§ La notte dell'iguana / La morte

Solitarie croci del Sud




Aldo Bello



Entravo nella sua stanza blindata e gli dicevo: - O tu spegni il tuo registratore, o io accendo il mio -. Falcone sorrideva quando era colto in fallo. Allora cercava di rifarsi: - Un caffè? -, chiedeva. Bere un caffè con lui era segno di grandissima amicizia, oltre che di sprezzo del pericolo. Uno degli agenti di scoria portava due vassoi, in ciascuno dei quali c'erano dieci tazzine: - Roulette russa -, diceva Falcone. E ne sceglieva una. Poi io dovevo fare altrettanto. Gli altri caffè tornavano indietro, tutti pagati, e finivano in latrina. Il bar era di fronte al Palazzo di Giustizia, in posizione sghemba rispetto alla grande facciata bianca, per raggiungerlo si dovevano superare una piazza, un marciapiede spartitraffico con molte, autovetture parcheggiate, una strada cori un discreto traffico.
Il giorno che Borsellino mi disse: - Andiamo a prendere un caffè -, pensai allo stesso rito della scelta della tazzina. Invece no, scendemmo per la gradinata, attraversammo piazza, marciapiede e strada, entrammo nel bar, sorbimmo il caffè, facemmo lentamente il cammino all'indietro, chiaccherando come due uomini qualunque. Gli chiesi: - E' questo spostarti senza alcuna precauzione la tua roulette russa? -. Annuì. Prima di rispondere rifletteva sempre: - Se vogliono farmi fuori, possono raggiungermi dove vogliono, in qualunque momento -. Io sudavo freddo, non mi sentivo sicuro neanche quando mi ero chiuso alle spalle la gran porla con i vetri antiproiettile del Tribunale, diffidavo di chiunque ci stesse dentro. Falcone e Borsellino avevano due stanze un poco miserabili, con vecchi mobili pieni di incartamenti, armadi di vecchio legno pieni di fascicoli: nell'ala a sinistra, isolata anch'essa da una porta di vetro antiproiettile con citofono. Poteva entrarci poca gente: amici fidati, pochi giornalisti, testimoni, imputati, pentiti, Qui battevano il polso e il cuore del pool antimafia. Qui scorreva faticosamente la vita blindata del direttore del pool, Caponnetto, e degli uomini del pool, Falcone, Borsellino, Ayala, Guarnotta, Di Lello... Nomi entrati nella leggenda. Nomi entrati nel mirino di Cosa Nostra Siciliana.
Cosa Nostra Siciliana non è la mafia. La mafia è l'acqua nella quale si muove Cosa Nostra Siciliana. Cosa Nostra, dunque, è una supermafia, uno staff di cervelli che manovra i volani di un migliaio di adepti in Sicilia, di altrettanti in Campania, di tre o quattrocento in Calabria, con deleghe precise a camorra e 'ndrangheta. E' questa supermafia che ha creato la tela di ragno nelle, Vandee meridionali, che ha organizzato e consolidato gli intrecci politico-affaristici, che agisce in virtù e in funzione di una sua legge e di un suo ordine sociale.
