in quell'occasione, sul finire del 1918 doveva sopravvenire.
Io ero insolitamente molto attento, naturalmente mi fa piacere vantarmene, perché mi è sempre piaciuto guardare fuori la porta di casa, e così sono divenuto anche giornalista (al liceo però avevano detto a mio padre che non avevo fantasia e certamente ne ho avuta meno del necessario, anche per il mio mestiere di verità).
Ad un certo punto la guerra è finita. Avevo nove anni, e distratto fra i libri di scuola, gli esami da sostenere, la lettura del Corriere dei Piccoli o del Cuore di De Amicis - queste le letture propedeutiche di allora per i bambini del Sud, che non spartivano con quelli del Nord le più progredite scelte di letteratura inglese infantile o parafantile: le miss erano tanto in voga per chi poteva permettersele o per chi non potendo riteneva che dovesse averle lo stesso - me ne sono accorto solo perché mio zio, il sottotenente a Melfi del Corpo Sanitario, atlante alla mano faceva vedere a moglie e figli ciò che era avvenuto e che gli permetteva di ritornare a Napoli.
Io rimanevo senza due cugini di giuoco, e gli altri partivano. La guerra era però finita. Tutti ritornavano alle loro case. Anche i disertori, per l'amnistia e perché uno strano paese, quello mio, quello che ha avuto un eccezionale numero di Caduti, taluni arditi che ricordo, li aveva nascosti nelle pieghe delle sue terre. Una di queste si chiamava emblematicamente Accovaturo e mi apparteneva, ma il massaro, così si chiamava, li aveva nascosti, senza avvertire chi della terra era proprietario, per la semplice ragione che questi erano figli di mamma. Con questa motivazione (!) mio padre, pur avvocato civilista, e all'oscuro di tutto, dovette difenderlo in tribunale.
La mia storia degli inizi degli anni '20 nel paese d'origine sta per finire. Dovevo e volevo crescere: come a molti giovani del Sud mi attribuivano con particolare insistenza e perentorietà doveri che avrei dovuto assolvere nella scuola, per la stessa tradizione familiare, e meglio nella vita, avendo di fronte anche le necessità della vecchiaia.
Proprio con questa prospettiva, di doveri anche per lui, e da avvocato affermato, mio padre si accingeva ad iniziare a Roma la sua nuova attività professionale ed anche di docente universitario: aveva 48 anni e ricominciava da capo.
Alla vigilia dell'anno scolastico, dovevo iniziare il corso della quinta ginnasiale al Visconti di Roma, dove i miei compagni di classe erano Giorgio Amendola poi famoso per la sua militanza comunista, ma allora a noi noto perché figlio di Giovanni Amendola, ed aveva, da adulto quale appariva nel vestito, il vezzo di tentare di pizzicare la professoressa di storia naturale che non se ne avvertiva, oppure un Capalozza, successivamente giudice della Corte Costituzionale, oppure un Pietro Grifoni, esponente comunista esperto per l'agricoltura e così via.
Con mio padre partii così per Roma, precedendo di qualche giorno mia madre e mia sorella. Mio padre così pretendeva che non avessi perduto alcun giorno di scuola.
Nulla egli immaginava del corso degli avvenimenti politici di quei giorni. Eppure aveva gli occhi aperti sulla politica. Sapeva anche scegliere i giornali che doveva leggere (e probabilmente ho cercato di imparare molto da lui anche a questo riguardo). Ebbene, lui non immaginava la marcia su Roma, pensava anzi a Nitti come valvola di sicurezza e di riferimento per quanto si attendeva o sperava di ottenere nell'insegnamento universitario.
Anch'io, pur affascinato dal nuovo che mi sembrava di poter trarre dal fascismo - ma in me c'era certo anche la contrapposizione generazionale rispetto a quanto mi esortava a credere mio padre - non ne capivo ed intuivo nulla.
Sennonché il nostro treno per Roma si è fermato a Foggia. Proprio allora era iniziata la marcia su Roma; la stazione era occupata dalle squadre fasciste. La Prefettura era stata occupata. I treni erano fermi. I capi fascisti, con divise anche allora appariscenti, scudisciavano squadristi che avevano compiuto questo o quell'abuso nella buvette della stazione.
La cosiddetta marcia su Roma, quella che io ho visto e vedrò ancora a Roma (ma ne riparleremo), era cominciata lì. Naturalmente, non capii cosa significasse. L'ho vista, tuttavia. E la storia mi ha detto poi cosa avesse significato averla, in una periferia del Sud, potuto incontrare. Iniziavano nientemeno per me poco meno di cinque lustri della storia del nostro Paese. lo inavvertito ed inconscio cominciavo ad essere uno dei tanti: a Roma, in una nazione che cominciava ad apparirmi tutta intera.

(1 - continua)


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