Gli uomini di Cosa Nostra noi li conosciamo proprio tutti. Abbiamo nomi e cognomi di tutti i boss, abbiamo disegnato una mappa abbastanza precisa dei loro affari, insieme con quella delle aree territoriali entro le quali le "famiglie" possono agire. Accade tuttavia che noi siamo in grado di fare molta sociologia e quasi altrettanta storia su quel che è stata e su quel che è Cosa Nostra; ma, quando si tratta di passare dal piano teorico a quello pratico della lotta a questa supermafia e all'acqua entro la quale vive,, si muove, aggrega, intraprende, si sviluppa, il discorso si inceppa e lo Stato, oltre qualche eccezione, sembra restare sulla difensiva. E' una scelta? Certo, è proprio quel che vuole Cosa Nostra, che invece è costantemente in fase offensiva, non solo con mire aggiustate contro obiettivi 'politici" (da La Torre a Mattarella, a Lima), ma anche con la determinazione di annientare le migliori strutture investigative. Questa supermafia incominciò con l'eliminazione di Cassarà e di Montana, poi passo per Chinnici (con la prima autobomba) e per il prefetto Dalla Chiesa, e giunse a Livatino. In seguito, il suo implacabile tam tam intravide nel maxi-processo istruito dal pool antimafia e nello smantellamento di alcune potenti cosche fra Palermo, Marsala e Trapani un primo concreto segnale di pericolo per la propria esistenza, e intuì che il pool stava per raggiungere una lettura in chiaro dei suoi nuovi codici di comportamento, delle sue alleanze, delle complicità interne e internazionali. il pool stava per giungere alla Cupola. E stava per giungerci malgrado le resistenze opposte non solo dai boss, ma anche da importanti pezzi dello Stato. Cosa Nostra non è un retaggio culturale o antropologico, è un'organizzazione perfetta che manovra risorse immense, capitali giganteschi, imprese multinazionali; che usa la leva politico-affaristica attraverso la contrattazione diretta, riservata e condizionante di cospicui pacchetti di voti; che non esita a far ricorso al suo braccio armato e alle sue migliaia di cecchini se la sua legge e il suo ordine sociale siano messi in discussione. In nome di tutto questo, Cosa Nostra Siciliana ha cancellato dalla faccia della terra isolana politici e magistrati e investigatori, e continua a minare l'autorità (scarsissima) e l'autorevolezza (ormai quasi inesistente) dello Stato in un Far West da ventesimo secolo, qual è il Sudovest italiano. Soprattutto, continua a cancellare la memoria storica dell'antimafia, gli autentici archivi viventi, gli uomini che avevano capito molto di più di quanto avevano scritto nelle cane processuali.
Qualcuno ha parlato di ostruzionismi indegni e indecorosi a proposito dell'implacabile avversione di certi personaggi nei confronti della Superprocura e del decreto antimafia; di comportamenti incredibili di giudici di Corte d'Assise d'Appello e di giudici di Cassazione, entrati di diritto nella storia delle assoluzioni di boss e di killer malgrado le agghiaccianti confessioni di pentiti attendibilissimi, (i nomi di Barreca e di Carnevale sono sulla bocca di tutti),- di strutture investigative bloccate da ignobili burocrazie; di responsabili nazionali delle polizie incapaci di agire, e soprattutto di prevenire, senza che questo sia sufficiente a farli defenestrare. Tutto questo è vero, e niente di tutto questo è nuovo, neanche la realtà che ci pone di fronte a una C'osa Nostra Siciliana aggressiva e a un cartello del crimine modernamente strutturato, da una parte, e dall'altra a strutture statuali fatiscenti, scoordinate, disarmate, irretite da leggi contraddittorie o ambigue o inefficaci, quando non sono in concorrenza fra di loro, con vantaggio solo per il nemico che dovrebbero battere. C'è in Italia un partito dello sfascio per il quale rendere efficiente la polizia, snella l'attività della magistratura, propositiva l'azione dei servizi segreti, determinante l'apporto dei pentiti, significa giungere all'anticamera del fascismo. E si tratta in sostanza di figuri che stanno garantendo l'involuzione liberticida della società. E' terrificante dover constatare che, di fronte alla magistratura di Falcone e di Borsellino, c'è quella del Consiglio Superiore della Magistratura, di Carnevale e di Barreca; che di fronte ai pentiti Buscetta, Spatola, Calcara, Messina, Mutolo, Calderone, Giacomo Filippello, ci siano "talpe`, spie, doppiogiochisti in tutti i gangli dello Stato, e ci siano ancora e sempre latitanti i Riina, i Provenzano, i Santapaola, i Madonia, i Minore, gli Zanca, corleonesi, gelesi, trapanesi, nisseni, catanesi, palermitani di tutti i quartieri, e via dicendo.
Nel settembre '82, un paio di settimane dopo l'assassinio di Dalla Chiesa, Leonardo Sciascia scriveva: "So per certo che il generale escludeva la possibilità di una collusione tra mafia siciliana e terrorismo politico. Giustamente. Ma credo che non prendesse in sufficiente considerazione la qualità "eversiva" dei delitti di mafia avvenuti negli ultimi anni e da cui è possibile arrivare alla constatazione di un mutamento, Il mutamento: cioè "la trasformazione in "multinazionale del crimine", in un certo senso omologabile al terrorismo e senza più regole di convivenza e connivenza col potere statale e col costume, la tradizione e il modo di essere dei siciliani". Il mutamento: la dittatura della supermafia nel Sud, e la guerra di Cosa Nostra contro lo Stato. Non l'Italia, forse, ma certamente il Sud come la Colombia. Com'è potuto accadere?
Dio solo sa quanto, in questo nostro disgraziatissimo Paese, ci sia bisogno di opposizione,quanto, in questo nostro generoso e terribile Sud, ci sia bisogno di coscienza critica. Perché, allora, si è finiti nel baratro?
La cittadella della politica costituiva il luogo sacro nel quale si coltivava l'unità del gruppo e nel quale si mobilitava il consenso e si stimolava l'azione collettiva in funzione di un progetto di società. La politica, perciò, contrapponeva nella rappresentazione collettiva il tempio alla piazza, il bene comune agli interessi di parte. La rappresentanza doveva essere rappresentanza libera (nel senso weberiano) e non rappresentanza di interessi. Dunque: la politica garantita non dalla quantità, ma dalla qualità dei rappresentanti. Per questo l'opposizione non aveva neanche bisogno di essere numerosa. Erano sufficienti pochi deputati intelligenti e preparati per mettere in difficoltà qualunque governo. Bastava l'arlicolo di fondo di un grande direttore di giornale per far cadere un primo ministro.
Ora, il senso della rappresentanza e il ruolo dell'opposizione sono radicalmente mutati: hanno invaso e trasformato la cittadella della politica. La politica rappresenta non più il tempio, ma il mercato, non più la custodia dei valori sui quali fondare l'unità del gruppo, ma il terreno di prova e di applicazione della ragione calcolante di parte. La rappresentanza è scaduta a rappresentanza di interessi, i deputati a delegati di parte, e l'opposizione è diventata morbida, contrattata, consociativistica, ansiosa di occupare la posizione di centro dello schieramento politico. In questa ricerca della forza numerica e di una collocazione sempre più "convergente" è naufragata la funzione dell'opposizione, insieme con quella della coscienza autenticamente critica. I luoghi dell'opposizione sono diventati incerti e instabili. Invischiata negli schemi della ragione calcolante di parte, l'opposizione ha perso la propria identità, la coscienza critica ha perso l'antica forza. Fanno anch'esse parte della logica del mercato politico. Non dissacra più un potere che, concentrandosi nel presente e netta gestione dello status quo, ha rinunciato alla contrapposizione fra morale e interesse, fra senso della politica e gestione degli affari. Sta accadendo così che là dove gli intrecci sono ancora forti, come nel Nord e in alcune aree del Centro e del Sud, un Di Pietro è libero di agire almeno fino ad un certo punto, e comunque fino alla rigenerazione della classe dirigente e all'emersione di una nuova classe, presumibilmente con le mani meno sporche, ma pur sempre con fortissimi interessi di mercato (produzione al Nord, consumo al Sud, sempre più consolidati); mentre là dove quegli intrecci incominciano a venir meno, o saltano, in pane almeno, i Falcone e i Borsellino vengono dilaniati per tritolo, dopo che non son valse a nulla le guerriglie portate loro da pezzi dello Stato, appunto, "indecorosi e indegni".
Così, un po' tutti noi abbiamo perso la nostra migliore parte civile, i meridionali che difendevano il Sud pulito, laborioso, depredato, ricattato, offeso in mille modi e in mille modi vilipeso. Inutile roulette russa dei caffè, inutili passeggiate verso il bar palermitano, amici polverizzati nei cieli malsani e nelle giungle velenose di un'Italia odiosa. Chi sarà il prossimo? Quanti sono i morti che camminano? Coraggio, Nord; coraggio, Roma; coraggio, Palermo: il gioco al massacro è aperto. Quanti e quali nomi, ancora, sulle croci del cimitero dei grandi solitari del Sud?

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